Guareschi, prigioniero con dignità

Un libro-testimonianza sui 400 giorni in carcere a Parma

È uscito per i tipi dell’editore Rizzoli il libro-testimonianza dei 409 giorni trascorsi da Giovannino Guareschi nel carcere di San Francesco a Parma. Caro Nino ti scrivo (BUR, pagine 372, con illustrazioni in bianco e nero e 16 tavole a colori, euro 13,50), opera del figlio Alberto, è un capitolo della vita tormentata di uno degli autori italiani più famosi e tradotti nel Novecento. Per cortese concessione di Alberto Guareschi e dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Giovanni Lugaresi e la parte iniziale del primo capitolo del libro, dello stesso Alberto.

NELL’INTIMITÀ DELLA CELLA N. 38

È un Giovannino Guareschi intimo – per 409 giorni nella… intimità di una cella del carcere di San Francesco a Parma – quello che si racconta, attraverso le pagine curate dal figlio Alberto, in questo Caro Nino ti scrivo (Nino era il diminutivo con il quale veniva chiamato in famiglia e dagli amici), capitolo nuovo di una storia straordinaria, nelle sue luci di successi editoriali e cinematografici eccezionali, e nelle sue cupezze per le sofferenze patite, dopo l’esperienza dei Lager nazisti di Polonia e di Germania (1943-1945), nella galera italiana, appunto, in seguito alla condanna nel noto processo per le «lettere di De Gasperi», come si legge nelle Appendici. Emergono in tutta la loro chiarezza e solidità, in entrambi i casi – Lager e carcere – i valori del protagonista: coerenza, dignità, fermezza di carattere, senso di libertà, profonda fede nella Divina Provvidenza, e nessun sentimento di odio. Un capitolo della breve (ma quanto mai intensamente vissuta) esistenza del grande scrittore, poco noto, magari riassunto in biografie pur degne di vivo interesse, ma mai approfondito come in questo volume. Un lavoro di paziente ricerca e di precisa notazione da parte del curatore di queste pagine che si dipanano lungo un «interminabile» (così sarebbe apparso all’interessato) periodo di tredici mesi trascorsi in carcere. Scambi epistolari soprattutto, ovviamente, con la moglie Ennia Pallini (la mitica Margherita del «Corrierino delle famiglie»), con i collaboratori del «Candido» Alessandro Minardi e Carletto Manzoni in primis, e poi Oreste Del Buono o il deputato socialista Alberto Cavaliere, presente sul settimanale sotto pseudonimo; inoltre, testimonianze del maresciallo Mario Pellegrinotti, capo delle guardie carcerarie che – a detta dello stesso Giovannino Guareschi, riconoscente – riusciva a «rimanere civile e intelligente pur non uscendo un millimetro dalla linea del Regolamento carcerario che è la sintesi dell’inciviltà e della cretineria». Basti pensare, detto per inciso, che, come riferito sempre da Pellegrinotti, Guareschi era ristretto in una cella di 3 metri per 2,80. Servizi ridotti al bojolo, che solo dopo qualche mese lascia il posto a un impianto igienico meno indecente. Ancora, attraverso pagine di giornale e colloquio riportati nelle lettere stesse, emergono i rapporti mai interrotti con i Rizzoli, il «Commenda» Angelo e il figlio Andrea, Enzo Biagi, Leo Longanesi, Indro Montanelli, Giuseppe Marotta, Saul Steinberg (dagli Stati Uniti), nonché con quell’ambiente di umanità spicciola (ma ricca di valori: dall’onestà alla generosità all’impegno nei mestieri e nelle professioni) della piccola Roncole non ancora «Verdi», con i volti di personaggi semplici quali Poldén, Pepén, Tamburini, il «fattore onorario» Poli eccetera, semplici, ma uomini veri, seri, capaci, con i quali pur da lontano Giovannino manteneva i rapporti per l’andamento dell’azienda agricola, frutto dei sudatissimi guadagni, senza trascurare campi, vigne, stalle, ristrutturazioni, restauri e rifacimenti di stabili. Una operosità, insomma, mai venuta meno e dimostrata sia nella corrispondenza, sia nei colloqui con la moglie. Ma, ancorché la facciata fosse di serenità e di tranquillità, per non creare preoccupazioni in famiglia, le amarezze non mancavano. Si pensi al brindisi per la carcerazione di Giovannino, in un incontro di intellettuali alla trattoria Bagutta, fatto dal pittore Gianfilippo Usellini, al quale si associarono (testimonianza di uno che c’era) Montale e il dirigente Rai Sergio Pugliese (che smentì). Quasi a conferma di una battuta di Prezzolini: la letteratura non ha nulla a che fare con la vita, nel senso che grandi artisti, poeti, narratori, a volte come uomini valgono ben poco! E si pensi anche all’ostilità dimostrata da tutta la stampa filogovernativa (quella cattolica compresa), che arrivò al punto di descrivere (falsamente) come la sua cella fosse corredata di tutti gli strumenti utili a un giornalista-scrittore attivo. Ben altra era la realtà. A Guareschi era impedito di scrivere per «Candido», e pure di riceverlo e leggerlo. Per qualche settimana andò avanti non solo senza macchina per scrivere, ma perfino senza carta e matita. Una condanna, dunque, ancora più dura, per lui che, informato di quel che i giornali gli riversavano addosso, non poteva difendersi.

Sull’atteggiamento del mondo cattolico, vanno peraltro considerate eccezioni significative: lettere di solidarietà di diversi sacerdoti, l’immagine sacra fattagli pervenire dall’arcivescovo di Milano Montini con la Preghiera del giornalista in occasione della festa di San Francesco di Sales, patrono della «categoria», e l’incontro in carcere col benedettino Paolino Beltrame Quattrocchi che abilmente riuscì a sostituire il cappellano alla messa di Natale del 1954, per pronunciare all’omelia parole comprensibili soltanto a Giovannino. Molti elementi interessanti e pressoché sconosciuti caratterizzano questo capitolo della vita del Nostro, come l’idea, la possibilità, espiata la condanna, di espatriare in Argentina, invitato dal mitico zio paterno Achille; sogno accarezzato per qualche tempo, poi abbandonato, mentre sarebbe andato a buon fine il progetto per l’acquisto di una casa a Cademario, alle porte di Lugano. Si ha poi conferma della falsa notizia di stampa circa la richiesta di grazia al presidente della Repubblica da parte di Ennia o dello stesso Giovannino. E si tocca con mano lo stretto rapporto di stima e affetto manifestatori da parte dei lettori, con oltre 27.000 fra lettere, biglietti, cartoline ricevute, a incominciare dalle 200.000 firme all’appello «Guareschi non deve andare in galera» apparse sul «Secolo d’Italia» dopo la condanna. Al centro di tutto, due elementi fondamentali: la testimonianza di fede nella Provvidenza, del senso della sofferenza, dei tempi di Dio (che non sono i «nostri tempi») e l’amore per la moglie e la famiglia. Pensieri e considerazioni espressi in una prosa asciutta, sobria, essenziale, priva di qualsiasi retorica, con l’aggiunta di qualche felice battuta umoristica. Se «l’ingiustizia umana lavora per la Giustizia divina» è altrettanto vero per Giovannino che tutto procede secondo «i piani prestabiliti dalla Divina Provvidenza che, grazie a Dio, non coincidono con quelli prestabiliti dalla DC». E qui il pensiero va all’irridente battuta sulla Signora Germania in quel brano scritto nel Lager, dove aveva imparato «quali siano i valori veri ed essenziali della vita»… Dio, Patria, Famiglia, secondo la professione di fede mazziniana, dunque? Dio, tutto; Patria (rivelatasi per lui matrigna), poco-niente; Famiglia, alla grande.

Non a caso, Guareschi sottolinea un gesto della figlia undicenne – un disegno accompagnato dalla dedica: «Da Carlotta in segno d’affetto sperando che, benché disegnata, questa Madonna ti protegga» – spontaneo, candido, luminoso atto d’amore per il babbo. Del rapporto tra Giovannino e la moglie Ennia il lettore troverà esemplari espressioni nelle tante pagine dello scambio epistolare all’insegna di una sincerità e di una profondità emblematiche di uno strettissimo legame affettivo, oltre che di carattere forte, di un coraggio e di una capacità di sacrificio pure da parte di Ennia, che sa capire, accettare la condizione del marito, accompagnandolo lungo un percorso di amarezze e delusioni che condivide pienamente. E se, infine, poteva essere definita ironicamente «Vedova Provvisoria», toccante nella sua semplice verità appare quanto un giorno Giovannino le scrive: «Cara e fedelissima compagna dei miei giorni lieti e dei miei giorni tristi…». Ecco, le parole giuste, nella loro semplicità, il tono giusto, a dare l’immagine del sentimento, della considerazione per Ennia. A quei tempi, i tempi di Guareschi, appunto, si sarebbe detto che veramente i due erano fatti l’uno per l’altra e l’una per l’altro. E oggi? … In un mondo che parla tanto di amori ma non sa che cosa sia l’Amore? Una favola bella d’antan, dunque? No. Diremmo: una bellissima storia vera, avvenuta in un «mondo piccolo» geograficamente, ma sconfinato umanamente, moralmente, spiritualmente, fra Parma e Roncole, fra la cella numero 38 di un antico convento trasformato in carcere e una grande casa in mezzo agli alberi.

Leggere per credere.

Giovanni Lugaresi

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«Nino, ghe zò dabàs Scelba che at vól parlär!»

Nei primi giorni di maggio del 1945 i miei genitori sono a Milano nella nostra casa di Via Righi. Mio padre deve riunire la redazione per preparare il prossimo numero del «Candido» e mia madre ha l’importante compito di bloccare gli eventuali visitatori per lasciarlo lavorare tranquillo. Mio padre si riunisce con i collaboratori nel suo studio al primo piano e, dopo la «seduta», scrive i pezzi ed esegue i disegni di sua competenza. Verso le undici finisce di fare il «compito» ed è pronto per portare il malloppo nella tipografia della Rizzoli che è a poche centinaia di metri da casa nostra, per poi riprendere la strada di Roncole. […]

Improvvisamente mia madre sale nello studio molto turbata e gli dice: «Nino, Ghè zò dabàs Scelba cat vói parlar! Co’ goj da dirogh?». Mia madre parla sempre in dialetto parmigiano con mio padre… Quale importante movente può aver spinto l’onorevole democristiano Mario Scelba, presidente del Consiglio e ministro degli Interni ad interim, fino a casa nostra?

Mio padre il 15 aprile 1954 è stato condannato per diffamazione a mezzo stampa dell’ex presidente del Consiglio Alcide De Gasperi a causa del suo duro commento su «Candido» a corollario della pubblicazione di due lettere attribuite a De Gasperi convalidate da una perizia che ne dichiarava l’autenticità.

De Gasperi lo ha querelato con «ampia facoltà di prova» e due mesi dopo si è svoto un velocissimo processo nel corso del quale in pratica non gli è stata concessa l’ampia facoltà di prova promessa. La Corte non ha accolto le richieste della difesa di mio padre di eseguire delle perizie e di ascoltare i testimoni a suo favore né ha tenuto in considerazione la perizia di parte, decidendo che il luminoso alibi morale di De Gasperi rendeva impossibile credere che avesse scritto quelle lettere, tenendo conto che in sede processuale aveva giurato che erano false. Da qui la sentenza di condanna a un anno di carcere. Mio padre tre anni dopo scriverà su «Candido»:

«Non voglio rivangare vecchie storie che sono diventate polvere di tribunale e di galera: Dio sa come effettivamente sono andate le cose e questo mi tranquillizza in pieno. Né voglio rivedere posizioni che non possono esser mutate in quanto assunte per solo suggerimento della coscienza. Voglio semplicemente rendere omaggio alla verità e riconoscere che, al confronto dei campioni politici di oggi, De Gasperi era un gigante».

Dando così un’ulteriore testimonianza della sua dignità intellettuale e della sua serenità di giudizio. Chissà cosa scriverebbe oggi, considerando gli attuali «campioni politici».

Anch’io non voglio rivangare quella vecchia storia ma fare soltanto la cronaca del periodo trascorso da mio padre nel carcere di San Francesco a Parma, per rendere omaggio alla sua memoria e raccontare la straordinaria favola delle ventisettemila lettere e cartoline che i suoi lettori gli hanno inviato durante la sua detenzione e subito dopo la sua liberazione. E di quelle numerose che gli stessi lettori hanno inviato a Roncole in quel periodo alla mia famiglia per consolarci e farci sapere che non lo dimenticavano.

La sentenza che condanna mio padre a un anno di carcere ha suscitato grosse polemiche, molte persone ritengono autentiche le lettere attribuite a De Gasperi, una gran parte dell’opinione pubblica è convinta che la decisione della Corte di non concedergli di difendersi sia una palese ingiustizia e molti chiedono che De Gasperi rimetta la querela. Mio padre subisce il verdetto ma non riconosce la validità del procedimento giudiziario ed essendo una persona coerente, non usa l’arma di difesa che la giustizia gli fornisce decidendo di non appellarsi contro la sentenza, pur sapendo che non avrebbe potuto usufruire della condizionale (già utilizzata per una condanna per diffamazione di quattro anni prima) e quindi sarebbe dovuto andare in prigione.

La Democrazia Cristiana ha sentore di malumori di gran parte dell’opinione pubblica ed è consapevole che il termine entro il quale mio padre può ricorrere in appello è vicinissimo. È credibile l’ipotesi che, temendo un forte calo di popolarità (allora il partito era molto forte), abbia fatto un tentativo per aggiustare in qualche modo la situazione, salvando la «capra» della DC e i «cavoli» di Giovannino. Cercando cioè, con l’intervento personale di Scelba che, in qualche modo, avrebbe dovuto intimorire mio padre, di convincerlo a ricorrere in appello. Probabilmente in quel caso era già prevista un’assoluzione per insufficienza di prove. Assoluzione che può andar bene per chi ha la coda di paglia ma non per mio padre – sicuro di essere dalla parte della ragione – perché quel tipo di assoluzione avrebbe lasciato cadere su di lui l’ombra del dubbio. La richiesta di Scelba non ha fortuna perché mio padre gli fa ri-spondere da mia madre di non aver tempo per riceverlo perché è in ritardo con la consegna del lavoro e la tipografia sta per chiudere.

Nessuno ha mai parlato di questo blitz di Scelba in casa nostra e anch’io e mia sorella non ne abbiamo saputo nulla fino a quando, nel 1997, Leopoldo Sgavetta, Poldén, ci ha raccontato quell’episodio ed era presente anche Alessandro gnocchi che ne ha data testimonianza nel suo libro Guareschi: una storia italiana. Poldén  oltre ad essere stato il bravo e fedele esecutore di tutti i lavori di falegnameria per casa nostra è un grande ammiratore di mio padre tanto che, per manifestargli la sua solidarietà, ha assistito il mese prima, all’udienza finale del processo De Gasperi assieme all’amico roncolese Ugo Casoni.

L’atmosfera nell’Aula era avvelenata e ostile a mio padre. Carletto Manzoni, presente assieme ad Alessandro Minardi, ha segnalato la presenza di Poldén su «Candido» in un’accorata Lettera al falegname delle Roncole … Mio padre conclude il suo racconto a Poldén:

Quando Scelba è arrivato io avevo già finito il lavoro; ho continuato a camminare avanti e indietro nello studio per tutto il tempo e ho fumato un pacchetto di sigarette, ma quel signore [ha usato un altro termine] se n’è andato con le pive nel sacco perché certamente voleva convincermi a ricorrere in Appello!

Quando Poldén ci ha raccontato quell’episodio mia sorella ed io abbiamo pensato subito al coraggio di nostra madre che ha «bloccato» Scelba, il «sergente di ferro» della DC. Il gioco di Scelba era chiaro e lo ha spiegato Emilio Giorgi in un articolo apparso nel 1954 su «Il Conciliatore». […]

Il mese prima il «Secolo d’Italia», quotidiano del MSI, ha invitato «l’opinione pubblica nazionale a pronunciarsi contro il carcere a Guareschi impegnandosi a «pubblicare i nomi di tutti coloro che ci scriveranno, riferendo anche il loro pensiero». La raccolta e la pubblicazione delle adesioni inizia il 21 aprile e termina il 26 maggio 1954 e i fascicoli con oltre 200.000 firme […] Ho fatto scorrere i nomi e le dichiarazioni a favore di mio padre notando che il leitmotiv della maggioranza degli interventi è una richiesta di giustizia – dato che mio padre era stato condannato senza che gli fosse stata concessa la facoltà di prova – e l’invito a De Gasperi a ritirare la querela. Tra le prime adesioni quella di Gino Cervi: «Io Peppone, creatura di Guareschi, desidero che il mio creatore non vada in galera». Don Camillo lo segue a ruota e Fernandel invia al «Secolo d’Italia» un telegramma dal Marocco: «VOUS A-DRESSE MON ADHESION – CLEMENCE NOTRE AMI GUARE-SCotFERNANDEL – TAROUDANT MAROC…».

Alberto Guareschi

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