Ariano nel Polesine: la Guerra dei Barberini, 1643-44

La comunità, scampata agli orrori per essersi data in potestà a Venezia, eresse un altare in onore della Beata Vergine

È noto che i territori di Ariano e Corbola, come quelli della Transpadana Ferrarese, vennero accorpati al Veneto per effetto dei negoziati (Congresso di Vienna) svoltisi nel 1814-15 tra le potenze che avevano sconfitto Napoleone. Il Lombardo-Veneto venne assegnato al dominio dell’Austria.
Pochi sanno che più di un secolo e mezzo prima, nel giugno 1643, durante la guerra detta di Castro o dei Barberini – iniziata nel Lazio ed estesasi alla zona padana – Ariano scelse di darsi spontaneamente alla Repubblica di Venezia. La guerra terminò il 31 marzo 1644. Nel trattato di pace le parti in conflitto si impegnarono a ritirare i contingenti militari, rilasciare i prigionieri, impedire che la soldatesca si abbandonasse a violenze. Il 19 luglio 1644 Ariano, dopo più di un anno di appartenenza alla Repubblica, tornò a far parte dello Stato pontificio, legazione di Ferrara.

Tutto cominciò nel 1641 quando le milizie del papa Urbano VIII Barberini occuparono con un pretesto il ducato di Castro e Ronciglione (Viterbo), dominio del duca di Parma Odoardo Farnese. Si mise in moto il sistema delle alleanze: Venezia per prima appoggiò il Farnese. La seguirono il granduca di Toscana e il duca di Modena, per vari motivi ostili al papa. Seguì la guerra aperta verso la fine di maggio 1643. Le truppe veneziane, varcata la linea di confine della Transpadana ferrarese, espugnano i forti di Ponte Lagoscuro, Ficarolo, Melara e si impadroniscono di terre e villaggi copiosi di abitanti lungo le rive del Po fino al mare. Molte famiglie di Crespino e di Ariano, terrorizzate dalla furia delle soldatesche, cercano rifugio ad Adria.

Il 3 giugno una flotta veneziana, al comando di Nicolò Dolfin, assale e mette in fuga il presidio papalino all’imboccatura del Po di Volano. La torre e l’osteria sono date alle fiamme. Reparti di cavalleria di stanza ad Adria e a Polesella prendono simultaneamente possesso di Crespino, Papozze e Corbola.
Due giorni dopo i veneziani, rinforzati da truppe giunte via mare, muovono dal forte della Donzella, attaccano ed espugnano il forte delle Bocchette, ultimo presidio nemico rimasto nel basso Po, incendiano le torri dell’Abbate e di Goro, quindi risalgono il Goro e puntano su Ariano.

Giunte all’altezza della località di San Basilio le barche armate fecero una sosta e proprio qui i rappresentanti laici della comunità, l’arciprete don Giovanni Tabarini, e i frati minori Francescani riformati (padri zoccolanti) incontrano Nicolò Dolfin, alla cui carità raccomandano il rispetto delle donne e dei beni. Il 9 giugno 1643, dopo che i maggiorenti ebbero formalmente espresso la volontà di sottomettersi (darsi in dedizione) alla Serenissima, il Dolfin entrò nel paese, accolto “con grandissima consolazione dal popolo”.

Qui è opportuna una nota. Nicolò Dolfin (Venezia, 1592-1669), beneficiario del testamento dello zio paterno cardinale Giovanni e da altri parenti ecclesiastici, rafforzò la propria posizione economica con l’acquisizione di vari possedimenti e l’usufrutto di beni immobili. Inizia la sua carriera politica ricevendo nel 1623 l’incarico di capitano di Vicenza, dove giunge animato dalla ferma intenzione di amministrare in modo imparziale la giustizia. Il 31 agosto 1642 viene eletto provveditore ai Confini in Polesine. Riporto la descrizione fatta da Gino Benzoni nel Dizionario Biografico degli Italiani (vol. 40, 1991) della sua attività nella zona basso polesana: “…per circa due anni, sorveglia e ricaccia gli andamenti del nemico, vigila guardingo in terra e in mare per la conservazione di questi posti, sequestra imbarcazioni pontificie, sovrintende a lavori di fortificazione, rassegna truppe, sferrando, inoltre, ogni tanto efficaci mosse offensive… Conquista di sorpresa il forte delle Bocchette, posto importantissimo, poco discosto dalla sacca di Goro, dove un coraggioso soldato, fingendosi disertore, s’è introdotto per abbassare – quando, nottetempo, i commilitoni l’assaltano – il ponte levatoio. Agevole poi, per il Dolfin. impadronirsi delle due torri fortificate, una detta dell’Abbate e l’altra di Goro, che cedono senza resistere. Immediata segue la resa d’Ariano, la cui popolazione lo scongiura di poter rimanere sotto la Repubblica, mentre il Senato, a riconoscimento della sua felice impresa, lo elegge savio grande. Reso baldanzoso dal successo, Dolfin non si limita alla sorveglianza e, notato a Capo di Goro (Codigoro), un concentramento di truppe barberiniane ivi trinceratesi, temendone un’azione offensiva, la previene attaccandole e sbaragliandole. Poco dopo mette in fuga un altro contingente pontificio nei pressi d’Ariano.

Girolamo Brusoni nel libro Istoria d’Italia (Venezia, 1676) mette in luce i comprensibili timori e la scarsa affezione verso l’amministrazione pontificia che avevano spinto gli abitanti a una drammatica scelta di campo. Gli arianesi, spaventati dai successi dei veneziani ma anche delusi dal governo dei Barberini, scacciata prima da quel luogo una compagnia di soldati a cavallo ecclesiastici, avevano spedito avvisi e messaggi segreti al Dolfin esortandolo ad arrivare ad Ariano prima delle milizie pontificie in marcia da Ferrara. Impadronitosi del paese senza colpo ferire, Dolfin “vi piantò la sedia del suo Governo, e fortificatolo alla moderna, e ruinati i ponti di quei contorni…si diede a scorrere il paese all’intorno, con tanto spavento e danno de’ popoli, che tutti si ritiravano a Ferrara e nei luoghi forti, non vi ristando più sicurezza alla campagna”.

Per prevenire una possibile controffensiva al posto fortificato di Ariano ed assicurarsi il collegamento col mare, ordinò a quattro squadroni, composti da milizie locali territoriali e da cappelletti, di assalire e distruggere durante la notte del 3 luglio Codigoro, cittadina sul Po di Volano, assediata dai veneziani, ma non espugnata per la fiera resistenza di quegli intrepidi terrazzani. Alle sei del mattino gli assalitori ebbero la meglio. Codigoro, nel giro di due ore fu saccheggiata e data alle fiamme, fatte salve le Chiese e le persone. I caduti da ambo le parti furono 102. Inutile il tentativo di soccorso di Federigo De Conti, sopraggiunto con alcune compagnie di armati: la mancanza di munizioni lo costrinse a ritirarsi, lasciando le abitazioni “in preda al fuoco appiccatovi dai nemici”. Il 18 luglio i veneziani tagliano l’argine destro del Po di Ariano. Le acque inondano le terre e le valli circostanti formando una cortina difensiva che impediva l’avvicinamento delle forze papaline.

Nel frattempo Alvise Tiepolo giunge ad Ariano, punto nevralgico delle operazioni. Tralascio episodi e fatti accaduti nel più vasto teatro di guerra – che interessò anche l’Emilia, la Toscana e l’Umbria – e utilizzando i dispacci da lui inviati alla Serenissima, accenno a quanto avvenne nel paese e nel territorio circostante.

Alvise Tiepolo, sessant’anni, discende da un’antica e nobile famiglia che ha pagato un altissimo tributo di sangue: ben cinque fratelli hanno perso la vita per servire la Patria. Pur tormentato dalla malattia che in breve tempo lo condurrà a morte, esegue senza risparmio di energie il mandato affidatogli.Nominato provveditore in campo il 18 ottobre 1643, si sposta continuamente lungo le rive del Po e nei luoghi adiacenti di Canda, Guarda, Polesella, Fiesso, Paolino, Pincara, Trecenta, Ficarolo, Melara, dai quali invia dettagliati rapporti sulla situazione logistica, organizzativa e sul livello di efficienza dei soldati.
Le forze dislocate nel territorio di Ariano, posto di importanza strategica, presidiato da milizie di diverse nazionalità ma prive di un ufficiale superiore in possesso delle necessarie abilità, assommano a 1.903 fanti, di cui solo 1.100 effettivi e 91 cavalieri, di cui 80 adatti al combattimento. Troppi uomini risultano inutilizzabili, infermi o impegnati in altri compiti. Ogni giorno qualcuno si ammala, o per la cattiva stagione o perché la notte si dorme in terra su pagliericci esposti all’umidità. Urge l’invio di cento paia di cavalletti di legno per i malati ricoverati nell’Hospitale.

I soldati a bordo delle barche armate lamentano la mancanza dell’ordinaria razione di pane biscotto. Tiepolo ordina ai migliori capitani, in licenza a Venezia e in Dalmazia, di tornare immediatamente e di restare con gli uomini delle compagnie annientate dalle malattie. Molto opportunamente era stato mandato un medico da Rovigo per curare gli infermi che aumentavano di giorno in giorno. Le munizioni scarseggiavano: oltre alle balle da moschettone da cavalletto, occorrevano miccia e balle da moschetto ordinario “non trovandosene di queste munizioni, che tre sole cassette, dovendo servire per tutti i Posti, e barche armate”. E mentre si appresta ad inviare al capitano del Golfo Francesco Giustinian, quattro barche cariche di soldati, sottolinea che il lungo tragitto di risalita lungo il Po in stato di magra le avrebbe esposte al tiro dei pontifici appostati sull’argine di fronte a Crespino, Guarda e Polesella, e che le altre rimaste all’ancora si trovavano in gran debolezza a causa dei molti ammalati.

L’ingegnere Sebastiano Roccatagliata elabora un progetto per potenziare il fortino eretto a difesa del paese il cui perimetro esterno misura 150 passi (circa 260 metri). La superficie del campo (in mancanza di informazioni precise, suppongo di forma poligonale abbastanza regolare di cinque – sei lati) si aggira attorno ai 5000 metri quadrati. Occorre ampliare la larghezza della fossa che circonda il manufatto fino a 4 passi (6,95 metri) e rafforzare le trincee, comprese quelle di là da Po, con pali, siepi e appostamenti (botti, simili a quelle usate dai cacciatori nelle paludi). In più “si deve alzar la Piazza del forte delle Bocchette, et anco far una strada da esso Forte sino al Po”, per poter transitare e per ricevere i rifornimenti. Erano attesi gli artiglieri da Padova per mettere a punto le armi da fuoco pesanti, essendovi un solo caporale con pochi altri bombardieri di scarsa esperienza.

Piccoli drappelli di papalini assaggiano la consistenza delle postazioni difensive. All’alba del 6 ottobre una ventina di cavalieri, nascosti da una fitta nebbia, si avvicinano alla punta di Santa Maria: accolti a moschettate, si ritirano. Lo stesso accade la notte successiva a Monticelli.
Il Tiepolo si rammarica di non esser potuto intervenire personalmente sul campo “per l’età, per le intemperie dell’aere, ch’ha già cagionato grande flussione di catarro, et per altre indisposizioni”. Insiste quindi a richiedere l’invio di un capo idoneo, rifornimenti di “balle di moschetto da cavalletto e ordinarie”, dispositivi di innesco per le artiglierie (stoppini), cento cavalletti e coperte di lana grezza per i degenti nell’ospedale da campo.

Informato che una barca nemica si era avvicinata alla costa, raggiunge a cavallo il forte delle Bocchette. Due barche nemiche erano giunte presso le bocche Bagliona, Donzella, Donzellina “colà scandagliando, et osservando ben bene”, dopo di che, entrate nella sacca di Goro e rimastevi circa mezz’ora, col favore del vento avevano ripreso il viaggio verso Ravenna.

Il capitano del forte non aveva potuto inseguirle, potendo contare solo su dieci soldati sani. Tiepolo rinuncia all’idea di inviare la sera stessa due barche armate verso le Bocchette “per inseguire et arrestar quelle, che vi potessero capitare” a causa dell’alto numero di infermi, e per le quattro già inviate “all’eccellentissimo Provveditor Generale, delle migliori, et numerose (con molti soldati a bordo)”.

Tutti i presìdi difensivi dislocati lungo il percorso necessitavano di essere rinforzati e riorganizzati. Rientrato alle otto di sera, un informatore riferisce: a Ferrara i pontifici stavano passando in rassegna le truppe e gli armamenti. Correva voce che si preparassero ad attraversare il fiume a Crespino, verso il bosco di fronte alla fornace, avvalendosi “di una giara nel mezzo del Po, che forma più facile il passaggio”.

Due giorni dopo il responsabile del posto di guardia alla punta di Santa Maria segnala che un forte nerbo di cavalleria si aggirava tra Coccanile e Piumaro, sulle rive del Po, di fronte a Crespino.
Gli esploratori, subito inviati nel paese nemico, confermano che in quei luoghi e a Guarda Ferrarese si trovavano forze di fanteria e trecento cavalieri il cui obiettivo poteva consistere o nell’attraversare il fiume verso Crespino o nel controllare l’argine per impedire “qualche taglio, che si potrebbe far nel Po addosso il loro stato”.

Il generale Giustinian, approfittando della stagione propizia, progetta un’azione di disturbo alle armi Barberine. Chiede altre quattro barche armate oltre a quelle dirette verso Polesella in modo da riunire forze sufficienti per incunearsi nel territorio nemico risalendo il fiume.
Tiepolo seleziona duecento fanti da trasportare su quattro barche armate rinforzate. Restano settanta soldati di cavalleria in grado di combattere, mentre la fanteria – detratti gli imbarcati e i molti afflitti da malattie – è impegnata alla difesa dei posti e dei passi più importanti. Proprio allora giunge notizia che il Senato aveva nominato il capo a lungo atteso delle milizie acquartierate in Ariano. All’alba del 16 ottobre, benché sofferente per i postumi della febbre “con affanni, vomito, et doglia di testa”, Tiepolo si prepara a raggiungere il generale Giustinian per concertare un piano, consistente – in linea di massima – nell’attraversare il Po a Polesella “con grossa fanteria, et cavalleria” in modo da attirare il nemico lontano dal punto prescelto per l’attacco. Contemporaneamente le milizie provenienti da Ariano avrebbero potuto, armi alla mano, avanzare verso Copparo e Cologna operando una diversione per poi ripiegare, non potendosi lasciare il posto sguarnito.

Alvise Tiepolo e Marco Giustinian, insieme con alti ufficiali convenuti a Polesella, mettono a punto la strategia dell’operazione. Centocinquanta soldati a cavallo, varcato il Po, risaliranno verso Ficarolo, con l’ordine di inoltrarsi nel paese, invaderlo e, “ove fosse stimar proprio, facendolo tutto dar all’Arma (metterlo a ferro e a fuoco)”. In caso di pericolo era previsto un ritiro a Finale di Modena, in territorio alleato.

Alle sei della sera Tiepolo sale in carrozza per ritornare ad Ariano. Due ore dopo, mentre attraversa Polesella, si fa insistente la voce che i Papalini possano tentar il passo verso Crespino: converrà per prudenza lasciar partire due delle quattro barche verso Papozze per un pronto intervento e tenere all’erta le altre due alla punta, “per accorrere in ogni caso, ove chiamasse il bisogno”. La persistenza della febbre rende durissimo il viaggio. Mentre percorre l’argine del Po nel distretto di Crespino, ha modo di toccare con mano la scarsa efficienza del servizio di vigilanza, non per mancanza di soldati, ma “per errori e confusioni di nomi differenti rivolti da una sentinella all’altra e così mal praticati, e non intesi”, che impedivano il transito non solo a lui, ma alla stessa cavalleria che percorreva la strada. Il comandante responsabile viene ammonito, rimosso e sostituito.

Avendo saputo, da una persona fidata inviata nel paese nemico, che gli Ecclesiastici battevano le strade con cavalleria e fanteria, manda due barche a rafforzare i posti di Papozze e Crespino poi – nonostante il travaglio della febbre – raggiunge la punta di Santa Maria per rivedere “tutte le barche armate et ravvivare colla sua presenza la disposizione di quei soldati”. La barca del capitano Toich è inservibile, altre rischiano di rimanere incagliate nelle secche dell’acqua bassa: subito le trasferisce oltre la punta in modo che possano rapidamente salpare. Ben cinque suoi stretti collaboratori sono ammalati. L’indomani raggiungeranno Rovigo per tentare di riprendersi, sperando nella migliore qualità dell’aria e dei medicamenti.

“Ricevo con le benignissime Ducali di Vostra Serenità la commissione d’invigilare alla buona custodia de’ posti verso le Marine, e d’invader (assalire) le barche d’Ecclesiastici quando movessero a quella parte”. L’ordine parla chiaro: intensificare la vigilanza lungo la costa inviando barche armate con gli effettivi rinforzati e assalire le imbarcazioni nemiche in avvicinamento. Tiepolo si propone, se il male gli permetterà di reggersi in piedi, di recarsi sul posto per impartire gli ordini con cognizione di causa. Il doge Francesco Erizzo gli ha conferito la carica di provveditore in campo, dalla quale gradirebbe essere dispensato per l’età e le indisposizioni, ma che accetta per l’alto senso del dovere e lo spirito di sacrificio verso la Patria.

Circa ottocento fanti papalini si trovavano in territorio rodigino. Altri tremila e un corpo di cavalleria, costituito in prevalenza da dragoni, erano invece sparsi “per quei contorni dirimpetto la Polesella, et altra poca milizia a cavallo più al basso verso Crespino”. A Ferrara le scorte alimentari erano a malapena sufficienti per sfamare la popolazione. Frumento e olio “de’ quali prima vi era abbondanza”, venivano trasportati per mezzo di barchette lungo il Po di Primaro. La consistenza di ciascuna delle quattro compagnie di soldati italiani, mandate dal generale comandante in capo Giovanni Pesaro nel quartiere di Ariano nel mese di settembre, è soltanto di 55 uomini. La loro capacità operativa era dubbia, essendo la maggior parte ragazzi, e da niente. I capitani di compagnia esibivano le insegne del comando, ma solo per mercanteggiare sulla paga, ed erano tanto scarsi di soldati adatti al combattimento, quanto abbondanti di protettori.

Il 20 ottobre, alleggerito dal male mercé del Signor Dio, ispeziona i forti delle Bocchette e della Donzella. Un capo delle milizie territoriali (cernide) di Loreo sorveglia il posto con pochi soldati e per di più “senza pur una caricatura di polvere da sparo, e balle”: subito lo fa arrestare per punirlo come merita. A causa delle malattie de soldati e Capitani, non più di dodici delle 24 barche in dotazione risultano effettivamente utilizzabili per pattugliare la sacca di Goro e la marina, per cui “divise alla custodia di paesi così sparsi, restano impegnate con poco frutto”.

Impedire, come vorrebbe Venezia, il transito sul Po di Primaro alle barchette che trasportavano viveri a Ferrara era quasi impossibile: non conveniva tenere le barche troppo lontane dalla base poiché rimarrebbero preda del nemico, sparso lungo le marine e, se assalite in una sacca o in una bocca ristretta, pagherebbero duramente il trovarsi in una posizione sfavorevole. Muoversi lungo la costa, tenere conto di quello che i luoghi effettivamente permettevano, evitare rischi inutili: questa la linea da seguire.

Il podestà di Adria gli chiede se non fosse il caso di sbarcare nella sponda opposta di Crespino. Tiepolo risponde che un’efficace azione militare richiede la vicinanza dei siti da colpire, una stagione favorevole al rapido spostamento e forze sufficienti. Al momento gli ordini sono: tenere gli occhi bene aperti, pronti a rispondere ad ogni tentativo di attacco.

Il 22 ottobre verso Polesella avvenne uno scontro breve e inatteso. Le forze papaline volevano recuperare un mulino staccatosi dall’argine a Ponte Lagoscuro, trascinato dalla corrente fino a Guarda, “essendoci sopra certa quantità di farina”. Scrive il Tiepolo: “Il colonnello Carrara, gentiluomo di Rovigo destinato da me a quel posto, spedì alcuni soldati Albanesi per trattenerlo, ma parendogli che temessero la forza del nemico, che su l’argine s’era ridotto poderoso assai, se n’astennero. Il colonnello stesso, con alcuni de suoi, coraggioso passò di là per fermarlo; ma poiché il mulino si era spezzato in due per l’impeto della corrente, inseguì il nemico et lo fugò ammazzando un soldato di cernida, facendo prigioniero un dragone, e levandogli due cavalli”. Il prigioniero rivela la dislocazione delle forze pontificie: quattro compagnie di dragoni alla Zocca, una di cavalleggeri a Copparo con un numero imprecisato di fanti pagati. Il resto della riviera era sorvegliato e difeso dalla popolazione locale.

Tiepolo forma una sola, efficiente compagnia di cento fanti di nazionalità italiana, selezionandoli tra le quattro male in arnese acquartierate in Ariano e ne affida il comando al capitano Giovanni Paolo Ricardi, in possesso di sufficiente abilità e attitudine guerresca. Nello stesso giorno consegna diecimila ducati a Nicolò Dolfin per distribuire il soldo alle milizie. È il 28 ottobre. L’indomani parte in carrozza per Rovigo. Durante il viaggio i sintomi della sua malattia si aggravano vistosamente. Giunto a destinazione deve immediatamente ridursi a letto, ospite del podestà Pietro Morosini. Nella notte le sue condizioni peggiorano. Diagnosi: febbre doppia terzana continua. Nonostante ciò scrive: “…sento maggiore l’afflizione dell’animo di quelle del corpo per vedermi impedito la strada alla puntuale esecuzione de’ comandi della Serenità Vostra, come sempre ho fatto… se il Signor Dio mi darà qualche poco di respiro, mi porterò in Campo e dove più mi sarà comandato”. Riprenderà servizio a Trecenta il 22 gennaio 1644, aiutato dal provveditore in campo Filippo Molin. Ma le sue energie stavano per esaurirsi. Rientrato a Venezia il 20 giugno, morirà nel mese successivo, lasciando i suoi scritti che testimoniano un’esemplare dedizione alla patria.

Nel frattempo la guerra di Castro stava per concludersi. La pace, sottoscritta il 31 marzo 1644, riportava alla situazione precedente il conflitto. Una guerra quanto mai inutile quindi, che vide il Polesine depauperato per essere stato teatro di scontri armati e costretto a provvedere al sostegno delle soldatesche acquartierate in vari centri rivieraschi del Po. Ariano, unico paese che, essendosi dato a Venezia, non subì distruzioni di sorta, per ringraziare la Madonna dello scampato pericolo, eresse tra il 1643 e il 1644 un altare dorato che fa tuttora bella mostra di sé nella chiesa parrocchiale di Santa Maria delle Neve, testimonianza della fede dei nostri predecessori.

Riporto l’iscrizione latina, con relativa traduzione, contenuta entro la caratteristica cornice lignea trapezoidale della parte alta dell’altare:

Hanc aram intemeratae Matri dicatam – vota et sumptus Societ.(atis) Sancti(ssimi) Ros.(arij) construere -an.(no) MDCXLIII a bellicis incendiis – hunc populum Consolatrix afflictorum Maria – divinitus liberavit. – Tanti ergo muneris memores – Rev.(erendus) Joannes Tabarinus – Archip.(resbyter) et Vic.(arius) Foraneus – Gasparo Nicolasius Massarius – eregi curavit – Anno Domini 1644.

“Questo altare, consacrato all’intemerata Madre – i voti e le spese della Confraternita del Santissimo Rosario – costruirono nell’anno 1643. Maria – consolatrice degli afflitti, per grazia divina – liberò questo popolo dagli incendi della guerra. – Memori di sì gran dono – il reverendo Giovanni Tabarini arciprete e vicario foraneo – Gasparo Nicolasio massaro – fece erigere nell’anno del Signore 1644”.

IMMAGINI RELATIVE AL TESTO

Territorio della Legazione di Ferrara (ex ducato estense) nella seconda metà del secolo XVII. Nel 1598, con la Convenzione faentina, lo stato della Chiesa si affaccia si affaccia sull’importante arteria fluviale del Po, lo valica spingendosi nella Transpadana ferrarese, acquista i porti di Magnavacca, Volano e Goro e giunge a diretto contatto con la repubblica di Venezia.

Urbano VIII, al secolo Maffeo Barberini (1568-1644), eletto papa nel 1623, assunse il nome di Urbano VIII. Nel settembre-ottobre del 1599, in qualità di chierico di Camera componente della commissione pontificia inviata nel delta per accertare i possibili effetti del taglio di Porto Viro, soggiornò nel palazzo estense di Ariano.

Forte della Bocchetta, costruito nel 1632 dai pontifici sul ramo (detto canale dei burchi) che univa il Po della Donzella al Po di Ariano, per contrastare l’accesso dei veneziani nei terreni alluvionali e nel porto di Goro.

Disegno dell’assedio posto dalle truppe veneziane al forte San Pietro, a Ponte Lagoscuro, con la loro ritirata avvenuta il 3 settembre 1643.

Pianta del forte della Donzella, costruito dai veneziani nel 1632 per reazione al forte pontificio delle Bocchette a una distanza di circa mezzo miglio dalla derivazione del Po della Donzella.

Ariano nel Polesine. Chiesa parrocchiale di Santa Maria della Neve. Altare di legno dorato del XVI secolo, collocato nella parte a sinistra del presbiterio, che nel Seicento accoglieva l’altare della confraternita della B.V. del Rosario.

Ariano nel Polesine. Chiesa parrocchiale di Santa Maria della Neve. L’iscrizione latina, inserita nella parte superiore dell’altare, testimonia la riconoscenza del popolo di Ariano alla Madre Immacolata per essere stato preservato dagli incendi della guerra di Castro o dei Barberini (1642-44).

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