La città e l’emigrante italiano: alcuni esempi letterari
Si conclude, con questa seconda parte, la disamina sul tema dell’emigrazione in Argentina, iniziata nel contributo intitolato “Alla conquista della terra: il fenomeno migratorio”.
L’arrivo in città
Dopo la prima ondata migratoria diretta nei centri rurali al richiamo della terra, i successivi immigrati, non trovando più terreni da coltivare, si riversano nei centri urbani che, in poco tempo, mutano fisionomia. Buenos Aires, il cui nome si deve a un connazionale[1], divenuta capitale della Repubblica nel 1880, è letteralmente invasa da una massa incontrollabile di persone senza una garanzia di lavoro. I tanti “tanos” ‒ a cui si aggiungono spagnoli, francesi, tedeschi, inglesi, irlandesi, russi, orientali, cattolici, ebrei, musulmani, ortodossi…‒ disprezzati o considerati con sufficienza, sono degni di vivere solo in quartieri proletari, i malfamati arrabales, fatti di baracche e di casermoni trasformati in conventillos, dove la vita privata non è più tale. Essi si appropriano di ogni minimo spazio, compresi i terreni destinati, da tempo immemorabile all’allevamento del bestiame, ed ora riservati all’agricoltura. Inevitabile il malcontento della popolazione autoctona, in inferiorità numerica, che risulta refrattaria all’accoglienza e che mette in atto strategie diverse per scoraggiare gli arrivi. Una di queste è il ricorrere agli scrittori appartenenti alla borghesia “porteña”: sull’onda del naturalismo di Zola, essi sviluppano romanzi incentrati sulla figura negativa dell’immigrante povero o di successo[2].
In seguito alla crisi finanziaria del 1890, per la necessità di rinvigorire il flusso di lavoratori, vi è un mutato atteggiamento nei confronti degli emigranti italiani, visti a volte con simpatia e addirittura come elemento fondante le nuove generazioni argentine[3]. Si tende, per lo più a deriderli, come nel caso di José S. Álvarez, meglio conosciuto come Fray Mocho, che crea un personaggio ridicolo, dal linguaggio ibrido, di inconfondibile origine popolare. Sin dal primo libro Memorie di un vigilante (1897) fino ai molteplici Racconti, apparsi dal 1898 sulla rivista Caras y Carretas, l’autore sottolinea, con una certa irriverenza, la mancanza di adattamento degli italiani, i loro comportamenti spesso inappropriati di fronte alle realtà quotidiana. Senza parlare delle donne: per il solo fatto di essere straniere, sono considerate di facili costumi, «ben disposte – osserva Irina Bajini − ad arrotondare il proprio salario di sartine od operaie con occasionali prestazioni sessuali, nell’attesa di emanciparsi assurgendo al ruolo di mantenute di uomini sposati o giovani rampolli del bel mondo portegno» (148). Questo è quanto emerge da una serie di considerazione umoristiche pubblicate durante i primi anni del XX secolo, sempre nella rivista Caras y Caretas, da Félix Lima, implacabile denigratore di ogni tipo di immigrante, preso di mira sia pure con divertenti parodie linguistiche.
Non è un caso se anche il teatro persiste nella difficoltà dell’immigrato di apprendere lo spagnolo, rappresentando un altro gringo che parla una lingua strana, identificata nella variante del Cocoliche[4] ‒ conviverà con il lunfardo, ovveroil gergo della malavita a cui hanno attinto gli autori dei testi del tango ‒, divenuto varietà di riferimento anche per il linguaggio colloquiale. Tale difficoltà è il filo rosso di tutte le opere successive, dove la preservazione dei dialetti è costante, proprio perché la lingua originaria ne permette l’identificazione con il luogo di appartenenza, costituendo una forma di difesa per superare le difficoltà di ogni giorno.
Nell’alternanza di considerazioni, ora favorevoli e ora denigratorie, a seconda della situazione sociopolitica del momento, vi è un’indubbia e progressiva affermazione della figura dell’immigrato italiano e dei suoi valori positivi. Francisco Sicardi in Strano Libro (1894) – la prima di cinque parti[5] – considera l’emigrante come fattore sostanziale nella gestazione della nascente stirpe (Mariani 35); Alcides Greca reclama equità quando, in La pampa gringa (1936), descrive con amarezza l’espulsione dei coloni dalle pianure a sud di Santa Fe; Luis María Albamonte con Puerto América (1942) e Juan Francisco Caldiz con Pasajeros de Tercera (1949) ne esaltano la grande umanità, mentre César Carrizo, autore di Traveling Rapsody (1944), ne riconosce la capacità di lavoro.
È esattamente l’obiettivo perseguito durante il secondo flusso migratorio – coincidente con il decennio del governo di Juan Domingo Perón (1930-1943) – dei nuovi immigrati italiani dal livello di istruzione avanzato, con idee chiare e con competenze tecniche e imprenditoriali, capaci di favorire lo sviluppo industriale del Paese. A differenza dei connazionali che li avevano preceduti, essi riescono a depurare gli stereotipati concetti denigratori e i falsi pregiudizi nei confronti dell’emigrante italiano. Eloquenti sono le seguenti riflessioni di José Cosentino che compaiono nell’introduzione della sua autobiografia: «In queste pagine si riflette la vita di uno dei tanti immigrati che […] grazie allo sforzo personale e all’affanno di migliorare la propria posizione sociale, sono riusciti a progredire e a distinguersi nell’industria, nel commercio, nelle scienze, nelle arti, nella tecnica, in politica, nel lavoro rurale o urbano […] contribuendo al progresso e all’ascesa della Nazione» (p. 6).
Siamo però ancora lontani da una letteratura scritta da immigrati italiani, capace di trasferire il proprio bagaglio culturale attraverso descrizioni di usi e costumi, aspirazioni concrete e metafisiche, di compiere un viaggio di ritorno alla ricerca di un passato nascosto sotto la tristezza o la speranza di scoprirne le radici, per fissare sulla pagina scritta i caratteri basilari di quell’identità personale e collettiva, prima trasmessa solo oralmente di padre in figlio, di nonno in nipote. Ci sono voci isolate, come quella di José Pedroni (1899-1968), figlio di immigrati piemontesi, che propone un canto di sottile poesia.
Bisognerà attendere gli anni novanta del Novecento ‒ con l’eccezione di Gente conmigo (1961) di Siria Poletti, seguito a distanza da La crisalida (1984) di Nisa Forti ‒ per incontrare opere in cui il dramma migratorio esplode con forza dando vita ad una narrazione di grande suggestione. È l’inizio della “letteratura migrante” (Serafin 2014) consolidata in un proliferare di testi caratterizzati da precisi assi tematici e da diversità di stili narrativi; da qui la difficoltà di racchiuderli in un unico genere.
Letteratura migrante
Prima degli anni novanta del XX secolo, il termine “letteratura migrante” (Serafin 2013) non era nemmeno preso in considerazione, poiché gli scrittori (e)immigrati, che scrivevano nella rispettiva lingua madre o nella lingua del paese ospitante, venivano inclusi nella letteratura nazionale, ignorando così la questione transnazionale. Successivamente, si assiste alla pubblicazione di una molteplicità di testi ruotanti sull’emigrazione, considerata nelle diverse sfaccettature ‒ ricordo della terra lasciata, il dialetto, la gastronomia, le tradizioni, la pratica religiosa, l’etica, i valori comportamentali, la tenacia per l’integrazione in loco, le origini, ecc. ‒, generalmente scritto dagli attori stessi del fenomeno che ha sconvolto contemporaneamente l’Italia e i paesi d’Oltreoceano. Sono testi non ancora inseriti in una mappa diacronica con caratteristiche morfologiche e sintattiche essenziali per la definizione di un genere letterario, date le loro differenze che ne rendono difficile l’organizzazione all’interno di una serie omogenea di opere. Caratteristica comune è la presentazione di un particolare momento di crisi, in un clima sociale piuttosto confuso, a volte esasperato, dove è possibile individuare gli ostacoli superati dai protagonisti, che concentrano tutte le loro forze proprio sulla drammatica esperienza, paragonabile a un viaggio iniziatico.
Ciò fa emergere la relazione privilegiata tra (e)inmigrante e società, tra luogo e storia, tutti elementi che entrano nella dialettica permanente di una nuova costruzione culturale e sociale, basata sull’identità multipla. Anche quando si assiste al ritorno in Italia di discendenti di emigrati – di seconda o di terza generazione –, lo spazio si configura come luogo per riconquistare le proprie origini, per qualificare ad un tempo l’appartenenza americana e l’eredità italiana, nonostante la sua identificazione di nuovo “esilio”. Il confronto con l’Italia è tutto sommato una sfida per la l’acquisizione del passato cui guardare senza “vergogna” e per l’affermazione del presente dove l’immigrato ha perduta la connotazione di straniero ed acquisito lo status di cittadino, finalmente integrato.
Solo in un secondo momento a narrare saranno i loro figli, giunti in tenera età al seguito dei genitori, o in un periodo successivo perché impossibilitati a unirsi alla famiglia per una serie di motivi, tra cui quello della salute. Dimostrando di possedere la lingua straniera nelle minime sfumature ‒ rendendo in tal modo omaggio al nuovo Paese in un’adesione totale ‒, essi testimoniano la difficile e multiforme condizione dei migranti, facendo emergere un acuto sguardo straniato sulle nuove società, all’inizio refrattarie ad accogliere lo straniero (Mafud). Seguono le mille insidie quotidiane dovute all’incomprensione linguistica, alla destrutturazione di un quadro mentale consolidato, per acquisire nuovi usi e costumi in una terra che, avida come un “mostro”, inghiotte i volti e i ricordi delle persone care, rimaste oltreoceano a lottare con la forza della disperazione e con tanta dignità.
Da qui l’amarezza e la disillusione che costringono lo straniero a vivere sovente in una condizione di isolamento animico e sociale, recuperando nella memoria i luoghi lasciati, gli usi e i costumi anche alimentari, mitizzati nel ricordo. La nostalgia sgorga come un fiume in piena soltanto per fissare una foto color seppia, o una cartolina dai paesaggi perduti ‒ di cui magari non si conosce il mittente e le domande suscitate rimangono sospese nell’aria senza risposta ‒, per estrarre dalla tasca una lettera sgualcita impossibile da leggere nella sua totalità, per accarezzare una statuetta di legno, intagliata durante i lunghi inverni. È una sorta di conforto che compensa il periodo buio della dittatura militare e le sofferenze infinite, un atto di ribellione per far sentire la presenza e il peso dei bistrattati italiani che, nonostante tutto e proprio grazie all’emigrazione, hanno contribuito allo sviluppo sociale del paese di accoglienza. E così si fa a gara per tramandare la memoria della famiglia, per ricercare la propria identità, o il suo riconoscimento, ricorrendo ad oggetti sempre più selezionati e di un certo valore artistico ed economico; per constatare, oltre all’ingegno creativo e alle abilità manuali di un intero popolo, l’avvenuta integrazione nella borghesia argentina (Serafin 2023). Emblematiche sono le opere di Antonio Dal Masetto che, conquistato equilibro e posto nella società, con la trilogia Oscuramente fuerte es la vida (1990), La tierra incomparable (1994) e Cita en el lago Maggiore (2011) ripercorre un tempo lontano, vissuto in indigenza, ma che è possibile ricordare perché ormai l’emigrato italiano ha raggiunta l’integrazione e ha superato la vergogna dell’emarginazione collettiva.
È indubbia l’importanza della cultura italiana nella formazione letteraria argentina, le cui radici affondano in racconti individuali dove si condensa il dramma di una comunità pellegrina. Nonostante le scissioni, le lacerazioni e le violenze, gli emigrati italiani sono riusciti a creare uno spazio vitale che si fonda sul concetto di relazione, tipico dell’antropologia junghiana. Esso stabilisce, inoltre, la reciprocità delle diverse culture, strettamente collegate alla dinamica dei sistemi culturali ed incentrate, come suggerisce Lotman, sul dialogo. Nell’esplorare, allo stesso tempo, il livello dell’identità individuale e la validità della sfera sociale circostante, si stabilisce una nuova logica di comunicazione, un patto relazionale tra il punto di vista psicologico e quello sociale, del tutto rassicurante perché genera speranza e felicità. Il mondo narrativamente unificabile è ordinato ed equilibrato, costantemente arricchito dall’immaginario popolare del paese d’origine. L’Italia, attraverso le proprie strutture di pensiero, i particolari nuclei di significato mitico, le sue espressioni linguistiche, si riversa nella letteratura argentina, rivitalizzando le forme dell’immaginario collettivo e fornendo un sistema epistemologico nuovamente semantizzato.
Ne consegue l’assimilazione e la successiva trasformazione dei messaggi esterni che permettono di scoprire il passato e di individuare il futuro di speranza, spesso realizzato, da migliaia di nostri connazionali. Con il loro bagaglio di risentimenti e di paure, ma anche di attese fiduciose e di antiche tradizioni, essi hanno superato i confini della patria, per aderire ad un progetto di nazione nuova, entrando nella dialettica permanente di una nuova costruzione, culturale e sociale. La letteratura, con la sua carica simbolica, ha esibito e divulgato le loro sofferenze, gli infiniti ostacoli che hanno dovuto superare, trasformando “povere storie di vita comune” in un’epopea di valore storico e letterario.
I nuovi argentini
Con rinnovata consapevolezza di appartenere ad un unicum nazionale e con l’orgoglio delle proprie origini da cui trarre un modello comportamentale, i nuovi romanzi argentini viaggiano nel tempo e nella storia familiare, costantemente ravvivati dai racconti orali tramandati di generazione in generazione, dove si tende a problematizzare la nozione stessa di “origine”. L’emigrato italiano è assimilato come uno dei numerosi esponenti della realtà argentina, al cui sviluppo parteciperà attivamente. Lo confermano le numerose lettere che continuano a giungere in Italia (Canclini), mantenendo il filo diretto tra mondi lontani e intimamente uniti; lo accerta il fatto che Borges, nell’epilogo dell’Aleph (1949), a proposito dell’argomento del racconto “La espera”, tratto da un episodio di cronaca nera in cui il protagonista era un turco, lo trasforma in italiano per una maggior comprensione da parte del lettore. Ciò ripropone, in maniera critica, il tema centrale della letteratura argentina, ovvero quello relativo alle proprie radici linguistico-culturali: la rivelazione del sapere passato, registrato ed infine recepito, assicura all’emigrato, un potere in termini individuali e collettivi in grado di costituire una nuova e meno incerta “argentinità”.
Nelle nuove terre, intese come spazio edenico senza limite geografico, il discorso letterario si afferma con assoluta novità proiettando il sogno del ritorno a quel giardino perduto che è il Paradiso terrestre. Una dimensione mitico-utopica che si erge a difesa di una realtà inafferrabile per concretizzare la speranza di un futuro, fondato su antiche tradizioni – non è un caso se l’italiano continua ad essere insegnato e parlato correntemente anche nelle sue varianti dialettali – e su nuovi schemi comportamentali.
Seguono le affermazioni fatte dalle seconde generazioni, quelle costituite da emigranti nati in Italia, ma cresciuti e maturati culturalmente in America che, oltre a padroneggiare la lingua spagnola, si sentono argentini a tutti gli effetti, prima ancora di acquisire la nazionalità. José Cosentino di origine calabrese, giunto a Buenos Aires nel 1913 all’età di dodici anni, scrive: «Amavo questa nuova terra e anche se non vi ero nato la consideravo la mia patria. A quel tempo pensavo che la patria non è soltanto il luogo dove si nasce, ma anche quello dove si vive, si gode o si soffre. […] L’educazione e la convivenza con il popolo argentino avevano fatto nascere l’idea di nazionalità prima ancora che decidessi adottarla legalmente» (67-68). Artefici della Storia, questi “nuovi argentini”, ravvivano attese, sogni e speranze, offrendo un contributo sostanziale alla creazione di nuove identità personali e collettive che, attraverso la costruzione di un complesso intreccio di suggestioni e di evocazioni accumulate nel tempo nella coscienza, trovano rilievo nello spazio immenso e incommensurabile della terra argentina, più che mai identificata come “Paese del futuro e della libertà” (O’Gorman 180).
Un coro di voci femminili si alza poderoso per ricercare la propria identità: alle ormai consolidate Griselda Gambaro (El mar que nos trajo, 2001), Ana Cafarelli (Fuego en la Memoria, 2001; Secretos del Alma, 2007; Una canción para Lucía, 2015; Volver, 2016), María Inés Danelotti (Inmigrante friulano, 2004), Maristella Svampa (Los reinos perdidos, 2005), Maria Teresa Andruetto (Lengua madre, 2010) e Susana Aguad (El cruce del salado, 2015), si aggiungono, con accenti diversi, ora napoletani (Virginia Higa, Los sorrentinos, 2018 e Graciela Batticuore, La caracola, 2021), ora calabresi (Nora Mazziotti, Amores calabreses, 2016 e Las cocoliches, 2021), ora modenesi (Ángela Pradelli, El sol detrás del limonero, 2021). Le attuali scrittrici narrano un passato, di cui hanno sentito l’eco in racconti lontani, quasi esotici, ma comunque “familiari”, attraverso situazioni di successo e di affermazione.
Con la raggiunta fusione di sangue e di culture, infine, si è creato quel sincretismo etnico e sociale che caratterizza l’Argentina attuale. L’uomo nuovo, nato dal dialogo tra diverse specificità, custode dello scambio di corrispondenze culturali simboliche, è riuscito a ricreare un ordine sui resti di quello precedente, ormai disgregato. Egli ha riempire lo spazio vuoto con ulteriori valori, altrettanto radicati e vitali, senza lasciarsi dominare dalle insidie della “modernità liquida” la quale, secondo Zygmunt Bauman, caratterizza la società postmoderna, mutevole e incerta, nel senso di un’insicurezza globalizzata. In tal modo si uniscono passato, presente e futuro, vecchio e nuovo mondo. Nella società multipla, ibrida ed eterogenea si confondono, infine, i confini tra icone ancestrali ed eventi reali, tra suggestioni filosofiche ed avvenimenti oggettivi, tra realtà e mito, tra esperienza e immaginazione. Si tratta, in sostanza, di tutto ciò che gli argentini, e per estensione i latinoamericani, considerano l’identità dell’America, di cui gli emigranti sono parte costitutiva e integrante.
La narrativa, scritta da figli e da nipoti di italiani, nati in Argentina, continua a presentare la visione di una società analizzata negli aspetti pragmatici ed esperienziali, seguendo le orme della scrittura migrante del secolo scorso, essenzialmente mimetica. Tuttavia, nell’evidenziare l’opulenza raggiunta dagli immigrati ‒ ormai argentini in tutti i sensi ‒, testimoniata dalla descrizione di oggetti di lusso, romanzi come Amores calabreses (2016) di Nora Mazziotti e Los sorrentinos (2018)di Viginia Higa trasmettono un messaggio implicito (Serafin 2023). Ciò segna la differenza con le opere precedenti, sostanzialmente credibili nel dissimulare l’invenzione, per cui la realtà dell’esperienza non si distingue da quella della finzione, come teorizza Derrida (1990), convinto che nulla esista al di fuori del testo. Il coraggio di intere generazioni a cui ispirarsi, rappresenta una spinta necessaria per superare le difficoltà del presente che, quotidianamente sovrastano una società minata da problemi sociali, economici e ideologici. Per raggiungere questo obiettivo, come evidenziato, gli scrittori e le scrittrici si muovono tra la materia concreta delle cose e lo spirito coinvolto nella memoria.
Più che mai la letteratura, in tutte le sue forme, anche quella considerata minore come le lettere inviate a parenti e amici, nel ricostruire percorsi esistenziali di donne e di uomini, indica una commistione di pensieri ed emozioni, di individui e collettività, di novità e tradizione. Contrasti fondamentali per comprendere un mondo in continua evoluzione dove accettare la diversità comporta un impegno costante, cognitivamente ed emotivamente forte, costringendo a mettersi costantemente in discussione. Il variegato universo nomade dei migranti afferma il potere del margine che la letteratura, mediante l’identità e la voce, esamina nell’idea di rappresentazione sia in senso artistico, sia in senso ideologico.
Biliografia citata
Bauman, Z. (2011): Modernità liquida, 2000. S. Minucci (Trad.). Bari: Laterza.
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Cosentino, J. (1971): El profesor Notinseco. Buenos Aires: Establecimientos Gráficos Continental. Riportato anche in Cattarulla, C. (2003): Di proprio pugno. Autobiografie di emigranti italiani in Argentina e in Brasile. Reggio Emilia: Diabasis.
Derrida, J. (1990): La scrittura e la differenza, 1967. Torino, Einaudi.
Lotman, J. M. (1985) La semiosfera. L’assimetria e il dialogo nelle strutture pensanti. Ed. S. Salvestroni. Venezia: Marsilio.
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Rusich, L. (1974): El inmigrante italiano en la novela argentina del 80. Madrid: Playor.
Serafin, S. (2014): “Letteratura migrante: Alcune considerazioni per la definizione di un genere letterario”. Altre modernità. Numero Speciale Migrazioni, diaspora, esilio nelle letterature e culture ispanoamericane, pp. 1-17.
Serafin, S. (2023): “Los objetos y la literatura migrante en la Argentina del siglo XXI: Amores calabreses de Nora Mazziotti y Los sorrentinos de Virginia Higa”. Artifara 23.2, pp. 12-31. Monográfico: Memorias en movimiento. Objetos y literatura de la migración ítalo-argentina (1960-2020), Coordinado por S. Cattoni (Universidad de Córdoba, Argentina) y E. Perassi (Universidad de Turín), pp. 189-201.
[1] Secondo la tradizione il sardo Lazzaro Griveo, giunto sul suolo argentino, battezza il luogo con il nome di Santa Maria de Bonaria o Buon’aria per ringraziare Santa Maria della Bonaria, protettrice e patrona dei naviganti, particolarmente venerata a Cagliari. Successivamente Juan de Garay fonderà Buenos Aires (Cf. Rusich 14.)
[2] Tra le opere emblematiche ed esemplari di tale visione figurano, per citare alcuni esempi: Buenos Aires desde setenta años atrás (1881) di José Antonio Wilde, ¿Inocentes o culpables? (1884) di Antonio Argerich, La gran aldea. Costumbres bonaerenses (1884) di Lucio V. López, En la sangre (1887) di Eugenio Cambaceres, La bolsa (1891) di Juan Martel.
[3] Lo testimoniano i romanzi di Francisco A Sicardi, Libro extraño (1894), Genaro (1896), Don Manuel de Paloche (1898), Méndez (1900), Hacia la justicia (1902); di Carlos María Ocantos, Promisión (1896); di Adolfo Saldías, Carlos María Ocantos, Bianchetto. La patria del trabajo (1896). Per un approfondimento, cf. Blengino, A.N. Marani, Onega.
[4] Nel Diccionario del español de América di Marcos A. Morínigo, il termine cocoliche viene definito come «Spagnolo macarronico parlato dagli italiani non istruiti» (133). Deriva dal nome di un operaio calabrese trasformato in personaggio nell’adattamento teatrale del romanzo gauchesco Juan Moreira, scritto da Eduardo Gutiérrez e rappresentato per la prima volta nel 1884 dall’uruguaiano José Alcald. La sua parlata ridicola, combinazione di lingue e di dialetti deformati indica, ad iniziare dal teatro popolare, il carattere burlesco italiano, fonte costante di comicità, molto apprezzato dal pubblico.
[5] Le altre quattro parti, che l’autore pubblica ogni due anni, sono: Lázaro (1896), Don Manuel de Paloche (1898), Méndez (1900), Hacia la Justicia (1902).