Giovanni Guareschi e la condizione degli Internati Militari Italiani

Un uomo libero, negli ideali e nel carattere, che dimostrò coerenza tra letteratura e vita

Parlare di Giovannino Guareschi è parlare (anche) di IMI (Italienische Militaerinternierte), e… viceversa. Infatti, lo scrittore celebre nel mondo per i racconti del Mondo piccolo, con don Camillo, Peppone, e il Cristo crocifisso che parla, con sullo sfondo il “Grande Fiume”, appartiene a quella massa dei 600mila militari italiani che all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre 1943 seppero dire (e mantenere) un fermo NO alla collaborazione coi tedeschi, prima, all’adesione alla RSI, poi. E questa testimonianza personale, dettata in Giovannino dalla fedeltà al giuramento prestato al “suo” Re, diventò in quei lunghi sofferti mesi nei lager di Polonia e di Germania, racconto, scrittura, resistenza. Resistenza attraverso la scrittura, attraverso il racconto, appunto, pagine che andava a leggere nelle baracche ai commilitoni per tenere alto il loro morale – in questo, coadiuvato ad altri che oggi definiremmo intellettuali: dal giurista Allorio al musicista e pittore Coppola, dal letterato Roberto Rebora al pittore Novello, dall’attore alle prime prove Gianrico Tedeschi al futuro rettore dell’Università Cattolica di Milano Giuseppe Lazzati…

Scrivere per sopravvivere, dunque. Sopravvivere: a tutto. Alla fame, al freddo, alle malattie, alle angherie perpetrate dai carcerieri nazisti, alla nostalgia: per la famiglia (la moglie Ennia era in attesa di Carlotta, che sarebbe nata a metà novembre), la casa, la Patria.

E furono proprio freddo, fame e nostalgia, per dirla con lo steso autore, le muse ispiratrici di quella “Favola di Natale”, espressione stupenda, profonda, toccante, dell’umanità, della fede, della fantasia, della poesia di Guareschi. Elementi peraltro riscontrabili negli altri libri dell’internamento: “Diario Clandestino” e, postumi, “Ritorno alla base”, “Il Grande Diario”.

Come mai, in quali situazioni-condizioni, Guareschi era stato catturato dai tedeschi, lui, classe 1908, che non vestiva dunque l’uniforme militare? – è scontato chiedersi.

Era accaduto… Nell’ottobre 1942, si erano diffuse voci secondo le quali il fratello minore Pino era disperso in Russia e una sera, dopo una cena con amici, alzato abbondantemente il gomito, Giovannino aveva deambulato per le strade di Milano gridando quel che pensava di Mussolini. Qualcuno lo aveva denunciato e l’indomani ecco l’arresto e la traduzione in questura. Naturalmente, la notizia si diffuse rapidamente in città e alla Rizzoli, casa editrice che pubblicava i suoi libri e la rivista umoristica Il Bertoldo, i vertici si mossero… Morale: Giovannino fu richiamato alle armi e, tenente di artiglieria, destinato ad Alessandria, dove, il 9 settembre 1943, venne catturato dai tedeschi.

Al rifiuto opposto alla richiesta di collaborazione, per il giuramento fatto al “suo” Re, si sentì dire che il “suo” Re era fuggito.

“Affari suoi”, fu la replica. Così Giovannino prese la via del campo di concentramento, dove i tedeschi trattarono i militari italiani non come normali prigionieri di guerra, quindi tutelati da quella Convenzione di Ginevra che nel 1929 pure la Germania aveva sottoscritto, bensì come IMI, appunto… cioè né carne né pesce, per ricorrere ad un eloquente detto popolare, quindi a lungo impossibilitati a ricevere notizie da casa, pacchi dalla Croce Rossa, eccetera.

Fin qui la prigionia, con tutto ciò che quella condizione comportava…

Esiste un rapporto fra lo scrittore dei lager di Beniaminowo, Chezstokowa, Wietzendorf, Sandbostel e l’autore delle pagine successive del dopoguerra su quel Mondo piccolo che si dipanano tra Po e Appennino, nella sua Bassa natìa? – è l’interrogativo che può sorgere spontaneo.

Sì, c’è un filo conduttore, ed è la coerenza fra letteratura e vita, tra vita e valori sempre praticati, per così dire, cioè testimoniati sulla pagina e nell’agire pratico, concreto nella quotidianità. La fede religiosa, e la speranza, di conseguenza: l’affidarsi alla Provvidenza, nel solco della lezione manzoniana; il senso di libertà, che prima di tutto è “stato” interiore, e non tien conto che si sia ristretti in un lager tedesco fra i reticolati o in una galera italiana con finestre sbarrate.

La verità vi renderà liberi (Giovanni, 8), e libero Guareschi lo fu sempre, combattendo la buona battaglia 80 anni fa e poi per tutto il tempo che il buon Dio gli concesse di vivere! Ecco, fra le invenzioni letterarie, le riflessioni, i momenti umoristici nei lager, e i racconti del Mondo Piccolo, il nostro semper idem – sempre lo stesso, Giovannino continuò nel suo Mondo piccolo parmense a condurre le battaglie di fede e di libertà, convinto, come quando era il numero 6865 fra i reticolati, che si può non credere nelle vitamine, ma in compenso, egli credeva in Dio.

Non possiamo peraltro concludere questa breve nota, senza un accenno a una pagina essenziale per capire Guareschi, che troviamo in “Ritorno alla base”.

 Anni dopo l’esperienza del lager, e da poco conclusa quella della galera italiana, lo scrittore decide di tornare nei luoghi dell’internamento in Germania insieme al figlio Albertino, ripercorrendo lo stesso itinerario di allora. Sulla via del rientro in patria, alla fine del lungo viaggio, di sera, si trovano in un locale di Bergen, dove l’autore di “Don Camillo” viene subito riconosciuto festevolmente; gli chiedono autografi e, a sorpresa, una domanda: è la prima volta che viene in Germania? Senza esitare: “la prima volta”, risponde. E qui c’è qualcosa che va ben oltre l’inconfondibile “stile Guareschi”, per farci riflettere e concludere che quello era veramente un UOMO di grande dignità e un CRISTIANO consapevole.

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