Cibo ed emigrazione tra storia, cucina e letteratura

Tradizioni culinarie e sapori antichi come legame con la terra d’origine

Vivere in un mondo globale senza perdere la propria specificità è possibile grazie anche alla funzione simbolica e reale del cibo che rafforza la sopravvivenza di culture, stimola una pacifica convivenza nel rispetto dell’altro-da-sé e fornisce una via d’uscita a situazioni di marginalità. L’utopico banchetto universale sognato da Pablo Neruda potrebbe davvero realizzarsi all’insegna di una concreta fratellanza dei popoli, dove tutti possano sedersi a tavola e mangiare in compagnia. Un auspicio che nasce dal cuore e dalla fantasia di un poeta il cui sogno si focalizza proprio sulla “giustizia del pranzo”.

Per l’originale condizione di “colonia dell’impero europeo”, nella quale convivono molteplici apporti culturali, le Americhe si sono imposte sin dall’inizio come laboratorio d’incontri e di situazioni in grado di anticipare le problematiche che hanno animato il dibattito culturale del XX secolo. Tra le sue tematiche ricorrenti, tuttora in progress, emerge la complessa rete di elementi che danno luogo a movimenti d’integrazione e di repulsione, di fusione e di giustapposizione, sempre parziali e negoziabili. Se l’identità che si delinea nel suo “trans-ire” tra culture diverse, nell’andare oltre le singole limitazioni assumendo contorni poliedrici e sfaccettati, si trasforma in una conquista per ogni società, è fondamentale trovare il punto d’incontro da cui sviluppare una propria specificità.

Già nel 1891 José Martí, patriota e scrittore cubano (1853-1895), a proposito della costruzione degli stati nazionali in America Latina, affermava che è necessario considerare come base iniziale l’“equilibrio degli elementi reali del paese”, senza perseguire costruzioni fittizie. Ed è esattamente questo il tragitto percorso dai popoli americani che, nella riscoperta del valore mitopoietico della memoria e del contesto geografico in cui si sono succedute generazioni di migranti, hanno tracciato i contorni della propria essenza. Il passato è servito come fonte d’ispirazione per mantenere la legittimità di arcaici patrimoni culturali, indispensabili a forgiare una nuova mentalità. Nell’evidente aporia si cela il senso profondo che è stato assegnato alla collettività. Non interessa se a costituirla sono individui che hanno trovato i natali in altre terre: importante è mettere in luce un termine di paragone con l’esperienza di persone diverse, capaci di esaltare gli ideali di rinnovamento della vita sociale.

Il modo migliore per iniziare un dialogo è quando ci si siede a tavola, davanti a un piatto rassicurante della propria tradizione culinaria ‒ che rafforza il senso “sacrale” dell’appartenenza alla comunità delle origini ‒ e a un buon bicchiere di vino: ogni resistenza scompare e l’animo si predispone ad accogliere l’altro, allentando diffidenze e pregiudizi. Le parole scorrono senza inibizioni e i sogni volano alti. Persino il problema della lingua non è più tale: nella convivialità del banchetto si affina la volontà di comprendere, magari ricorrendo alla gestualità e all’allegria.

Non è un caso se all’interno della storia delle letterature, nello specifico quelle dell’America Latina, molte opere contengono sin dal titolo un riferimento diretto al cibo e alle bevande, alle ricette e alla cucina in generale, compresi gli utensili, i contenitori, i calici e il vasellame. Ancor più se tali testi rientrano nella letteratura migrante. D’altra parte, tra le poche cose che, ad esempio, un abitante veneto metteva nel baule, al momento della partenza per le Americhe, vi era proprio la caliera, ovvero il paiolo per la polenta. Lo testimonia anche il monumento all’emigrante che si trova a Nova Padova, nel Rio Grande do Sul (Brasile): sulla piazza del paese, troneggia una “caliera de la polenta”, sorretta da un imponente piedistallo.

Va da sé che, una volta raggiunta l’Argentina o il Brasile, le prime sementi sparse erano il mais ‒ in un viaggio di ritorno ‒ insieme al grano. Ad esse si aggiungono le barbatelle, da impiantare per la produzione del vino, elemento essenziale per i nostri corregionali espatriati. Non è un caso se il simbolo del Municipio di Octavio Rocha (Brasile) è il leone di San Marco che tiene stretto tra le zampe un grappolo d’uva, invece del tradizionale libro.

Nel frattempo, egli si doveva accontentare delle téghe de mato, ovvero i “fagiolini di foresta” che condiva con il succo di erbe acidule definite pan de cuc, dei pignoni, ossia i pinoli delle araucarie, dei brodi di pappagallo o di scimmia. Nonostante l’abbondanza di selvaggina, di carni e di frutti selvatici, ciò faceva rimpiangere la polenta, l’unico sostentamento durante i lunghi anni di “dieta” forzata… e di pellagra. A questo proposito, una volta portato il mais in Europa, sarebbe stato sufficiente prestare attenzione alle usanze culturali delle popolazioni autoctone per notare che esse non manifestavano la pellagra. In effetti, il fattore “antinutrizionale” veniva eliminato con un trattamento alcalino del mais, prima del consumo: la cottura in acqua di calce ‒ nota alle popolazioni andine come nixtamal ‒ delle cariossidi di mais trasforma e completa questo alimento dal punto di vista del nutrimento.

Oggi più che mai, il cibo italiano per qualità organolettiche e per sapori entra in tutti i menu del mondo. Pasta, gnocchi, vino, salumi, gelato, caffè espresso, tiramisù, pizza, hanno perso la loro connotazione etnica ‒ pur conservando il riferimento alla provenienza, evidente a esempio nell’espressione “la vera pizza napoletana” ‒  per assumere carattere internazionale di patrimonio condiviso. Appaiono persino pseudo italianismi quale il “regianito”, una sorta di parmigiano prodotto in Argentina. Tutto ciò ha contribuito al successo del Made in Italy che ha reso famosa l’Italia all’estero.

Di conseguenza, gli italianismi collegati alle nostre ricette, anche regionali, vanno ben oltre l’uso che ne fanno gli emigrati. In Brasile, i cittadini di origine veneti continuano a mangiare bomboloni, torte, fugasse, grostoli, biscoti, soprattutto nelle sagre per i festeggiamenti del santo patrono. In effetti, non c’è ristorante brasiliano o argentino ‒ e non solo ‒ in cui non sia presente un piatto della nostra cucina veneta, dagli immancabili codeguín, risi e bisi, osocol, pasta fazool, minestrùn al tirami su.

La riflessione sul rapporto cibo-migrazioni mette in luce, il collegamento esistente tra donna ed emigrante in quanto entrambi trovano nella cucina un ambiente ricettivo e tranquillizzante a dispetto dell’incombere dei problemi. Se poi le due situazioni convivono in un unico soggetto – la donna –, la cucina si trasforma, almeno per qualche ora, nello spazio proprio, in quella famosa stanza tutta per sé auspicata da Virginia Woolf. Al suo interno, ella dà libero sfogo alla creatività, inventando profumi, dipingendo piatti colorati, rielaborando con le antiche ricette, tradizioni, storie e pensieri che vengono affidati dapprima alle pagine di un diario, ricavato magari dagli involucri di carta con cui vengono avvolti i cibi.

Sono descrizioni soggettive, dove la donna proprio come l’emigrato, ritrova sé stessa e il concetto di collettività. Poco importa se non è la società di provenienza: l’America è più che mai “un sogno audace, avventuroso: una illusione di opulenza, di libertà ampia e vitale”, come scrive Syria Poletti nel racconto “A largo plazo”. Lo stesso sogno che fa dire a Nanetto Pipetta, girovagando affamato per le calli di Venezia, “Evviva la Mérica / Ze grande cucagna, / Se beve e se magna / E ligeri se stà…”. Tali versi condensano il mito carnevalesco dell’Abbondanza e della Cuccagna che, nell’immaginario veneto si concretizza nello spazio americano in toto e non solo in quel Brasile, descritto in veneto-brasiliano da Aquiles Bernardi (fra’ Paulino de Caxias) nella Vita e storia di Nanetto Pipetta nassuo in Italia e vegnudo in Merica per catare la cucagna (1924-1925).

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