Il carcere iraniano di Evin: la negazione dei diritti umani

La vicenda di Cecilia Sala ha avuto un lieto fine ma per moltissimi dissidenti, in numerosi Paesi del mondo, il destino è ben più tragico

Il carcere di Evin è entrato di forza nella parlata italiana con la segregazione di Cecilia Sala a Teheran sul finire del 2024. Ma a noi del PEN International la Evin House of Detention, così come Tora in Egitto, Saidnaya a Damasco, El Guatao a Cuba, Abu Graib in Irak, Sde Teiman in Israele, dicono luoghi di tortura, di isolamento, di detenzione infinita per gli scrittori e giornalisti privati della libertà da regimi ostili. E molto spesso la lunghezza dell’attesa senza motivazioni – uno stato che noi chiamiamo “incommunicado” – è accompagnata da mancanza di generi di conforto di ogni tipo (libri, carta da scrivere, medicine…).

Abbiamo partecipato alla durezza della detenzione della giovane giornalista, senza letto e coperte, sapendo che anche ai nostri scrittori turchi kurdi, ai vietnamiti, ai palestinesi, ai russi e bielorussi, ai latinoamericani e africani non viene risparmiato nulla nelle rispettive prigioni. La nostra azione mira a suscitare attenzione sul singolo caso per sostenere il prigioniero, non abbandonarlo all’isolamento e a coinvolgere il mondo su questi abusi.

La prigione di Evin è stata realizzata nel 1972 ai piedi dei monti Elburz  e la gestione assegnata ai servizi segreti iraniani Savak, direttamente dipendenti dallo Scià. La capacità iniziale era di circa 320 detenuti ma entro il 1977 arrivò ad ospitarne più di 1500. Durante la Rivoluzione Iraniana, nel febbraio 1979, la prigione fu occupata dai ribelli che ne liberarono i detenuti. Questo carcere è stato utilizzato prevalentemente per la detenzione di oppositori politicied è internazionalmente noto per le frequenti denunce di violazione dei diritti umani Nei centri di detenzione iraniani la tortura è praticata sistematicamente. Tra i metodi documentati figurano le frustate, le finte esecuzioni, il waterboarding (semi-annegamento), la violenza sessuale, la sospensione per gli arti, l’ingerimento forzato di sostanze chimiche e il diniego di cure mediche, mentre il soggiorno è sempre in situazione di sovraffollamento. Ma anche quella violenza psicologica della luce sempre accesa, di non concedere colloqui con i familiari. Prigionieri illustri si sono avvicendati negli anni e non tutti ne sono usciti vivi. Sono stati detenuti anche la nota attrice Taraneh Alidoosti e il regista Jafar Panahi: entrambi erano stati arrestati per motivi politici e sono poi stati rilasciati, così come l’avvocata per i diritti umani, Nasrin Sotoudeh.

La morte della giovane iraniana kurda Mahsa Amini nel 2022, mentre era in prigione, ha fatto esplodere molte proteste nelle città creando un movimento “Donna, Vita, Libertà” che ha raccolto la reazione, il dissenso, il malumore delle donne iraniane, dei giovani e degli uomini più aperti.  La motivazione dell’arresto di Amini era legata all’uso del velo non correttamente portato. La reazione del governo e degli agenti della sicurezza è stata fortissima: centinaia di arrestati, uccisi e feriti, inasprimenti della pena di morte (almeno 14), limitazioni all’uso di internet e dell’informazione con ricadute sulla libertà d’espressione. La minoranza etnica più perseguitata è sempre quella Kurda e Baha’i. A seguito delle proteste, nel 2023, dozzine di attivisti politici, insegnanti, studenti e lavoratori sono stati arrestati, torturati e talvolta uccisi, così come scrittori, poeti e artisti con forme di intimidazione pesanti. Alcuni di questi sono ancora in prigione e sottoposti a persecuzioni. La più nota detenuta è sicuramente Narges Mohammadi, vincitrice di innumerevoli importanti premi letterari e soprattutto in ottobre 2023 del Nobel per la Pace. Non le è stato permesso di presenziare alla consegna del premio.

Scrittrice, giornalista, attivista per i diritti umani, Narges Mohammadi (nella foto sotto), n prigione dal 16 novembre 2021 a causa di diverse sentenze ingiuste, è stata condannata a un ulteriore anno accusata di propaganda contro il sistema. Questa dilazione era arrivata a seguito di un processo ingiusto legato ai suoi scritti dalla prigione a gennaio 2023 in cui narrava, sui social media, delle violazioni compiute su donne in luoghi di detenzione in Iran. Sono stati 14 anni di persecuzione, accusata di diffamazione, condotta ribelle in carcere: la sua famiglia crede che gli ultimi atti siano la risposta al libro White Torture in cui aveva condensato le sue ricerche sulle condizioni delle donne nelle carceri. A dichiararlo è stata lei stessa, in una rara intervista a distanza rilasciata alla rivista francese Elle approfittando di una sospensione della pena di tre settimane per motivi di salute. “Nella sezione femminile siamo in 70, di tutte le estrazioni sociali, di tutte le età e di tutte le convinzioni politiche”, tra cui giornalisti, scrittori, intellettuali, persone di diverse religioni perseguitate, baha’i, curdi, attivisti per i diritti delle donne, spiega. “L’isolamento è uno degli strumenti di tortura più comunemente utilizzati. È un luogo dove i prigionieri politici muoiono. Ho documentato personalmente casi di tortura e di gravi violenze sessuali contro i miei compagni di prigionia”, aggiunge l’attivista 52enne. “Nonostante tutto, per noi prigionieri politici è una sfida lottare per mantenere una parvenza di normalità, perché si tratta di dimostrare ai nostri aguzzini che non saranno in grado di raggiungerci, di spezzarci”.

Narges è affetta da un disturbo neurologico che può provocare ferite, paralisi parziali temporanee e un’embolia polmonare per cui sarebbero necessarie medicine che le sono negate. Così come negati sono trasferimenti in ospedali dove sarebbe costretta a indossare il velo che lei rifiuta seguendo la protesta delle donne per la morte di Mahsa Amini.

Nata nel 1972, ha un curriculum di tutto rispetto e molti premi di valore, ultimo dei quali il Nobel per la Pace che è stato ritirato dal marito e dalle figlie che vivono a Parigi in esilio e non la vedono da anni. La sua liberazione continuamente dilazionata prevede l’esilio finale ma non è detto che ci arrivi mai.

Nel carcere di Evin è rimasta anche Mahvash Sabet (nella foto seguente), insegnante e poeta, con una condanna di 10 anni ma aveva già subito un’analoga prigionia per il suo credo religioso Baha’i. Insieme ad altri due era stata accusata di spionaggio a favore del Centro Baha’i in Israele. In carcere a Evin, nel 2022 era stata interrogata riguardo ad un libro inedito in cui descriveva con dettagli la sua esperienza carceraria. Evidentemente era stata torturata e le sue rotule erano rotte ma non era stata attivata nessuna cura medica o condizioni igieniche di detenzione. Il PEN ha preso a cuore anche questo caso.

Sabet, nata nel 1953, è stata insegnante e preside in diverse scuole, collaborando con National Literacy Committee in Iran. Dopo la Rivoluzione Islamica del 1979, Sabet è stata licenziata come migliaia di altri educatori Baha’i. E’ stata per 15 anni direttrice dell’Istituto superiore Baha’i, allestito per i loro giovani. Ha iniziato a scrivere poesie in prigione, una sua raccolta è stata tradotta in Inglese e pubblicata nel 2013. Nominata Scrittore di Coraggio nel 2017, ha vinto premi e riconoscimenti.

A causa di una amnistia o “perdono” dal Supremo Leader Religioso Alì Khamenei nel febbraio 2023, molti prigionieri politici sono stati liberati e fra loro un nostro assistito, Reza Khandan-Mahabadi, nato nel 1960, autore di libri per ragazzi e adulti, critico letterario e studioso di cultura popolare. Ha composto un’enciclopedia di 19 volumi di letteratura Iraniana. Era stato trattenuto con detenzione arbitraria, accusato di propaganda contro il sistema e azioni contro la sicurezza nazionale.

In occasioni di sommosse, di partecipazione a manifestazioni o pubblicazioni di scritti in Iran gli scrittori diventano facilmente appiglio delle autorità per punire e restringere la libertà d’espressione.

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