Quando le montagne erano nere: il vecchio gasometro di Padova
La costituzione dell’Azienda Comunale del Gas, nota anche come Gasometro, fu deliberata dalla Congregazione Municipale di Padova nell’agosto del 1844, affidando la gestione dell’Officina ad una filiale della potentissima Società Lionese che, dal 1ottobre 1847, iniziò ad illuminare la città. Da qui l’utilizzo del lemma francese gaz, invece dell’italiano gas. Solo nel 1896, il suo controllo fu affidato all’Azienda Comunale del Gas che, con l’avvento dell’illuminazione elettrica, limiterà la produzione ad uso domestico. Il gas, stipato nel gasometro, veniva successivamente passato in un regolatore di pressione e distribuito nella rete delle tubature degli utenti. Sia come sia, la sirena dell’Azienda, il cui suono sferzava l’aria quattro volte al giorno, cadenzava l’inizio, la pausa, la ripresa e la fine del lavoro di manovali, di operai specializzati, di tecnici, di ingegneri e chimici, ma pure l’attività di gran parte dell’animata Via Trieste. Di sera, contribuiva a vivacizzare la strada il famoso cinema-teatro del Corso che, una volta alla settimana, riservava lo spettacolo al “Varietà”, dove si esibivano “peccaminose ballerine”. Proprio di fronte ad esso, c’era il rinomato banco di frutta selezionata di Gaetano, aperto dal tardo pomeriggio fino a mezza notte. Mai più gustate banane così dolci o caldarroste così grosse e profumate che, riscaldavano le mani infreddolite anche degli spettatori dell’ultima rappresentazione. Ciò avvenne almeno fino al 1966, quando il Gasometro fu trasferito in via Jacopo Corrado, alla Stanga, per cessare definitivamente l’attività nel 1972.
Ormai non era più necessario trasformare il carbone in gas per illuminare la città, né tantomeno per produrre il gas ad uso domestico: il metano, molto più sicuro e meno inquinante, veniva trasportato direttamente attraverso metanodotti. L’enorme campana di lamiera a chiusura ermetica, contenuta dentro una incastellatura metallica – i cui segmenti telescopici si incatenavano gli uni negli altri–, era divenuta completamente inutile. Da qui l’inevitabile smantellamento del gasometro, anche se in alcune città queste strutture di alta carpenteria metallica, spesso artigianale, sono rimaste a testimonianza di una “archeologica tecnologia del ferro”.
Mentre gli uffici amministrativi erano situati in Via degli Eremitani, l’Officina occupava l’ampia superfice di Via Trieste e costituiva una della più importanti infrastrutture cittadine dei secoli XIX e XX. Era suddivisa in varie zone destinate alle molteplici funzioni di stoccaggio del carbone coke, su cui svettavano i tre serbatoi a telescopio: si alzavano ed abbassavano a seconda della quantità di produzione. Ogni impianto funzionava 24 ore al giorno. Inglobati, sia pure con entrate autonome su Via Trieste, vi erano gli appartamenti del Direttore Generale, del Geometra e dell’Assistente Tecnico che, responsabili dell’Officina, dovevano essere presenti a turno nei giorni festivi e durante la notte, a causa di eventuali e pericolose fughe di gas. Sono nata proprio in una di queste abitazioni, dove i tubi dell’acqua calda passavano sotto il pavimento, riscaldandone completante la superficie. Non posso certo dire di avere sofferto il freddo; al contrario, anche d’inverno, indossavamo vestiti con le maniche corte. Le persone che venivano a farci visita, assumevano, fin da subito, un bel colorito roseo e, dopo un rispettoso ritegno, chiedevano il permesso di togliere la giacca.
L’intera zona, attualmente destinata a parcheggio, è oggetto di un progetto di rigenerazione urbana: l’inizio della costruzione di un nuovo quartiere – cerniera tra la città storica e quella moderna, trovandosi perfettamente tra la stazione ferroviaria e il centro cittadino – è previsto proprio per il 2025.
Con la sua costituzione, il Gasometro influenzò l’intera urbanistica di Padova, creando e sviluppando numerose infrastrutture, in quanto dal gas e dal catrame, formatisi durante la distillazione, venivano estratti prodotti secondari quali: benzene, naftalina, ammoniaca per fertilizzanti, composti cianici per coloranti e, naturalmente, il carbone coke per combustibile. Ora, la sua assenza risulta altrettanto utile a migliorare la qualità della vita cittadina, mettendo a disposizione una volumetria complessiva di140mila metri cubi, di cui 70mila saranno destinati a residenze, 30mila ad attività commerciali e direzionali ed i restanti 40mila ad uso di uno studentato.
Sembra quasi impossibile che il Piovego continui ad assistere a tali radicali mutamenti. Il canale antistante il Gasometro, separa, ancora oggi, via Trieste dalla verzura dei Giardini Pubblici, teatro di un’infinità di giochi e di sfrenate corse in bicicletta, proprio davanti alla cappella degli Scrovegni. Al tempo, il custode rimaneva ore ed ore a leggere, indisturbato, il giornale perché i visitatori erano quasi inesistenti. Sulle sue acque scivolavano i burci, le grosse imbarcazioni per il trasporto commerciale, adatte alla navigazione fluviale per il loro fondo piatto che si estendeva sino all’estremità superiore della prua. Inizialmente trainati da cavalli, provenivano dalla laguna, passavano per Fusina, risalivano la Riviera del Brenta, entravano nel Piovego, raggiungendo, infine, l’area antistante il Gasometro. Un tratto di riva in pietra testimonia tutt’ora il punto esatto dell’ancoraggio dove sostavano, sovente disposti su più file, in attesa di consegnare il carico. Una volta ricuperato con una benna, il carbone veniva depositato nei carrelli che, slittando su rotaie rette da impalcature, attraversavano Via Trieste e giungevano al magazzino, dove veniva accatastato in grossi mucchi. Per mio fratello e per me, questi ultimi rappresentavano delle vere e proprie “montagne” che potevamo scalare di nascosto la domenica mattina, quando la calma regnava in Officina: c’erano solo gli operai dei forni e mio padre, a cui toccava il turno settimanale, pronto a fare fronte ad eventuali guasti, insieme alla squadra di soccorso. Si sa, le fughe di gas sono molto pericolose.
Da qui il carbone veniva avviato ai forni di combustione e di distillazione. Mi riecheggiano nelle orecchie le severe ammonizioni dei miei genitori: “mai guardare in alto” passando sotto l’impalcatura, perché l’eventuale polvere sarebbe stata alquanto pericolosa per gli occhi. Nonno Antonio, che lavorava anche lui nell’Azienda, ha perso la vista proprio per questo motivo.
Lo spettacolo era davvero suggestivo: i colori brillanti delle imbarcazioni – anche i fianchi a volte venivano decorati –, dell’ampia vela, facevano da contralto al nero della pece che impregnava la parte esterna dello scafo, immerso nell’acqua, e della grande quantità di carbone che trasportavano. Ciò ha sicuramente colpito la vista e la sensibilità del pittore Luigi Brunello (1883-1976), vicentino di nascita, ma padovano di adozione. Un suo quadro, che ho sempre ammirato, appeso alla parete dello studio, dietro alla scrivania, ritrae magistralmente l’atmosfera. Ha suscitato anche la curiosità di noi bambini; in particolare quella del mio vivace fratellino Sergio. Eludendo la stretta sorveglianza della tata Anna, un giorno ha attraversato di corsa Via Trieste – negli anni Cinquanta il traffico non era certo frenetico come l’attuale, anche se bisognava fare attenzione al via vai delle corriere di piazzale Boschetti – per visitare l’interno di un burcio. Giunto sulla sponda del canale, è salito disinvoltamente sulla passerella di legno, ma ha perso l’equilibrio cadendo in acqua tra la disperazione di tutti noi, ormai accorsi nel tentativo di fermare la sua imprevista e fulminea fuga. Non rimaneva che afferrarlo per i capelli.
Il successivo processo di trasformazione, portava alla produzione del gas illuminante, coinvolgendo un centinaio di persone, unite da un vero e proprio spirito di gruppo. Non è retorica affermare che il concetto di Azienda come Famiglia veniva applicato alla lettera. Non dimenticherò mai la grande solidarietà manifestata nei confronti di mio padre, quando dovette affrontare i costi, piuttosto gravosi, per l’operazione che avrebbe salvato la vita di mio fratello. Si trattava del primo intervento “con arresto cardiaco, ibernazione e sostituzione di un cuore elettronico per 25 minuti”, effettuato dal prof. William Celant di Londra, della durata di cinque ore, come riporta Il Gazzettino di Padova del 28 ottobre 1959. Tutti, ma proprio tutti, hanno contribuito, secondo le rispettive possibilità e la colletta è stata davvero generosa. GRAZIE OMENI! Qui, devo aprire una piccola parentesi: ogni volta che andavo in ufficio da papà, entrando in portineria, ligia ai consigli della mamma, che mi spronava a salutare chiunque avessi incontrato, mi rivolgevo ad ogni persona con un “Ciao Omeni”, così questo era diventato il mio nomignolo.
Per la verità, anche mio padre ha sempre dimostrato empatia e disponibilità ad ascoltare e ad aiutare collaboratori e sottoposti che non lesinavano stima ed affetto nei suoi riguardi, come più volte dimostrato. Sono rimasta piacevolmente sorpresa, quando un giorno, nei corridoi dell’Università di Udine, un collega di un’altra Facoltà, mi si è avvicinato chiedendomi se ero la figlia di Bruno Serafin. Alla mia risposta affermativa, mi ha rivelato che suo padre, operaio dei Forni a storte – ossia quei contenitori in cui il carbone veniva riscaldato per liberare il gas –, aveva una venerazione per il suo “superiore”. Il che mi ha riempito il cuore di gioia e ha riacceso in me la visione di un signore dai capelli bianchi che, sempre sorridente – molto simile a colui che stava parlando –, bussava alla finestra del corridoio di casa nostra, rivolta nel cortile interno dell’Officina. Qui, mia mamma era pronta a scambiare una bottiglia di vino per una di latte – gli addetti ai forni ne ricevevano due litri al giorno per contrastare il calore emanato dalla combustione del carbone –, con soddisfazione di entrambi.
Oltre alle gite annuali in corriera, alle giornate in montagna nei mesi invernali, la “Famiglia” allargata si riuniva ogni 19 marzo per festeggiare la Festa di San Giuseppe, patrono dell’Azienda: dopo la messa, i locali della mensa si riempivano di gente di ogni età, vestiti a festa, nei colori sgargianti dell’imminente estate. Ricordo mia cugina Franca che batteva i denti dal freddo, perché nonna Ada coglieva l’occasione per confezionarle il nuovo vestito in un tessuto leggero, indifferentemente dalle temperature più o meno tiepide. A consolare dai disagi di abiti e di scarpe nuovi, c’erano dolcetti e leccornie a volontà, per la gioia di noi ragazzi, in attesa ansiosa della distribuzione dei generosi pacchi dono. Grandi emozioni! L’agognata festa aveva il potere di rinsaldare l’orgoglio di un’appartenenza. In fondo l’Azienda del Gas ha davvero inciso sull’intero territorio cittadino, contribuendo al benessere di centinaia di famiglie che, in un modo o nell’altro, godevano della sua ala protettrice.
Ora il Gasometro non esiste più, gran parte dei suoi addetti riposa in pace, i quattro burci rimasti si trovano a mollo in un’ansa del Sile, dove è ben visibile il “Cimitero dei burci”. Si tratta di un sito archeologico situato nel comune di Casier (Treviso), all’interno dell’area protetta del Parco naturale regionale. È un tangibile omaggio a tali imbarcazioni, attive nei fiumi veneti già dalla prima metà del XIII secolo. Il loro utilizzo continuò ad essere documentato regolarmente sino agli anni ’70 del ’900, quando subentrò la spedizione su strada e anche il Veneto, ultima delle regioni italiane, fu costretto ad abbandonare il trasporto fluviale.
Nel corso degli anni ho visto montagne di ogni colore: il rosa delle Dolomiti, il bianco della Marmolada, l’azzurro delle Alpi friulane, il rosso del Gran Canyon, il verde delle Ande, ma “le montagne nere” del Gasometro sono racchiuse nel mio cuore. Questo perché sono collegate al tempo “mitico” dell’infanzia e degli affetti familiari, al caldo abbraccio della solidarietà e dell’amicizia, ma anche all’entusiasmo e alla spensieratezza del Secondo dopoguerra, quando il futuro si apriva alla speranza e alla gioia del vivere.

