A scuola in un luogo speciale: Villa Rigoni e gli anni del Leon Battista Alberti di Abano Terme

Non capita a tutti di andare a scuola in una villa del XVI secolo, con un viale d’ingresso alberato, finestre che guardano sul parco e una corte interna con un pozzo, oltre la quale si alza la Torre Colombara.

A me – e a molti altri della mia generazione – capitò alle superiori, tra il 1977 e il 1981. L’Istituto tecnico commerciale e per geometri “Leon Battista Alberti” aveva da poco assorbito l’Istituto Kennedy, ma non aveva ancora una sede propria. Le aule e le sezioni erano distribuite in almeno tre sedi: il Patronato Pio X ad Abano, l’ex Istituto Kennedy alle Giarre e, soprattutto, una parte del lato sinistro di Villa Rigoni, con stanze che si affacciavano sul viale e sul parco davanti, oppure verso la corte interna.

In molti avevamo scelto quell’istituto perché si trovava ad Abano e quindi più accessibile rispetto alle scuole di Padova. All’epoca non avevamo però piena consapevolezza del privilegio di studiare lì. Eravamo più presi da sit-in e proteste davanti alla Provincia per rivendicare una scuola adeguata e una sede unica per le centinaia di studenti del nostro Istituto. Lo slogan più ricorrente – rivolto all’assessore provinciale alla Pubblica Istruzione di allora, non certo l’unico responsabile della situazione – era un poco elegante ma molto ripetuto: «F…to pirla, è ora di finirla!».

Oggi il “Leon Battista Alberti” ha una sede moderna e funzionale vicino alla circonvallazione di Abano, ma allora Villa Rigoni era il cuore pulsante dell’istituto. Ospitava le classi di due sezioni e la Presidenza, prima con il Preside e poi con il vicepreside, il professor Romano, nostro insegnante di diritto ed economia. Nei primi anni la nostra aula era proprio accanto alla Presidenza, al piano terra, e dalla finestra vedevamo il vialetto d’accesso con le auto del Preside e dei professori.

In quell’aula seguivamo le lezioni della bravissima professoressa di italiano Maria Luisa Toffanin, della vivace insegnante di  inglese Valeria Bettio – inconfondibile per la chioma rossa –, del professor Elardo di Geografia, spesso vittima dei nostri scherzi, e dei docenti di materie tecniche come il cinico professor Rigoni e il sofisticato professor Sotte, sempre a bordo  della sua Citroën Mehari decappottabile. 

Il professor Romano, preparatissimo ma dal tono un po’ cantilenante, a volte non riusciva a tenere alta l’attenzione. Quando eravamo già stati interrogati, Paolino, uno dei miei migliori amici, e io — seduti agli estremi di un banco da tre — intonavamo sottovoce, in sincrono, canzoni di De André, Guccini e Vecchioni, riportate fedelmente sui nostri diari. Ne fece le spese il nostro amico Filippo, seduto in mezzo, che il professore additava come responsabile di un presunto chiacchiericcio. Forse anche per questo, alla fine della terza, Filippo fu bocciato e a noi rimase un certo senso di colpa.

Durante la ricreazione, la nostra compagna Lorena era diventata la fornitrice ufficiale di panini per tutta la sede, rimpiazzando il venditore ambulante di un tempo. Con Antonella e Morena preparava panini così buoni che arrivavano a prenderli persino dalla sede staccata del Patronato. Per questo Lorena fu convocata in Presidenza, ma l’iniziativa aveva avuto così tanto successo tra gli studenti, che il Preside Volpato se ne fece una ragione.

In quarta, alla nostra classe si unirono ragazzi e ragazze provenienti da un’altra sezione: tra questi il brillante Francesco con cui legai subito, Maria Luisa e Roberto, destinati a sposarsi e a rimanere insieme fino a oggi. Ritornarono anche, dopo una bocciatura, Gilberto e Marino, con cui condividevo la nascita in Svizzera e che ogni tanto si divertiva a parlare in romancio; mentre Italo, nato a Tripoli, ci stupiva vantando i pregi di menù a base di cavallette e mosche… che mangiava davanti a noi per dimostrarlo.

Quando la classe si ampliò, ci spostarono in un’aula più grande, sempre nel lato sinistro della villa, ma sul retro: si affacciava direttamente sulla corte interna delimitata da un muretto e da una barchessa, con un manto erboso e al centro un pozzo. Oltre, si scorgeva la Torre Colombara. Un giorno, durante l’ora di inglese, apparve un asinello a brucare l’erba mentre delle oche correvano starnazzanti. Solo l’umorismo “british” della professoressa Bettio riuscì a riportarci alla lezione.

Negli ultimi due anni, Suor Sara sostituì la professoressa Toffanin. Il rapporto con la classe non fu facile e ci fu anche un acceso scontro con Francesco e una parte di noi per un giudizio su un compito, che finì con le lacrime dell’insegnante.

In quegli anni, il terrorismo era tema ricorrente nel nostro Paese. Ricordo bene il 16 marzo 1978 e il rapimento di Aldo Moro: il giorno dopo fu proclamato uno sciopero studentesco e noi decidemmo di occupare le aule di Villa Rigoni. Improvvisammo un dibattito in cui qualcuno arrivò a difendere le Brigate Rosse… salvo ritrovarsi due anni dopo a inneggiare al fascismo. Erano anni confusi, in cui si oscillava facilmente tra posizioni opposte; io, che mi ispiravo a idee riformiste, mi sentivo spesso a disagio.

Per fortuna c’erano figure come il mitico Roberto “Pasta” con le sue battute o Fabio che suonava il flauto traverso, a stemperare la tensione, e le gite scolastiche, che creavano e disfacevano coppie, mischiando le classi. Alcune compagne di scuola erano molto corteggiate – riservate come Nicoletta, solari come Nadia L., o più grandi come Doriana, parrucchiera con un salone proprio. Io, per un breve periodo, godetti di una “celebrità riflessa” quando arrivò a Villa Rigoni una mia lontana cugina, bellissima, che tutti volevano conoscere. Nell’ora di matematica la protagonista era invece Monica, futura atleta e allenatrice di twirling, capace di risolvere alla lavagna i problemi più ostici della professoressa Borile con il gessetto che correva veloce tra numeri e formule. Il professor Bozza, che aveva sostituito Rigoni, in realtà più che di bilanci e di partita doppia, ci parlava di politica e della vita fuori dalle aule. Ci incoraggiava a dargli del tu, ma io ci riuscii solo anni dopo, quando lo incontrammo ad una rimpatriata della classe.

Nei primi anni arrivavamo a Villa Rigoni quasi tutti in bicicletta, parcheggiandola nella rastrelliera del cortile. Io e Paolo partivamo da Monteortone – non proprio dietro l’angolo – con qualsiasi tempo. Poi arrivarono i motorini, le Vespe, e in quinta le prime auto. Io, senza patente, nei giorni di pioggia salivo volentieri sulla 127 verde bottiglia di Paolo, acquistata con i guadagni del lavoro serale in pizzeria. In molti, come noi, lavoravano nei weekend o di sera, e questo ci dava qualche possibilità in più rispetto ad altri coetanei, anche se a volte la mattina eravamo un po’ stanchi.

L’essere in una sede staccata, con la Presidenza e il fascino di Villa Rigoni, ci dava un senso di appartenenza speciale. Persino le ore di ginnastica, che richiedevano di spostarci a piedi o in bici alla palestra comunale, diventavano un vantaggio: si perdeva un pezzo di lezione, ma si guadagnava tempo insieme. Agli esami di maturità ci preparammo in gruppo, sotto il portico di Andrea F., ritrovando le aule della villa come teatro dell’ultimo atto di quei cinque anni intensi.

Oggi alcuni di noi non ci sono più – Franco, Sandra, Andrea V. – ma lo spirito dei ragazzi di Villa Rigoni è rimasto. E ci tiene uniti, non solo nei ricordi.

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