Consapevolezza, impegno, responsabilità: la voce della gente scavalca l’inerzia della politica

Le ultime consultazioni elettorali, nazionali o locali per tacere di quelle referendarie, attestano una disaffezione forse irreversibile: è fortissima in tutti, anche in chi si ostina a crederci, la sensazione che il proprio voto o il proprio impegno non conti nulla: gli eletti “sono tutti uguali” e niente può cambiare, vuoi per la loro inettitudine, vuoi per l’indifferenza verso i problemi reali che i cittadini affrontano ogni giorno. Cosa peraltro non vera poiché persone degnissime, capaci, oneste, animate da ideali sinceri ce ne sono ancora; ma plausibile, purtroppo, quando si consideri chi detiene davvero il potere, quello necessario a prendere le decisioni più rilevanti.

Tuttavia, forse la questione va messa a fuoco diversamente. Chi detiene davvero il potere? L’attuale governo – sulle cui idee e soprattutto capacità ciascuno è liberissimo, anche tra i nostri lettori, d’avere le proprie opinioni – ha ricevuto critiche feroci per essere rimasto pressoché inerte, continuando tuttora ad esserlo, di fronte alla disumanità di quanto accaduto a Gaza; dove peraltro non vi è ancora adesso alcuna pace ma soltanto una fragilissima tregua, che è quasi utopico pensare possa essere mantenuta stabilmente. La pavidità del governo italiano nell’assumere una posizione netta o almeno più ferma, limitandosi in poche occasioni a generiche parole di circostanza, sembrerebbe ingiustificabile; accompagnata, è vero, da quella simile o analoga di molte altre nazioni soprattutto europee, ma sarebbe stato ben più nobile accodarsi a chi invece, pensiamo al premier spagnolo Pedro Sánchez, ha scelto di non farsi intimorire e di rispondere a tono, non soltanto sull’orrore di Gaza ma anche, ad esempio, riguardo ai dazi e al riarmo. Voglio dirlo chiaramente: se avesse pronunciato parole anche soltanto simili a quelle del suo collega iberico, la nostra presidente del consiglio (non credo il suo governo, ma lei sì) avrebbe ai miei occhi guadagnato, solo per questo, un’infinità di punti, trasformando la mia diffidenza in ammirazione.

Tuttavia la realtà, purtroppo, è un’altra, e (senza voler offrire facili giustificazioni o paraventi) ha interamente a che fare con la struttura del mondo in cui viviamo. L’interdipendenza – soprattutto in campo economico e finanziario, i due settori che guidano tutti gli altri – fa sì che ciascuno abbia timore di scontentare qualcun altro, o ne sia proprio impedito, per le conseguenze che possono o potrebbero derivarne. Chi coniò, ormai molto tempo fa, il termine di “scacchiere internazionale” colse nel segno: nessuno Stato e nessun governo può davvero sentirsi le mani libere, ciascuno sa di dover valutare e soppesare tutte le possibili ripercussioni, e a differenza degli scacchi i giocatori non sono due – com’erano, assai semplificando ma a lungo realisticamente, ai tempi della guerra fredda – ma molteplici, persino decine. La tradizionale scacchiera quadrata si è trasformata in un poligono a dieci, venti, trenta lati con centinaia di caselle, dove alcuni dei giocatori dispongono di tantissimi pezzi e altri di pochi, ma tutti s’influenzano l’un altro e sono indotti a muoversi guardinghi. Persino chi appare al vertice, chi avoca a sé una posizione e un’aura di predominio decisionale, è costretto a tener conto di equilibri altrettanto incerti quanto le tregue militari: chi controlla davvero chi, chi risponde a chi, tanto a livello interno che internazionale? Per cui tanto più si è dipendenti dalla benevolenza altrui (o se ne teme l’insincerità), tanto più si è satelliti, quanto più si esiterà a prendere una posizione.

Tutto questao, lo ripeto, non vuole in alcun modo costituire una giustificazione all’immobilismo tremebondo, ma soltanto una sua razionale spiegazione. Il tutto, peraltro, oggi aggravato dall’evidenza che, almeno per alcuni tra i molti giocatori sullo scacchiere, sembrano venir meno anche il valore e la certezza degli accordi, in nome di continui voltafaccia e rimesse in discussione di quanto affermato, stabilito, pattuito il giorno prima. Nella storia è già accaduto, ovviamente, e chi la conosca almeno un poco sa come gli effetti non siano mai stati felici, ma oggi l’imprevedibilità bizzosa e il desiderio, o la necessità, di muoversi su più scenari (anche quando inconciliabili) sembra divenire un modello di comportamento. Considerata la posta in gioco, si è costretti a sperare che, al di là dei teatrini, chi ha nelle mani le sorti del pianeta sappia quello che sta facendo.

Se la rappresentanza è in crisi, se pochissimo o nulla sembra di poter fare in concreto, cosa rimane? Rimane quello che abbiamo visto in queste ultime settimane. Le manifestazioni cui abbiamo assistito sono sicuramente figlie dell’emotività: riempire le piazze, rendere imponenti i cortei, è abbastanza semplice quando la protesta s’intreccia con un momento collettivo di socialità e affermazione. Detto in altri termini è facile, e anche naturale, che di tanto entusiasmo e condivisione già la mattina dopo rimanga solo una piccola emozione, magari anche un po’ di fierezza, ma destinate a scomparire nel giro di pochi giorni. È una costante che si è ripetuta in moltissime occasioni, storiche e di cronaca, prossime a noi o nel mondo: trascorso il culmine emotivo, anche in assenza di repressioni, da un lato, o di risultati e cambiamenti sostanziali dall’altro, la voce popolare rischia di spegnersi, poiché la folla agisce d’impulso sia quando si tramuta in belva, sia quando s’unisce per una giusta causa. Siamo portati a dimenticare, basta vedere come molti che si indignavano per la contabilità del massacro oggi già elogiano e incensano chi lo ha fermato, pur essendo chiaro (è un fatto, non un’opinione) che chi adesso lo ha fermato avrebbe potuto farlo, con un identico gesto, sei mesi o un anno o due anni fa: il che significa diecimila, trentamila, settantamila morti fa.

Dimenticare può persino essere una risorsa obbligata per le vittime, come accade anche di fronte ai lutti e alle esperienze più terribili: allontanare il dolore, cauterizzarlo in qualche modo, è necessario per poter guardare, e andare, avanti. Ma dimenticare, invece, sarà una colpa per chi di questi orrori, senza subirli né viverli, ha comunque compreso l’enormità e l’ingiustizia, entrambe spinte oltre ogni misura. Dimenticare sarà una colpa perché quel che va ora ricordato – e di cui fare tesoro – non è soltanto il male accaduto ma soprattutto, soprattutto, le risorse di consapevolezza, impegno, responsabilità, umanità che ha risvegliato in moltissimi, in alcuni più e in altri meno, ma si spera almeno un barlume in quasi tutti. La colpa è adesso lasciare che consapevolezza, impegno, responsabilità, umanità tornino ad essere latenti, rendendo di nuovo timorose e inerti le voci interiori che ci hanno mostrato, per un momento, come un mondo diverso sia possibile, o sia almeno possibile immaginarlo, invocarlo ed esprimerlo. Non sarà un caso che i più feroci detrattori della Global Sumud Flotilla, la cui impresa era sin dall’inizio chiaramente simbolica e ideale, siano proprio coloro che di ideali sembrano non averne più, né ritenerli praticabili: dimenticando come proprio da pensieri, intuizioni, proposte ideali siano nati tutti, letteralmente tutti i progressi nella giustizia, intesa quale concetto e quale pratica. Non soltanto a livello di diritti civili e sociali: si pensi quanti sviluppi medici, tecnici, scientifici sono nati come semplici intuizioni o idee, dovendo muoversi controcorrente nell’indifferenza e nell’ostilità, prima di ottenere risultati che, da “ideali”, sono divenuti realtà a beneficio di tutti.

Ecco allora che, di fronte al venir meno della rappresentanza, si può essere chiamati – non per la prima volta nella storia, no, ma con una forza che abbiamo rischiato di addormentare permanentemente – ad una sorta di sussidiarietà nei confronti di chi non vuole o, addirittura, non può o sente di non dover fare, dire né obiettare nulla, pur avendone in teoria il potere. Quella voce che molti governi mostrano di non avere più allora la facciano propria i cittadini, convertendo in gesti – indignati ma tassativamente, irrevocabilmente pacifici – quelle schede che non vogliono più deporre nell’urna elettorale. Questa volta è stato, sacrosantamente, per la Palestina, domani potrà o dovrà essere anche per altre situazioni, popoli, iniquità. Quello che si è infine mosso, e smosso, potrebbe sembrare poco, “ma tutto questo è già più di tanto” come trenta e più anni fa cantava, in una delle sue canzoni più belle, Ivano Fossati: non dovremmo dimenticare quel che abbiamo visto, la pietà e la compassione provata nei confronti delle vittime, ma persino più utile e necessario sarà, adesso, non dimenticare quel che abbiamo provato, e si spera ritrovato, dentro e verso noi stessi.

* * *

Richiamo l’attenzione dei lettori sulla presenza, in questo mese, di un intervento di Marco Boato, protagonista negli ultimi decenni della nostra regione, dedicato alla figura di Alexander Langer il cui impegno e i cui ideali umani, politici e civici rimangono, come ben illustrato, più che mai attuali e validi, al punto che non appare eccessivo definirli “profetici”. Senza nulla togliere agli altri nostri redattori e collaboratori, cui Massimo Toffanin e io ribadiamo la nostra costante gratitudine poiché ci permettono di portare avanti questo spazio di informazione e riflessione, ringrazio in questa occasione l’estensore dell’articolo dedicato a Langer il quale, sicuramente, molto meglio di me avrebbe saputo riflettere sugli argomenti affrontati nel presente editoriale.

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