Dove ci sta portando la cultura della “conoscenza”?

Dante, l’astuzia di Ulisse e il nostro progresso

Voglio proporre un argomento di carattere molto generale, un argomento coinvolgente, sperando di farne almeno un tema di riflessione. A questo scopo, mi servirà di determinante aiuto il nostro grande poeta della Divina Commedia.

L’argomento di cui intendo parlare, ripeto, è cruciale ed è davvero inquietante. Può essere formulato nel seguente modo: dove ci sta portando la cultura, orgogliosamente materialistica e scientifica, che si è via via sviluppata e affermata nel corso dei secoli, in particolare quelli compresi fra Dante e noi? Sappiamo che si tratta della cultura (o civiltà) che nel nostro Occidente ha avuto i suoi principali snodi nel Rinascimento, nell’Illuminismo e nel Positivismo (di quest’ultimo e dei suoi sviluppi, a dispetto di molte inquietudini, noi siamo senz’altro i più diretti eredi).

Sono a noi tutti ben note le previsioni terrificanti che ci vengono prospettate dagli stessi scienziati: la più angosciosa è quella che prevede l’annientamento della stessa umanità e magari anche del pianeta, soprattutto a causa degli strumenti di distruzione che il progresso scientifico, privo di un serio controllo ma spesso gonfio di orgoglio, rende ogni giorno più potenti, più globali. Ed è davvero molto scarsa la speranza che l’uomo, con la natura che si trova di fatto ad avere, voglia realmente risolvere i suoi dissidi rinunciando alle armi e alla guerra (mi viene facile ricordare per questo il testo famoso che Quasimodo scrisse durante la seconda guerra mondiale, quello intitolato Uomo del mio tempo: «Sei ancora quello della pietra e della fionda; / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga /con le ali maligne, le meridiane di morte, / ‒ t’ho visto ‒ dentro il carro di fuoco, alle forche / alle ruote di tortura. T’ho visto, eri tu, /con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo, ecc.» E d’altra parte non dimentichiamo che Gesù ci avverte: «Senza me non potete fare nulla», Giov., 15, 5).

Questa premessa mi porta a rievocare una personale lontana esperienza scolastica. Al liceo (primi anni cinquanta), quando il professore ci rimproverava per qualche comportamento o parola sconveniente, era solito richiamarci alla dignità di studenti con una citazione di Dante, e la recitava, ricordo bene, con una particolare gravità esortativa:

Fatti non foste a viver come bruti

Ma per seguir virtute e conoscenza (1).

Avvenne poi che questi due versi ce li trovammo un giorno da lui proposti come argomento di tema in classe. Naturalmente facemmo tutti a gara per esaltare l’impegno e l’abnegazione richiesti dalla “virtute” (nel senso latino di forza e coraggio) e dalla “conoscenza” (o “canoscenza”). Non ci fu difficile riempire le facciate dei nostri fogli con molti esempi di ciò che nella nostra civiltà sembrava a noi più nobile e convincente. E così ci fu facile celebrare le più grandi conquiste ottenute dalla “conoscenza”, che è scientifica e tecnologica, dell’età moderna (grandi scoperte geografiche, treni, automobili, aerei, elettricità, telecomunicazioni ecc., qualcuno arrivò persino a parlare dell’allora incipiente energia atomica). Insomma, quei versi di Dante ci portarono a magnificare il progresso, ritenendolo l’incontestabile gloria della nostra età. Il professore se ne mostrò soddisfatto. In tal modo avevamo stabilito un positivo diretto rapporto fra Dante e i valori più riconosciuti del nostro tempo.

In realtà, tutto ci aveva indotto a trascurare da quale personaggio, nel poema di Dante, sono pronunciate le parole di quei due versi famosi e, così isolati dal loro contesto, universalmente condivisi. Quei versi, come sappiamo, li pronuncia Ulisse, l’eroe greco incontrato da Dante molto in basso nell’Inferno. Ulisse sconta la sua pena nell’ottava bolgia, quella tutta punteggiata di fiamme, nelle quali si sono trasformate le anime di coloro che in vita hanno dato consigli ingannevoli. In quel luogo cristiano di punizione eterna, Ulisse ‒ rispondendo alla domanda che gli ha rispettosamente rivolto Virgilio per soddisfare una curiosità di Dante ‒ racconta in quale effettivo modo si concluse la sua esistenza terrena. L’eroe ricorda come, dopo il lungo tempo passato presso la maga Circe, infiammato da un invincibile «ardore […] a divenir del mondo esperto / e degli vizi umani e del valore», riuscì a convincere i suoi compagni di viaggio a non fare ritorno in patria, ma a seguirlo verso occidente nel suo avventuroso e insaziabile desiderio di conoscenza. Così, presa la via dell’«alto mare aperto», attraversò con loro tutto il Mediterraneo occidentale, giungendo infine alle Colonne d’Ercole (l’attuale stretto di Gibilterra) affacciandosi sull’Oceano Atlantico.

Per convincere i compagni a oltrepassare quel limite estremo ‒ limite imposto nell’antichità da Ercole, che in èra cristiana fu spesso considerato uno prefigurazione pagana di Cristo (si pensi soltanto all’ Hercule chrestien di Ronsard) ‒ Ulisse dovette far ricorso alla più raffinata astuzia di cui era sovranamente dotato e della quale Virgilio aveva già poco prima ricordato a Dante alcuni fatti rilevanti e noti (il cavallo di Troia, gli stratagemmi a cui ricorse per riportare Achille in campo di battaglia e il proditorio rapimento in Troia della statua di Pallade Atena, dalla quale i troiani pensavano dipendesse la salvezza della loro città).  Ulisse racconta che il suo discorso fu breve e irresistibile. Poiché soprattutto in questo discorso è per la prima volta rivelata l’ultima e certo più grave ragione della sua punizione (ossia il consiglio fraudolento per l’infrazione di un limite stabilito da Dio), lo riporta in forma diretta nel seguente modo:

«O frati», dissi, «che per cento milia

Perigli siete giunti all’occidente,

A questa tanto picciola vigilia

De’ vostri sensi, ch’è del rimanente,

Non vogliate negar l’esperienza,

Diretro al sol, del mondo senza gente!

Considerate la vostra semenza:

Fatti non foste a viver come bruti,

Ma per seguir virtute e conoscenza».

Come si vede, il consiglio ‒ colpevolmente vòlto a infrangere l’invalicabile limite prescritto da Dio ‒ si regge su due fondamentali argomenti: «Siete vecchi e vi resta ancora poco da vivere»; «Non tradite la vostra origine. Siete greci (per questo li chiama fratelli, «O frati») e, come tali, avete nella ragione e nell’esperienza la vostra più alta dignità. Non siete stati fatti (nel senso di “formati”, “educati”) per essere animali («bruti»), ma per nobilitarvi attraverso la conoscenza». In altre parole, nel suo discorso convincente ma ingannevole il greco e pagano Ulisse afferma l’unicità della vita presente (quindi anche, implicitamente, la sua finitezza) ed esalta il valore supremo del sapere e del progresso che ne consegue.

Perché il discorso di Ulisse è ingannevole? Perché, nella narrazione di Dante, egli sta adesso dando la prova ‒ contrariamente a quanto disse ai suoi malcapitati compagni di viaggio ‒ che esiste una vita ultraterrena e che l’attuazione dei suoi irrinunciabili desideri di conoscenza (unitamente, s’intende, agli altri consigli fraudolenti di cui si rese responsabile e che Virgilio, conoscendoli, ha già prima ricordato) gli è valsa la dannazione con una pena particolarmente severa (la trasformazione in fiamma).

Infatti Ulisse, proseguendo il suo racconto, dice di essersi avventurato ‒ quasi nuovo Icaro ‒ nella folle navigazione oceanica («folle volo»), navigazione che si protrasse per ben cinque mesi in direzione dell’emisfero australe. Attraverso quel lungo straordinario «volo» nelle ebbrezze della «conoscenza», gli intrepidi navigatori che avevano riposto fiducia nel persuasivo consiglio di Ulisse giunsero infine ad avvistare in lontananza una terra ignota, un’altissima montagna (che tutto lascia pensare che sia il Paradiso terrestre dal quale l’uomo fu in origine cacciato a causa del peccato commesso contro il Creatore). Quella vista di salvezza li rallegrò, illudendoli di aver coronato di successo la loro coraggiosa avventura di conoscenza («Noi ci allegrammo»). In realtà ‒ conclude Ulisse, implicitamente riconoscendo la punizione divina ‒ un repentino vorticoso vento proveniente da quella montagna si abbatté sulla loro imbarcazione inabissandola nell’oceano.

Dunque, il medievale e cristiano Dante era ben lontano dall’attribuire ‒ come invece si usa fare oggi ‒ un significato altamente positivo alla famosa frase di Ulisse rivolta ai suoi compagni di viaggio («Fatti non foste a viver come bruti» e quel che segue). Sicuro della verità rivelata nella Bibbia, Dante sapeva che le parole di Ulisse riproponevano, nella sostanza, il perfido e fraudolento consiglio dato dal serpente (immagine di Satana) ai nostri primi progenitori (serpente che il testo biblico definisce «astuto più di tutti gli animali»). Sappiamo tutti quale fu il suo consiglio: «sarete come Dio: conoscitori del bene e del male». L’astuto consiglio di Ulisse era quindi di natura diabolica. Le sue parole, infatti, hanno avuto il potere di ingannare non soltanto i suoi compagni di viaggio, i suoi «frati» greci, ma anche, a ben vedere, un’intera civiltà, la nostra, che pure ai suoi bei tempi si era incamminata nella direzione di una universale “fratellanza” in Cristo, il figlio di Dio Padre, il risorto.

Noi, oggi, diamo prova lampante di essere i compagni dell’eroe greco, i compagni da lui convinti e ingannati. Anche noi, vittime inconsapevoli del suo ingannevole consiglio, siamo in piena navigazione al di là delle Colonne d’Ercole, inebriati di conoscenze ogni giorno nuove, pieni di fiducia nelle «magnifiche sorti e progressive» (per usare le celebri parole, ironiche, di Leopardi). Nemmeno la Chiesa cattolica ‒ nonostante gli energici moniti di almeno tre secoli (dal Concilio tridentino in poi) ‒ ce l’ha fatta a trattenerci. Cominciò esemplarmente Cristoforo Colombo col suo fortunato viaggio. E tutto ciò che l’ha seguito, dal Rinascimento fino a noi, è proprio l’assunzione di quel consiglio di Ulisse, espressione del maligno, ma universalmente condiviso e celebrato. Il nostro tema in classe ne era appunto la chiara conferma.

Sappiamo che Dante, di fronte al fallimento dell’avventurosa impresa consigliata da Ulisse, intendeva seguire e far seguire ben altri consigli. Ecco, ad esempio, quello che gli darà, nel primo cielo del Paradiso, la sua diletta Beatrice:

Siate, Cristiani, a muovervi più gravi!

Non siate come penna ad ogni vento,

E non crediate ch’ogni acqua vi lavi!

Avete il vecchio e il nuovo Testamento,

E il pastor della Chiesa che vi guida:

Questo vi basti a vostro salvamento.

(Par., V, 76-78)

E qui si deve pur riconoscere che il verso «E il pastor della Chiesa che vi guida» comporta una visione dell’umanità cristiana come gregge, ossia come comunità di animali, appunto di «bruti». Ma c’è anche il consiglio che non mancherà di dare lo stesso Virgilio nell’antipurgatorio:

State contenti, umana gente, al quia;

Ché, se potuto aveste veder tutto,

Mestier non era partorir Maria.

(Pur., III, 37-39)

In questi versi è posto un chiaro limite alla conoscenza e si esorta l’«umana gente» ad accontentarsi dei fatti quali sono, ad accettare i confini imposti alla ragione, che ha il dovere di rimettersi con fiducia alla rivelazione cristiana. A questo proposito, le fiamme ascendenti che punteggiano la bolgia in cui si trova Ulisse con gli altri consiglieri fraudolenti, hanno tutta l’aria di essere l’esatto rovescio di ciò che avvenne nella Pentecoste, allorché le fiamme, figura dello Spirito Santo, furono viste scendere sui primi seguaci di Gesù risorto.

Ora dobbiamo chiederci: chi mai, oggi, ricorda queste ferme ammonizioni di fede cristiana (e cattolica) con la stessa convinta sicurezza con cui invece afferma le gratificanti (ma “luciferine”) parole di Ulisse («Fatti non foste…»)? Per quanto mi riguarda, confesso di provare un intimo disagio a citare le parole, rigorosamente scritturali e cristiane, che Dante fa pronunciare alle sue due predilette guide, dico a Beatrice e Virgilio, parole in netta opposizione a quelle di Ulisse, che sono invece così laicamente e orgogliosamente umane. Riconosco di provare un’insopprimibile vergogna (e me ne scuso) all’idea che mi si possa sospettare di propendere per i consigli cristiani di Beatrice e Virgilio, magari correndo il rischio di essere preso per un volgare bacchettone. Tuttavia, mentre mi sento preso da questi spontanei e irresistibili sentimenti, mi scopro trascinato dalla cultura generale del mio tempo (ossia dal «folle volo») e in tal modo mi sorprendo, con dispiacere, a voltare le spalle a Dante, e insomma a dissociarmi dal pensiero del poeta che sopra ogni altro ammiro e amo.

Comunque sia, questi miei sentimenti non m’impediscono di pensare che Dante sia riuscito a fare del suo Ulisse un supremo e davvero diabolico astuto, fino a renderlo suscettibile, come si è visto, di una interpretazione altamente positiva e convincente. E tengo anche ad aggiungere che l’astuzia non è limitata alla sola breve arringa dell’antico eroe («Fatti non foste…»), ma all’intero magnifico racconto che il poeta fiorentino seppe mettergli in bocca (anzi, nella lingua di fiamma), racconto altamente poetico che innumerevoli generazioni di scolari hanno imparato a memoria.

Del grande valore che la nostra attuale cultura attribuisce alle parole e al comportamento di Ulisse è prova il fatto che anche i dantisti più smaliziati e sottili del nostro tempo, irresistibilmente affascinati e conquistati dalla drammatica epicità di quel grandioso episodio tutto raccontato dallo scaltro Ulisse, ne sono rimasti anch’essi, almeno in parte, vittime (ricordo almeno Antonino Pagliaro, Giorgio Padoan, Mario Fubini…) (2): questi critici hanno infatti cercato, in diversi modi, di attribuire a Dante sentimenti di avventura, di scienza libera e di progresso che invece il sommo poeta, pienamente e sinceramente fiducioso nella rivelazione cristiana, sentiva come una diabolica tentazione (alla quale peraltro quasi lui stesso sembrava cedere) (3), una tentazione paragonabile a quella che originariamente causò la caduta dei nostri primi progenitori e dell’intero genere umano.

In conclusione, Dante, nel suo estremo realismo, ha voluto soltanto fare del suo Ulisse un astuto autentico, appunto un astuto diabolico, ossia uno capace di ingannare davvero, come si vede che sta in effetti avvenendo, anche i suoi ascoltatori o lettori, gente che, fondandosi sulla «virtute e conoscenza», è orgogliosamente convinta di giudicare dal piedistallo del vero (quello appunto della «virtù» e della «conoscenza») (4). Cosa intendo dire con questo? Intendo dire che il personaggio inventato da Dante è ancora oggi attivo, capace di farci prendere per verità la menzogna e, quel che sarebbe peggio, di condurci tutti a una tragica fine. E, come ho detto all’inizio, di questa fine molti, considerando l’orientamento incontrollato assunto dal «folle volo» della scienza e del cosiddetto progresso, stanno prevedendo da tempo il più che serio pericolo, la stessa fine nella quale il suggestivo eroe greco trovò, nel giudizio di Dante, esemplare e irrimediabile condanna.

(Contributo pubblicato originariamente in Europa e America nella storia della civiltà: studi in onore di Aldo Stella, a cura di Paolo Pecorari, Edizioni Antilia, Treviso 2003).

Postilla (Maria Luisa Daniele Toffanin): nasce, dopo la lettura, una riflessione sull’eterno desiderio dell’uomo di sfidare l’ignoto, di superare i limiti che, in qualche modo, ci riporta alle luci e alle ombre in cui si muove oggi l’intelligenza artificiale. Potrebbe il pensiero di Dante aiutarci a comprender meglio il mondo nelle sue dinamiche spesso indecifrabili, come anche nelle tensioni e nelle pulsioni distruttive dell’uomo? E in che misura la cultura e l’arte potrebbero contribuire a indicare orizzonti di senso e di speranza per il mondo di oggi?

A ben vedere, nella Commedia si rendono evidenti due fondamentali consigli: il primo è quello ricordato nell’Inferno da Ulisse quando riuscì a convincere i suoi compagni a seguirlo nel “folle volo”, intrepido e conoscitivo, al di là delle Colonne d’Ercole (“Fatti non foste a viver come bruti / Ma per seguir virtute e canoscenza”, Inf. XXVI, 119-120. Virtute è qui da intendersi nel senso latino di virtus col significato di capacitàvalore, attitudine al progresso); il secondo è quello dato nel Paradiso da Beatrice ai cristiani: “Avete il vecchio e il nuovo Testamento, / E il Pastor della Chiesa che vi guida: / Questo vi basti a vostro salvamento”, Par., V, 77-78). È almeno da cinque secoli che la nostra civiltà occidentale dà prova di ascoltare con sempre maggiore convinzione il primo consiglio, quello dell’astuto Ulisse, trascurando il fatto che, nel racconto di Dante, il consiglio ha portato a un rovinoso naufragio. E il poeta cosa poteva pensare in proposito? Non c’è dubbio che volesse dare ascolto soprattutto alla sua Beatrice, che l’aveva salvato e per la quale fu scritta la Commedia. Ciò non impedisce tuttavia di ritenere che anche lui dovesse avvertire con forza – come noi tutti “peccatori” (intendo dire marchiati col peccato d’origine) – la tentazione di approvare il consiglio diabolico ricordato dal condannato Ulisse, consiglio che nella sostanza discende da quello del “più astuto di tutti gli animali”, il satanico serpente che nella Genesi proditoriamente dice ai primi progenitori “non morirete […] vi si apriranno gli occhi e sarete come Dio: conoscitori del bene e del male”, 3, 4-5).

Quanto all'”intelligenza artificiale” di cui tanto oggi si parla, immagino che non potrà essere altro che un’estensione catastrofica del consiglio dell’ Ulisse immaginato da Dante, un’esortazione compromessa dall’orgoglio e dalla fallace presunzione umana che vuole fare a meno di Dio e valica le Colonne d’Ercole (l’eroe pagano che prefigura Cristo) rifiutando la condizione di “bruti” (“Fatti non foste a viver come bruti”), ossia di animali, come appunto sono, evangelicamente, le umili pecore custodite con amore dal divino salvifico Pastore, che per un uomo di ferma e profonda fede quale fu il sommo Dante è il Risorto, l’autentico “ignoto”, l’Infinito mistico ignoto.

Note

A proposito del progresso: “Teoria della vera Civiltà. Essa non sta nel gas, nel vapore, nelle sedute spiritiche. Essa sta nella diminuzione delle tracce del peccato originale” (Baudelaire, Il mio cuore messo a nudo, XXIII).

(1) Per precisione filologica, oggi si preferisce dire “canoscenza”, perché, con ogni probabilità, Dante usò questa forma (non esiste un suo manoscritto originale). Però quel nostro professore si serviva all’epoca della celebre edizione Scartazzini (1893), che modernizza il termine. Successivamente Giorgio Petrocchi, riprendendo nella sua autorevole edizione il testo dell’“antica Vulgata”, tornò ad adottare l’arcaica forma toscana “canoscenza”.

(2) È significativo che Mario Fubini, alla voce Ulisse dell’Enciclopedia Dantesca, abbia respinto sdegnosamente le interpretazioni, simili alla mia, già date da Francesco di Bartolo da Buti ‒ il ben noto commentatore trecentesco e dunque il più prossimo a Dante, dal Vossler e soprattutto dal critico americano Lane Cooper.

(3) Enrico Malato dice con opportuna prudenza che nell’episodio di Ulisse «si avverte la segreta partecipazione del poeta a quella sfida temeraria» (Dante, Roma, Salerno, 2015, p. 299).

(4) A proposito dell’orgoglio o della superbia di chi ripone ogni fiducia nell’uomo, si ricordi che, di fronte ai superbi che nel Purgatorio scontano la loro pena, Dante così esclama: “O superbi cristian, miseri lassi [poveri miserabili], / Che, della vista della mente infermi, / Fidanza avete nei ritrosi passi; / Non v’accorgete voi che noi siam vermi / Nati a formar l’angelica farfalla, / Che vola alla giustizia senza schermi? (Pur., X, 121-136).

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