Europa, la disillusione non sia un alibi
Il disincanto, che investe la politica a tutti i livelli, non deve diventare un motivo per rinunciare all’impegno e a fare, ovunque sia possibile, ciascuno del proprio meglio
Nella primavera del 1979 non avevo ancora quindici anni e, visitando la Fiera Campionaria di Padova, la mia attenzione fu catturata da un piccolo stand che forniva informazioni sulle imminenti elezioni per il Parlamento Europeo: una istituzione che già esisteva (dal 1962), ma che per la prima volta sarebbe stato rinnovato attraverso il voto, a suffragio universale, espresso da tutti i cittadini dell’Unione. Ero ancora troppo giovane, sarei stato chiamato alle urne la prima volta solo quattro anni dopo (per la Camera italiana), ma l’idea di un’Europa sovranazionale mi affascinava: nella mia ingenuità adolescenziale, mi sentivo e definivo già europeista. Allo stand parlai con un’addetta cui non sembrava vero che a qualcuno, peraltro talmente giovane, quegli argomenti interessassero: alla fine, grata e felice, mi riempì di depliant e opuscoli sull’argomento che, ne sono quasi certo, in qualche armadio ancora conservo. Era, chiaramente, un’idea romantica, in gioventù non poco debitrice di quella espressa nella canzone “Ragazzo dell’Europa” di Gianna Nannini: ma, pur emotiva più che concreta, certamente non nociva.
In realtà, europeisti noi italiani lo siamo sempre stati, secondo lo spirito di personalità illuminate (ma chi ricorda davvero, oggi, la grande lezione di Altiero Spinelli?). Tra tutti gli Stati membri, era il nostro a registrare le affluenze più alte. Oggi quella passione, quella speranza, è soltanto un lontano ricordo: le consultazioni europee sono, anche da noi, sempre meno sentite, il Parlamento di Bruxelles è da troppi considerato inutile e dispendioso, nient’altro che un privilegio tra i privilegi per coloro che ottengono uno scranno, e chiunque lo guidi diviene facilmente oggetto di ironie e di scherno. Non c’è dubbio, peraltro, che questa disaffezione sia figlia diretta della grave disillusione, per non dire sfiducia, nei confronti della politica nazionale, di cui s’avverte sempre meno l’importanza e l’insostituibilità (non foss’altro che democratica) e sempre più invece si notano, denunciano e sbeffeggiano le mancanze, le negligenze, le ignavie.
Eppure mai come oggi ci sarebbe bisogno di un’Europa vera, motivata, solidale, in un momento storico nel quale l’Occidente si trova alle prese con problematiche epocali, e belligeranti, che nessuno Stato può pensare di affrontare e gestire da solo. Forse l’occasione per crearla davvero, questa unione di nazioni, si è ormai irrimediabilmente perduta nelle burocrazie e insipienze degli ultimi due decenni, nel quale ciascuna nazione sembra aver guardato unicamente a quanto conveniva a se stessa: non dispongo, personalmente, di strumenti e nozioni di analisi politica sufficienti ad esprimere un giudizio che non sia una semplice opinione. Ma è piuttosto netta la sensazione che si sia proceduto, e si continui a procedere, in ordine sparso: la netta affermazione, in più Paesi, di schieramenti certamente legittimi, ma le cui posizioni politiche e ideologiche appaiono preoccupanti anche in prospettiva storica, non contribuisce certamente a ridurre la confusione generale.
Oggi una diversa idea di Europa servirebbe più che mai, quantomeno come pura utopia se non come entità realizzabile, laddove il mondo sembra avviarsi (voglia il cielo che non sia così) nella direzione di un nuovo conflitto globale: una catastrofe che, anche qualora evitasse il ricorso agli armamenti nucleari, scongiurasse cioè la distruzione totale dell’umanità, nondimeno sconvolgerebbe gli equilibri geopolitici, sociali ed economici come li conosciamo.
Non è detto che la politica del passato, nelle sue espressioni concrete, fosse davvero migliore di quella di oggi; ma certo, almeno idealmente, aspirava ad una visione progettuale complessiva e di medio-lungo termine che, sempre più negli ultimi tre-quattro decenni, si direbbe scomparsa a favore degli interessi immediati e di una visione improntata al particolarismo più spicciolo. Il rimpianto per l’assenza di personalità di valore assoluto (a inizio giugno, impossibile non evocarlo, è ricorso il quarantesimo anniversario della morte di Enrico Berlinguer) sbiadisce nel chiacchiericcio della vacua lamentela, ormai anch’essa convenzionale e fine a sé stessa, sul fatto che niente sia più come una volta, anche se in realtà – qualora interrogati – potrebbero dire cosa “una volta” significhi.
Tutto questo, duole dirlo, è l’emanazione diretta di una società profondamente mutata: si ripete che i nostri rappresentanti sono lo specchio di noi che li eleggiamo ed è difficile negare che sia in parte così, per quanto i meccanismi elettorali si fondino sul predominio delle scelte effettuate dai partiti. Ancora una volta, l’ennesima nel corso della Storia, si può allora soltanto appellarsi e affidarsi all’impegno e alla coscienza di ciascuno, all’ottimismo degli “uomini di buona volontà” di cui ci parla il Vangelo ma che si trovano ovunque anche negli ambienti laici, alla solidarietà che nasce e prospera nei grandi, piccoli o persino minimi gesti, ad un individualismo (inteso come azione del singolo e di ciascuno) che non risulti egoistico né solipsistico, al grande messaggio della torah che, precorrendo il messaggio di Cristo, ci insegna come salvare uno solo equivalga a salvare il mondo. Dopotutto, non c’è nulla d’altrettanto potente quanto l’esempio silenzioso di chi fa del proprio meglio e questo, ciascuno con le proprie possibilità, non è precluso a nessuno.