Fotografia e scrittura migrante

Una riflessione storico-critica sul rapporto tra letteratura e immagine

Nella società contemporanea, più che mai condizionata dagli aspetti visivi, le effigi hanno un ruolo determinante in quanto possono riprodurre la copia di un oggetto concreto o indicare le modalità in cui si presenta la realtà o essere una forma della conoscenza. Sta di fatto che l’ambiguità ne è segno distintivo data la vastità del loro campo di pertinenza e perché le immagini si sovrappongono nel nostro sapere. Difficile, pertanto, distinguerne i contorni sempre più sfumati ed evanescenti e racchiuderle in un’unica definizione.

Non a caso le rappresentazioni ‒ dipinti, disegni, fotografie ed illustrazioni ‒ entrano nei diversi settori della storia dell’arte, ma anche della scrittura dove si esprimono con metafore, onomatopee, metonimie, ekphrasis, offrendo stimolanti considerazioni sulle tipologie di forme e di retoriche. Da qui l’interesse crescente per i visual studies, iniziato a partire dal 1990 ed intensificato nel corso degli ultimi due decenni, grazie a dibattiti sempre più serrati e vivaci. La letteratura non poteva certo rimanere in disparte anche se entra un po’ in sordina nelle dispute, manifestando un coinvolgimento relativo, dovuto alla diffidenza dei tradizionalisti letterari verso ogni forma di ibridazione della scrittura. Va da sé che l’immagine, il disegno hanno da sempre supportato le descrizioni integrandole sovente, quando non vi erano le parole adeguate per esprimere un concetto o per presentare oggetti sconosciuti.

Con la scoperta e con il successivo consolidamento della fotografia, l’inserimento di immagini all’interno di un volume ‒ dopo l’iniziale rifiuto ‒, giunge alla progressiva assunzione di funzione stessa di testo, delineandosi sempre più come iconotesto fotografico o “fototesto”, la cui caratteristica è data dalla duplice natura di luce ‒ l’istante sospeso nel tempo della pura contingenza in cui viene ripresa la fotografia ‒ e di scrittura. È esattamente questo il significato che Louis-Jacques-Mandé Daguerre (Cormeilles-en-Parisis, 18 novembre 1787 – Bry-sur-Marne, 10 luglio 1851), artista, chimico e fisico francese, ha attribuito al processo fotografico per lo sviluppo di immagini – ancora non riproducibili – chiamato dagherrotipia e brevettato nel 1839.

Tuttavia, dallo scontro o dal dialogo di tali codici differenti si condensano significati nuovi che mettono in discussione le norme stesse della letteratura e della figurazione. Al di là dell’evidente differenza tra scrittura e immagine, basata sulle diverse fenomenologie del messaggio linguistico-visivo che si sviluppa rispettivamente nel tempo e nello spazio, esistono dei punti di contatto, delle corrispondenze presenti nell’ideazione e nella costruzione dell’oggetto artistico.

Nel corso del tempo, fugaci sono le apparizioni di iconotesti ‒ le cui origini risalgono al Tardo Medioevo con le danze macabre, archetipo letterario di tema iconografico ‒ sino ad approdare alle illustrazioni moderne, alle vignette satiriche e ai fumetti otto-novecenteschi. Sarà soprattutto nel XX secolo, a partire dagli anni ottanta, che l’attenzione del lettore verso l’ibridazione di testo ed effigie si accenderà con crescente curiosità. Da qui la creazione di fototesti sempre più definiti dal gioco di rifrazione tra immagine e parola. Si considerano antesignani del genere, opere come: Nadja (1928) di André Breton, Le Tre Ghinee (1933) di Virginia Woolf ‒ Abicì della guerra (1955) di Bertold Brecht, per citare alcuni esempi.  Con Romanzo di figure (1986) di Lalla Romano, seguito da Récits d’Ellis Island. Histoires d’errance et d’espoir (1994) di Georges Perec e del regista Robert Bober, si assiste ad un susseguirsi di testi caratterizzati da medesime retoriche, che la critica coglie nella loro complessità ponendo le basi, per la definizione del “genere”.

Per quanto riguarda la letteratura migrante, in essa prevale l’aspetto autobiografico del fototesto che consente di ricostruire epoche e spazi perduti, rivissuti nitidamente nel ricordo, sia pure fissati in un attimo ben preciso e statico che, tuttavia, si presta a una dialettica di piani temporali. Da una parte vi è il passato, il famoso “è stato” di Roland Barthes (1980), e dall’altra parte il presente mutato dove è evidente la situazione conflittuale che si è creata nel processo evolutivo del tempo, insito nella processualità della fotografia.

Fotografie e grafie esprimono l’uguale necessità di una rielaborazione del passato traumatico di un’intera collettività e tendono a sanare le ferite dell’anima, provocate dalla lontananza e dalle difficoltà. Un accostamento di elementi visivi e verbali che trasferiscono al lettore ‒ divenuto spettatore ‒ sentimenti di empatia e di partecipazione. Gli stessi provati dallo scrittore che, nel sistemare le foto secondo stimoli individuali, fa emergere un “senso” capace di originare la scrittura. Nell’archivio da decifrare si condensa esattamente la relazione tra i due sistemi di espressione.

Tali opere sono particolarmente atte a convertire il discorso poetico in narrazione fotografica e viceversa. Un esempio ormai classico è la Prosa del Observatorio (1972) dello scrittore argentino Julio Cortázar. Si tratta di un insieme di testi ‒ raccolti a Parigi e a Saighon nel 1971 ‒ e di foto scattate dall’autore nel 1968 all’osservatorio di Jaipur ‒ costruito dal sultano Jai Singh nell’India del XVIII secolo ‒, fusione perfetta di immagini, di racconti, di riflessioni, di ritrovamenti e di espressività. Ciò conduce alla libertà di rappresentazione, a quel punto trascendentale che supera i limiti di ogni forma espressiva.

I fototesti dell’emigrazione, il cui corredo visuale definisce lo spazio, si riempiono di connotazioni universali, svelando passioni e intime aspirazioni, in una sorta di continuum narrativo dove sgorga ininterrotto il flusso della memoria: raramente le foto sono collocate seguendo precisi ricorsi retorici o con l’intenzione di annullare i limiti tra forme artistiche. Pur esulando sovente dal fattore storico-tecnologico diretto, emerge la stretta correlazione tra immagine e testo nella costruzione narrativa il cui intento è sempre il medesimo: presentare una serie di dati sui singoli individui e modellare l’identità di gruppo come organismo superindividuale, caratterizzato da storie, da virtù e da miti comuni.

Molti passi sono stati compiuti nell’ ultimo decennio verso la definizione del “genere fototesto” anche se persistono delle zone d’ombra dovute alla quantità di combinazioni tra scritto e immagine ‒ inserimento di fotografie, di ricette della tradizione familiare scritte a mano, di cartoline, di ritagli di giornale…‒ che rendono difficoltoso il raggiungimento della meta. Ciò si deve soprattutto al fatto che il fototesto rivela sempre «lo spazio di uno scarto» (Cometa 73). Solo l’immaginazione del lettore riesce a dare forma, per meglio dire forme, al vuoto inevitabile. Com’è facile intuire, è proprio questo il limite che allontana la classificazione del genere perché le vie della fantasia sono infinite ed imprevedibili come quelle di ogni creazione, quasi impossibili da incardinare all’interno di parametri circoscritti.

Bibliografia citata

Barthes, R. (1980): La camera chiara. Nota sulla fotografia, 1980. R. Guidieri (Trad.) Torino: Einaudi.

Cometa, M. (2016): Forme e retoriche del fototesto letterario.  In M. Cometa & R. Coglitore (Eds.), Fototesti. Letteratura e cultura visuale (pp. 69-115). Macerata: Quodlibet.

Cortázar, J. (1972): Prosa del observatorio. Madrid: Alfaguara.

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