La musica nella Grande guerra

I compositori che furono testimoni contro il rumore del conflitto

Gli artisti di ogni cultura, mobilitati materialmente e idealmente nella Grande guerra, testimoniarono con le loro opere gli eventi. Anche i musicisti continuarono a pensare e scrivere musica e, molto spesso, trovarono modi di espressione nuovi: le «accademie» sono travolte dalla nuova realtà e non sono più riferimento per i singoli artisti. Tra i soldati mobilitati ci sono due generazioni: i padri e i figli, i maestri e gli allievi; chi si forma nel XIX secolo e chi nel Novecento.

La guerra, per tutti i partecipanti, significò in primo luogo rumore ossessionante e inaudito, un insopportabile fragore che per la frequenza e soprattutto per la potenza, causava stordimento e annichilimento. I musicisti mobilitati dovettero fare i conti con questa situazione antitetica alla loro formazione sonora. Per molti continuare a pensare e comporre musica fu uno sforzo notevole, quasi irrealizzabile ma necessario, un’uscita di sicurezza mentale che fece in qualche modo da antidoto alla violenza quotidiana.

Studiando e approfondendo biografie e opere degli innumerevoli musicisti al fronte, ci si trova in presenza di un panorama variegatissimo di stili. Le variabili, oltre all’appartenenza generazionale, sono la derivazione culturale, la specificità caratteriale e le posizioni ideologi- che dei singoli rispetto alla guerra.

La comprensione dei linguaggi musicali e delle tecniche adottate si legano spesso strettamente proprio ai contesti di vita di ognuno e alle condizioni materiali in cui avviene la creazione. Contrasto, analogia, astrazione sono solo alcune delle modalità in cui si riflette la guerra nei procedimenti mentali e compositivi; molta influenza sugli esiti espressivi delle opere la esercita il testo, visto che una parte rilevante della musica del periodo di guerra è cantata. Ecco alcuni casi esemplari tra i musicisti-soldati che la guerra la vissero in prima persona.

Maurice Ravel (Ciboure 1875 – Parigi 1937), non appena scoppia la guerra, cerca di arruolarsi volontario. Per la gracile costituzione fisica era stato già riformato più volte, ma non si arrende, i suoi amici sono al fronte e lui ha l’impulso e determinazione di raggiungerli. Alla fine riesce a partire, finalmente, e a guidare con fierezza camion e autoambulanze verso la linea del fronte. Ravel scrive, tra il 1914 e il 1915, Trois Chansons: Trois beaux oiseaux du paradis, Nicolette, Ronde. Sono composizioni per coro a cappella, un genere che il musicista affronta per la prima e unica volta. Lo stile (soprattutto per il secondo e il terzo) fa ricordare la polifonia e le canzoni rinascimentali, in evidente contrasto espressivo con la guerra, come se l’autore volesse allontanarsi da essa il più possibile; soltanto nel testo si possono cogliere riferimenti diretti: in Ronde si evoca un sabba in un bosco, metafora della guerra; in Trois beaux oiseaux du paradis si fa riferimento diretto all’amico che parte per la guerra, quasi un’idea fissa angosciosa che tormenta chi è ancora a casa e vuole essere con lui; in questo caso l’andamento malinconico in forma di elegia popolare del brano esprime bene la condizione emotiva del compositore.

Erwin Schulhoff (Praga 1894 – Weißenburg in Bayern 1942) è un compositore e pianista cecoslovacco di origine ebraica. Mobilitato con l’esercito austro-ungarico è sul fronte italiano e, nelle caverne e trincee dell’Altopiano di Asiago, scrive nel 1917 Grotesken, cinque brani pianistici. La musica e la composizione diventano bene rifugio per salvare la propria identità. Lo stile personale di Schulhoff si affina proprio con queste opere, composte «a mente»; è la musica di un giovane proiettato decisamente nel Novecento la cui concentrazione nel comporre gli consente evasione dalla terribile realtà quotidiana. Già in Grotesken si intuisce l’interesse di Schulhoff per la musica nuova e le avanguardie.

Giuseppe Denti (Cremona 1882-1977) è un maestro di scuola, musicista, che si trova in primissima linea, come capitano, sul fronte del Carso nella notte di Natale del 1916. Scrive alla moglie e sul retro della lettera compone Allegretto in la minore per pianoforte, quasi un regalo all’amata. Lo stile è ottocentesco e alla prima parte in tonalità nel modo minore (che senz’altro è in linea con la condizione spirituale dell’autore intessuta di malinconia e incertezza) contrastano momenti in tono maggiore che bene esprimono la risoluzione di affrontare la realtà con coraggio e forza interiore: qui la logica espressiva è, in piccolo, quella del melodramma ottocentesco. Denti per tutta la durata della guerra (fronte e prigionia) compone musica e insegna i cori verdiani ai suoi soldati.

Ivor Gurney (Gloucester 1890 – Dartford 1937) scrive songs in trincea sul fronte occidentale; anche lui, come Schulhoff e Denti, tira le linee del pentagramma su carta occasionale e compone. È un giovane che sta soffrendo tutte le angosce, privazioni e paure della guerra; durante la battaglia della Somme subirà gli effetti dei gas iprite. Le sue opere (In Flanders, Severn Meadows, By a Bierside) sono un atto di resistenza all’orrore e per lui l’amore, la terra lontana, la natura, la musica sono la salvezza dell’identità. Lo stile, tra Otto e Novecento, si adegua al bisogno di esprimere i suoi stati d’animo, riservando straordinari esiti armonici.

Per André Caplet (Le Havre 1878 – Neuilly-sur-Seine 1925), compositore e direttore d’orchestra francese, la guerra ha rappresentato il momento di svolta della sua vita e della sua carriera.

Fu ferito due volte e subì gli effetti dei gas che lo fecero soffrire ai polmoni in modo permanente, causando la morte prematura. Continuò a scrivere e a pensare la musica; le tragiche esperienze rafforzarono la sua fede e il brano Prière Normande del 1916 ne costituisce la sintesi espressiva; l’opera, nella tonalità di Mi maggiore, interpreta la forza data dalla religione ed è animata da un grande ottimismo, articolandosi in diverse sezioni dalla scrittura colorata e viva.

I tormenti della guerra sono espressi in melodie per canto e pianoforte come Quand reverrai-je, hélas! (chanson dai tratti semplici e partecipati intrisa di malinconia nostalgica, del 1916) e La croix douloureuse (Prière des âmes en deuil) e Détresse! (1918).

Anche i musicisti non mobilitati però parteciparono idealmente al conflitto, ognuno con la propria creatività.

Di particolare interesse la figura e le composizioni di Riccardo Zandonai (Rovereto 1883 – Trebbiantico 1944), che, trentino, attraversò drammaticamente il periodo della guerra avendo sposato la causa dell’irredentismo e assunto un atteggiamento antiaustriaco. Condannato per alto tradimento, perché renitente alla leva e per alcune sue composizioni come l’Inno degli studenti trentini del 1901 e la Messa da Requiem (1916) dedicata ad Umberto I, dal 1916 il musicista, co- stretto alla fuga, fissò la sua residenza a Pesaro. In quegli anni, la produzione sinfonica fu in gran parte legata a sentimenti patriottici e alla suggestione della sua terra, come Primavera in Val di Sole, Autunno fra i monti – Patria lontana, Terra nativa, Alla Patria, Esulta Trento!, Risveglio d’Italia.

Gian Francesco Malipiero (Venezia 1882 – Treviso 1973) non partecipò da soldato alla guerra, ma abitando in quegli anni a Venezia, ad Asolo e poi a Crespano del Grappa (quindi molto vicino al fronte) l’espressività musicale e la tecnica compositiva furono direttamente influenzate dagli eventi. Scrive: «Nel 1914 la guerra sconvolse tutta la mia vita che, fino al 1920, fu una perenne tragedia. Le opere di questo periodo rispecchiano forse la mia agitazione, ciononostante ritengo che, se qualcosa ho creato di nuovo nella mia arte (forma-stile), è appunto in quest’epoca». Nel 1916 scrive Poemi Asolani per pianoforte; del primo dei tre brani, intitolato La notte dei morti, Malipiero commenta:

È veramente lo specchio di me. Dai colli asolani avevo veduto accendersi tutti i cimiteri della pianura, sino al Monte Grappa e quelle luci, accompagnate dai rintocchi delle campane, stavano già allora a dimostrare che solo i morti potevano ancora dirsi vivi. Eravamo al prologo della tragedia (Gatti, 1952).

Tra l’aprile e il giugno 1917 compone le Pause del silenzio per pianoforte a quattro mani, poi trascritte per orchestra sinfonica; di esse scrive:

Esse furono concepite durante la guerra quando era più difficile trovare il silenzio e quando, se si trovava, molto si temeva d’interromperlo, sia pure musicalmente […] La prima impressione può chiamarsi pastorale, la seconda fra lo scherzo e la danza, la terza una serenata, la quarta una ridda tumultuosa, la quinta un’elegia funebre, la sesta una fanfara, la settima un fuoco di ritmi violenti. È facoltà di chi ascolta di dare delle interpretazioni opposte a quelle precisate dall’autore. Lo squillo con quale s’iniziano e che ritorna sette volte, è il solo legame tematico che esiste fra le 7 espressioni sinfoniche ed è un po’ eroico, perché una voce timida non oserebbe interrompere il silenzio (ibidem).

Un’altra «opera di guerra» di Malipiero fu Pantea. Composta a Roma tra il 1917, dopo aver abbandonato Asolo dove lo aveva colto la ritirata di Caporetto, e il 1919, fu ispirata dalle vicende belliche dell’autunno 1917 che «hanno quasi suggerito le allucinazioni di una donna prigioniera mentre fuori imperversa un uragano di ferro e fuoco».

Claude Debussy (Saint-Germain-en-Laye 1862 – Parigi 1918) pur non partecipando direttamente alla guerra per ragioni di età, la subì emotivamente e le sue opere del periodo risentono di uno stile proprio, in piena consapevolezza artistica. Scrive:

Voglio lavorare non per me stesso ma per dare una prova, per quanto piccola, che neppure trenta milioni di boches possono distruggere il pensiero francese anche se hanno tentato di degradarlo, prima di annientarlo.

In una lettera a Godet:

Ho capito che era viltà pensare solo agli orrori che accadono, invece di cercare di reagire ricostruendo, secondo le mie forze, un po’ della bellezza contro la quale la guerra si accanisce (Debussy, 1915).

Rientra in questo clima creativo la Sonata per violino e pianoforte.

Non mancano però opere che si intersecano direttamente con gli avvenimenti: nel novembre del 1914 scrive Berceuse héroique, dedicata al re del Belgio Alberto I, che aveva resistito ai tedeschi invasori; tra il giugno e luglio del 1915 scrive En blanc et noir, tre pezzi per pianoforte dedicati al pensiero della guerra e alle sue vittime, ma anche con la presenza di accenti patriottici; nel dicembre dello stesso anno scrive testo e musica di Noël des enfants qui n’ont plus de maison per canto e pianoforte, una dura invettiva contro i tedeschi che hanno bruciato case, scuole e chiese, hanno ucciso le madri e costretto i padri a combattere; la musica fluisce travolgente e ben asseconda la violenza delle parole.

Igor Stravinsky (Lomonosov 1882 – New York 1971) nel 1913 aveva già anticipato i tempi imminenti di un conflitto senza precedenti con Le Sacre du printemps, il capolavoro assoluto che irrompe scandalosamente a Parigi, una «nuova primavera» di violenze inaudite e sacrifici umani. Come la musica de Le Sacre rompe tutti gli schemi diventando subito pietra angolare nella cultura mondiale, così la guerra segnerà indelebilmente l’inizio del nuovo secolo e della contemporaneità.

Durante la guerra Stravinsky, allontanatosi dalla Russia e rifugiatosi in Svizzera, scrive Histoire du soldat, su libretto di Ramuz. Così scrive:

L’idea mi venne nell’autunno del 1917. Il proposito di comporre uno spettacolo drammatico per un théatre ambulante mi si era affacciato più volte dall’inizio della guerra. Il nostro soldato, nel 1918, era visto molto chiaramente come la vittima del conflitto mondiale in corso, mentre il diavolo è il diabulus cristiano dai molti travestimenti (Stravinsky e Craft, 1960).

La percezione quindi che dalla Grande guerra sarebbe emerso un male ancora più grave rispetto ai lutti: l’uomo si sarebbe messo contro l’uomo, rendendosi impotente di fronte agli attacchi del maligno.

Il canto dei soldati

Le guerre hanno costituito sempre una fonte inesauribile per la creatività popolare, in particolare la Grande guerra è stata un’esperienza vissuta anche con il canto. Le diverse forme del canto popolare (epico-narrative, ballate, canti di lavoro, canti rituali, filastrocche) con lo scoppio del conflitto si spostarono al fronte. Provenienti da tutte le regioni italiane i soldati si conobbero, condivisero la vita in trincea o a riposo, impararono a vicenda i canti delle terre di provenienza e, secondo uno schema proprio della cultura popolare, adattarono parole e strofe alle esperienze che stavano vivendo. Il canto collettivo dunque come conforto, grazie alla sua caratteristica di far condividere nell’attimo parole, melodie, sentimenti. Nacquero anche nuovi canti e le vicende della guerra fornirono spesso le parole, mentre la linea melodica venne scelta in funzione dell’efficacia comunicativa.

I canti dei soldati vanno da quelli patriottici di esaltazione guerresca, come ad esempio Sulle balze del Trentino, Aprite le porte, Su in montagna, E quando passa…, Figlia ti voglio dare, Nôi sôma alpin. Sul cappello che noi portiamo, a quelli più antichi, ripresi e aggiornati nei testi, come la ballata Il testamento del Capitano. Meno numerosi quelli di protesta, tra i quali è particolarmente rilevante Fuoco e mitragliatrici. Sull’aria della bella canzone napoletana Sona chitarra di Ernesto De Curtis, con parole di Libero Bovio, il testo esprime un sentimento di forte dissenso nei confronti della guerra e delle sue luttuose conseguenze.

Un altro esempio significativo di canto protestatario, ricco di elementi satirici, è lo stornello Il general Cadorna, che fu vietato dai Comandi, senza che questo impedisse la sua circolazione, tanto che non pochi soldati furono condannati, per averlo cantato, a pene detentive e pecuniarie. Le strofette in cui è diviso il testo si evolvono e si modificano per tutto il corso della guerra e sull’intera linea del fronte, costituendo una sorta di lettura e di interpretazione popolare della stessa.

Altrettanto considerevole è il canto pacifista Prendi il fucile e gettalo giù per terra, elaborazione del più famoso O Dio del cielo, se fossi una rondinella, una delle più belle melodie popolari italiane. Di notevole rilievo, infine, Quel porco di quel medico, ovvero La nostra sentenza, probabilmente derivato da un antico modello ottocentesco, nel quale si esprime la protesta dei coscritti trentini arruolati nell’esercito austriaco. Significativa la denuncia della guerra contenuta in Gorizia: il canto, con melodia di cantastorie, è stato raccolto dopo il conflitto in diverse versioni nell’Italia del nord da informatori che le avevano apprese al fronte.

Naturalmente numerosissimi sono i canti di d’evasione, di attesa, d’amore e di divertimento (notevole è Di bere e di mangiare, una autoironica visione della vita del soldato, rielaborazione di un canto popolare il cui ritornello suonava: Come porti i capelli bella bionda). Tra questi ultimi molto conosciuti e cantati furono Moretto Moretto, Quel mazzolin di fiori, La barbiera degli alpini, O Teresina, Ragazzine che fate l’amore, L’aibella, Amavo una ragazza e La pastora.

Una considerazione particolare va riservata all’esperienza della prigionia, di cui è espressione, ad esempio, Caro padre abbiam fatto ritorno, bella e rara canzone, raccolta in Emilia, dei soldati italiani reduci dai campi di prigionia austriaci e tedeschi, nota in Lombardia come Finalmente la guerra è finita e in Veneto come Austriaci di razza galera.

Bibliografia

Debussy C. (1915), Lettera a Robert Godet, 14 ottobre.

Gatti G.M. (a cura di) (1952), L’Opera di Gian Francesco Malipiero. Saggi di scrittori italiani e stranieri con una introduzione di Guido M. Gatti, Treviso, Edizioni di Treviso.

Stravinsky I. e Craft R. (1960), Memories and Commentaries, London, Faber & Faber.

(Da Il Mulino/Rivisteweb, 2/2016)

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