Tra “reale” e “Vero”: meditando su spiritualità, speranza, scelte
Ricordi personali e spunti interiori per una riflessione sulla clausura monastica
Nello svolgersi della mia vita, percorso nel reale alla ricerca del vero, ho conosciuto pause ed entusiasmi, fascino ed emozioni profonde, fulcri diversi di attenzione e d’interesse, e ho raccolto collaborazioni, coscienti o inconsapevoli, di persone eventi attimi e luoghi dove a volte pareva che mi trovassi per caso.
Per esempio al cinema.
Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo. In una religiosità ancora tradizionale, appoggiata su regole e divieti, fascino e timore e quiete di abitudini, già il titolo era rivoluzione: Matteo, semplicemente, senza la “S” del Santo. Era sentito come un azzardo, una confidenza inaccettabile, una mancanza di rispetto; ma a me pareva come un vento leggero, che scostava il superfluo per invitare a guardare.
Il film era Vero. Una continua provocazione di verità, lo sfrondamento di ogni quiete, solo l’essenza disarmata del messaggio.
Se torno indietro a cercare i ricordi, trovo intatta l’anima del film, e il crescere della mia commozione; poche le immagini, solo quel Gesù dal volto qualunque – per poterlo riconoscere in qualunque uomo – e la brace di quegli occhi che risanano il lebbroso. Ma nella completezza di quell’uomo, che sulla terra di Palestina ha camminato davvero, ha risanato davvero, ha parlato e taciuto, amato, ha guardato negli occhi davvero, io ho riconosciuto il nostro Dio fratello, la Verità dentro di noi presente e semplice, illimitata dignità della nostra piccolezza.
Poi alla fine il suggello di quello schermo deserto, la voce
Ed ecco, io sono con voi ogni giorno, fino alla fine del mondo.
Nonostante il mio interesse per molte forme di spiritualità, stranamente il mondo della clausura mi restava estraneo: pareva una fuga dal mondo, non ne conoscevo le motivazioni, non ne capivo l’utilità. Ma è arrivato il giorno anche per quello.
C’era una chiesa nuova sul mio tragitto, non convenzionale, mi incuriosiva, ma la vedevo sempre all’ultimo momento, e non riuscivo a fermarmi. Un giorno ho sbagliato qualcosa, e ho avuto il tempo. Era bella, fatta come una tenda nel deserto, tanta luce sopra l’altare, la parete di fondo un semicerchio a mattoni forati, per la vicinanza del cielo e il riposo dei passeri.
E un sacerdote sportivo e sorridente, suonava la tromba, giocava a calcio in un campionato, e sembrava l’incarnazione della misericordia felice. Ed era una calamita per i giovani e per chiunque cercasse il sentiero giusto per la propria vita.
Almeno sette i giovani che da lui hanno imparato a volare, e hanno riconosciuto e seguito una chiamata totale: sacerdozio, missioni, convento, e clausura.
Un giorno mi ha parlato di tre ragazze: io avevo 30 anni e aspettavo il mio terzo bambino, loro ne avevano venti, volavano e cercavano un luogo per posarsi, un ordine di clausura senza compromessi. L’amicizia è stata immediata, e non finisce.
Condividere il percorso di una vocazione estrema è qualcosa che ti nutre e ti cambia: l’ho imparata la clausura, sì.
Erano diverse: una borghese, bella, elegante, disinvolta; una semplice, buona, pareva facile all’obbedienza; una luminosa, famiglia vicina alla terra, nel poco a cui era abituata vedeva ancora tanto superfluo da dare.
Cercano, studiano, vanno a vedere di persona, ma trovano comodità, distrazioni, troppe cose inutili all’assoluto. Ma non c’è niente di austero in loro, o di eccessivo, né di sottilmente ambizioso, la voglia di pensarsi sante. Stanno rispondendo a una chiamata alla gioia, e con gioia vivono ogni cosa: come i bambini, anche le anime fresche giocano molto sul serio.
E finalmente le Carmelitane. La profondità del pensiero, il rigore della coerenza, la durezza della salita su cui abbandonare ogni più piccolo egoismo, tutto quello che siamo abituati a chiamare “io”, perché è tutta zavorra (non il cervello, quello serve per volare) a mano a mano l’anima si fa più leggera, e l’amore più limpido. Non è fuga dal mondo, è un’inclusione più vasta del mondo, con tutti i suoi valori, le difficoltà, il dolore che lo abita, le speranze, gli orrori che ci stanno consumando, le disperazioni, e l’amore infinito di cui ha bisogno. In qualche modo smettono di fare parte del mondo, è il mondo che fa parte di loro.
Una di loro entra in crisi, ha paura: paura di andare avanti o di tradire fermandosi, perché la chiamata è sempre così forte. Parla con uno psicoterapeuta, che prova a normalizzarla: “Ma vuoi che un Dio così grande abbia il tempo di occuparsi di te?” ed è allora che le esplode dentro il sì più grande della sua vita. Quella è la sua certezza, il resto può cambiare, lei vivrà comunque la sua risposta a quella chiamata: il dove e il come fanno parte del reale, ma il Vero è libero. Sceglie una vita normale, ha la sua dose normale di difficoltà e dolore, e la porterà come un’offerta carmelitana.
Le altre continuano, ed è passato tanto tempo ormai. Un anno fa ero al cinquantesimo di professione della più luminosa: piccola, gioiosa, bianca come la sua veste, in chemioterapia da anni, “sono fortunata…” non si perde una briciola di gratitudine.
Ma dove portano tutte le loro rinunce, dove si salda la loro purezza con il bene dell’uomo?
Conosco una promessa: Qualunque cosa chiederete, e non avrete alcun dubbio nel vostro cuore, che quella cosa accada, accadrà.
Ma come si può essere così sfrontati da pensare “io ti chiedo una cosa e tu la farai”, sicuro, automatico? Non è possibile, come dev’essere quella preghiera? Altruista, importante, essenziale, pura: l’essenza di quella preghiera sta nell’offerta di sé.
Chi ha creato l’uomo e l’ha voluto libero, con quella libertà si è legato le mani, non può dare ai suoi figli quello che non vogliono chiedere: se qualcuno nella purezza conquistata sa riversare tutta la propria energia in una preghiera per l’uomo, quello sì, può avere la sfrontatezza di credere di potergli liberare le mani.
E in questo nostro tempo, in cui le speranze razionali di una salvezza dell’umanità sono così faticose, forse nel coraggio di quelle creature in clausura, nella libertà della loro preghiera, può vivere anche la nostra speranza di poter sperare.