Le signorine di Vicenza: ripensando a “Il prete bello” di Goffredo Parise
Un celeberrimo romanzo che negli anni Cinquanta ha saputo ritrarre, con ironia, i vizi e le virtù di una città di provincia
Nel 1954 Goffredo Parise pubblicava un libro che riscosse un grande successo, Il prete bello, che presentava una Vicenza di periferia animata da piccole figure che vivevano di pettegolezzi e di “ciacole”. Erano le signorine Walenska, la Botanica, Camilla, oggetto di scherno da parte della banda dei ragazzacci che erano Sergio, la voce narrante e Cena, lo scapestrato per eccellenza, che ogni giorno sapeva inventare qualche monelleria di cattivo gusto per poter in qualche modo sbarcare il lunario. Le due sorelle Walenska non si sapeva da dove venissero, ma pare si trattasse di nobiltà decaduta. La vecchia era una contessa: portava sempre una mantellina di piume di struzzo e alte soprascarpe di gomma ai piedi. Era una vecchia arcigna e piena di una certa pomposità ereditata: non salutava mai nessuno e se ne stava in casa tutto il giorno. Mangiavano una sola minestra che si facevano mandare dalle Cucine Economiche alla sera, per non essere costrette ad unirsi ai mendicanti. La Botanica era una signorina di circa quarant’anni, dall’aspetto consunto ma ancora sostenuto che, a differenza della maggior parte delle zitelle, si presentava come una persona, se non benestante, per lo meno di condizioni modeste ma decorose. Viveva in una stanzetta a piano terreno infestata dagli scarafaggi e stillante umidità come una grotta. Le uniche finestrelle davano una nel cortile e una nel vicolo dei Servi, come quelle di Camilla, ma erano molto più piccole e sottili, coperte di vetri di un color verde bottiglia spessi un dito e bitorzoluti, abbastanza consistenti da resistere ai salti e alle capriole da circo dei gatti che tentavano durante la notte di penetrare nella stanza e farsene padroni. La Botanica invece andava in giro per i colli alla mattina presto in cerca di radici ed erbe medicamentose di cui riempiva un grosso sacco che trascinava a casa. I suoi clienti erano due o tre vecchiotti artritici e giovani mezzo scemi accompagnati dai parenti avvolti in grossi scialli. Non era una strega, come la chiamavano, ma la sua casa aveva un aspetto magico e clandestino. L’idolo di tutta questa piccola e varia umanità era don Gastone, il “prete bello”, convinto fascista, reduce dalla guerra di Spagna, fanatico di Mussolini e della sua cerchia. La sua tonaca spariva davanti all’imponenza dei gradi, delle medaglie che tintinnavano sul petto, della fascia azzurra con il fiocco che l’attraversava. Si mormorava che frequentasse le signorine vecchiette che spasimavano di vederlo e introdurlo nella loro casa. Erano tutte chiacchere, ma lui era sempre all’ordine del giorno e le signorine pagavano i ragazzacci di strada per avere sue notizie.