Per non cedere a un mondo costruito sulla paura
Karol Wojtyla, il papa Giovanni Paolo II oggi santo e del quale si è proprio in questo aprile celebrato il ventesimo anniversario della scomparsa, ne aveva fatto un proprio motto, anzi grido caratteristico sin dai primissimi tempi del pontificato: “Non abbiate paura!”. Lo ripeteva a tutti e con particolare vigore ai giovani, che in ogni angolo del mondo accorrevano ad ascoltarlo. “Non abbiate paura!”.
Lui, naturalmente, declinava questa esortazione in termini di fede e adesione religiosa, come esplicito invito a proclamare, seguire, testimoniare gli insegnamenti e la figura di Cristo. Eppure, se ci si riflette, ben al di là d’ogni credo personale e d’ogni riferimento confessionale, anche laddove il proprio pensiero sia del tutto laico e privo di aspettative oltremondane, non esiste oggi imperativo più necessario di questo: “Non abbiate paura”. Perché la paura nelle sue varie declinazioni –
timore, diffidenza, assillo, preoccupazione, ansia – sono divenute la costante misura con cui ci rapportiamo alla realtà, quotidiana e futura. Si dirà che questo è in parte inevitabile a causa della nostra fragilità, della precarietà, della vulnerabilità della nostra condizione umana, soggetta alle malattie e all’imperio del tempo: nonostante le ricerche cognitive e sociali ci assicurino che, delle preoccupazioni e paure che riempiono le nostre esistenze, nemmeno con una su dieci dovremo effettivamente confrontarci, perché quasi tutte non si verificheranno mai, ugualmente viviamo nella continua proiezione di “quel che potrebbe essere”, quasi in una realtà parallela sovrastata da ogni possibile catastrofe, personale e planetaria. Non si ha più paura di qualcosa, di un rischio specifico che, in quanto tale, magari si proverebbe ad affrontare: si ha invece paura un po’ di tutto come immersi in una sfocatura perenne, una nebbia indefinita, una palude emotiva e psicologica. Per questo quel grido, “Non abbiate paura”, è intransitivo: non dice di cosa, ma identifica il vero pericolo nella paura stessa, che rende sfiduciati e disillusi.
Il problema è che questa apprensione, questa inquietudine, sono continuamente alimentate da un sistema in cui la stessa cronaca degli eventi dalla quale siamo ogni giorno assaliti viene riferita, diffusa, amplificata seguendo un meccanismo che ne dilata, spesso a dismisura, la dimensione negativa, inducendo uno smarrimento esistenziale che si tramuta sempre più spesso in panico, allarme, angoscia, sgomento. Si tratti di calamità naturali, di disastri procurati dall’incuria umana, di decisioni politiche o di qualsivoglia altra cosa in ogni campo – economico, tecnologico, sociale, geopolitico, ambientale, sanitario – si tende ad esasperarne la prospettiva deleteria o nociva, gli scenari peggiori, gli aspetti più controversi: moltiplicando, così, ogni possibile disagio.
Non si tratta, sia chiaro, di sgravarsi futilmente d’ogni pensiero, con l’impossibile (e irragionevole) obiettivo di collocarsi fuori dalla realtà in una dimensione sognante, intangibile e utopistica. Ma, come in tutte le cose, dovrebbe esistere un giusto mezzo: una società che rinforza ed esaspera il disorientamento, estendendolo ad ogni spazio collettivo e individuale, comprime e denerva, se non addirittura dissuade, l’espressione di molte delle potenzialità insite nella collettività e in ciascuno.
Quello d’indurre timore e spavento non è caratteristica esclusiva degli ordinamenti autoritari, ma è divenuto (intenzionalmente o involontariamente, se ne potrebbe discutere a lungo) la modalità stessa della comunicazione ordinaria. Per difendersi, per “rimanere a galla”, si finisce appunto per fermarsi alla superficie, come amaramente dimostra l’attuale dominio dell’effimero e dell’apparenza. Si è spinti ad anestetizzare la parte più autentica e profonda di sé, assuefacendosi alla banalità e alla sfiducia: il pensiero si intorpidisce e ottunde in slogan, rinunciando ad ogni capacità di esame critico, abituandosi a quella frenesia intellettiva (drammaticamente diffusa nelle nuove generazioni) per la quale ogni informazione è subito dimenticata, nulla viene davvero assimilato e la soglia di attenzione non supera i pochi secondi e le poche righe, o addirittura si limita al lampo di un’immagine.
Ecco allora che il “non avere paura” diviene la premessa di quell’idea di speranza che, non casualmente assunta a tema di quest’anno giubilare, è un sentimento umanissimo e profittevole per chiunque, non soltanto per chi si riconosca in una fede. Speranza come necessario riscatto contro la deriva di un mondo che sembra sempre meno credere al futuro e proprio della speranza, in questo numero, ci parla Antonella Cesari nel suo magnifico contributo.
Ma allora com’è possibile, in tale contesto, “non avere paura”? A nostro parere, esiste un solo vero antidoto: ostinarsi, anche a costo d’apparire fuori tempo e fuori moda, a conoscere e approfondire, ad informarsi e apprendere, a percepire e discernere. La cosa sembrerà forse controintuitiva a chi pensa che più si sa, più si abbia ragione di spaventarsi: non è così. La paura dilaga tanto più vengono a mancare la memoria, l’identità, la cultura, la conoscenza e con esse, già di per sé valori assoluti, la capacità di cogliere la bellezza presente nell’arte, nella natura, nella creatività del sentimento e dell’intelletto, nell’incontro umano. Solamente riscoprendo queste dimensioni, la paura potrà arretrare e lasciare il campo ad una nuova fiducia nel domani, sia prossimo che futuro.