L’uomo che voleva essere colpevole

Un romanzo di Erik Stangerup, pubblicato la prima volta nel 1973, contiene una interessante, e sempre attuale, disamina sul tema della responsabilità personale

Devo ammettere che me ne sono accorta solo cinquant’anni dopo che era stato pubblicato in Danimarca e trentacinque in Italia e che per puro caso in libreria mi è caduto l’occhio su quest’ultima edizione del 2017. Tuttavia, ora che l’ho letto, non posso fare a meno di dire due parole su un romanzo del danese Erik Stangerup, che incuriosisce già per il titolo: L’uomo che voleva essere colpevole

Di solito uno nega, o confessa, o si pente di essere colpevole, ma come può volerlo? Mentre invece proprio questo è il caso di Torben, il quale, durante una furiosa lite, ha ucciso sua moglie, dopo di che, invece che davanti a un tribunale, si trova davanti a uno psichiatra e al posto di un giudizio morale deve affrontare un giudizio clinico, in quanto il suo – come tutti i gesti simili – è ritenuto conseguenza di un mancato adattamento sociale che la società, negando ogni responsabilità personale, si guarda bene dal punire e piuttosto si sente in dovere di far superare con adeguate cure.

Tutte le quasi duecento pagine del libro sono occupate dalla vana ribellione di Torben, che pretende di essere riconosciuto colpevole, cioè libero di uccidere o non uccidere e pienamente responsabile della sua scelta. (Del resto il concetto di colpa è sempre condizionato da quello di libertà: anche il mea culpa, mea maxima culpa del cristiano cos’altro è, insieme al pentimento di avere scelto male, se non l’affermazione della propria libertà di scelta?).

Ma quanto più Torben si dibatte contro di essa, tanto più strettamente lo avvolge la rete dell’assistenzialismo statale, il quale, cancellando ogni traccia del suo delitto, finirà per ridurlo un “felice” automa senza problemi, che nemmeno si ricorda di aver ucciso la moglie. E tanto meno ricorda di averla uccisa perché si era accorto che lo tradiva:  non, come di solito si intende, con un altro uomo, ma cedendo realmente, dentro di sé, al sistema dal quale per più di dieci anni si erano difesi insieme, prima con aperto disprezzo, poi con una simulata ironica parvenza di adesione. Così, fin dall’inizio, non si trova nel romanzo altro “motivo” che questo: la protesta contro la soffocante insopportabile invadenza di uno Stato che provvede ai suoi cittadini dalla culla alla tomba, trasformandosi in una “gabbia di conformismo”, dove tutto è pianificato, collettivo e obbligatorio, i concetti di bene e male tendono ad essere aboliti e ogni autonomia individuale viene cancellata perché non ce n’è bisogno. Insomma contro la “felicità ufficiale” del socialismo democratico degli Stati scandinavi. 

“L’invenzione di Stangerup riesce a raggelare come da anni nessun altro libro, proprio perché è già quasi una realtà” si legge nella postfazione del 1982. Chissà cosa scriverebbe il medesimo commentatore di fronte ai successivi sviluppi di questo <<modello scandinavo>> e alla crescente ammirazione e imitazione di cui dopo cinquant’anni continua ad essere oggetto.

In un vecchio romanzo ottocentesco, Notre Dame di Victor Hugo, un giovane scapestrato così risponde a chi gli predice che finirà sulla forca: “La forca è una bilancia su un piatto della quale sta un uomo, sull’altro la società intera: è bello essere l’uomo”.   

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