Nel segno del Destino: storia di Anna e di Joza, dalle montagne all’incontro con un Maestro
Credo che ognuno di noi custodisca dentro di sé il fascino delle grandi domande, da dove l’universo, perché la nostra vita, giustizia e crudeltà, libero arbitrio e destino.
Io sono attratta in particolare dall’analisi dei destini: ho avuto l’occasione di seguirne alcuni, anche per molti anni, e mi sono stati fonte di nuove ipotesi e di nuove domande. Perché osservare le nostre vicende, ricordare, tenere vive combinazioni e stranezze, coincidenze e imprevisti, può indurci a ipotizzare la presenza di un pensiero logico che collabori con noi.
Quello che chiamiamo Destino potrebbe essere la combinazione fra il grande disegno della Sapienza, paziente, e la nostra imperfezione che cammina nel Possibile, e liberamente prova a scegliersi la via. Se non è la migliore, la pazienza aspetta, l’uomo qualcosa impara. È lungo il lavoro, ci vuole tempo per somigliare al Disegno. E’ bello pensare, perché no, di poter avere qualche vita in più.
C’è una storia che vorrei raccontare, che con protagonisti e comprimari a me cari copre settant’anni del secolo scorso: una storia di casualità, di tentativi mai riusciti di trovare i propri sentieri, e di strade regalate apparentemente per caso. Tutto è cominciato intorno agli anni ’30, perché la sorella di mia mamma, Anna, alpinista di buon talento, andava per scalate con Emilio Comici. La montagna è ambiente ricco di persone vere, e di amicizie tenaci. Con Comici è entrato in famiglia un giovane jugoslavo sorridente (sloveno, si direbbe oggi), Joza, che sembrava uscito dalla penna di Teilhard de Chardin: Tu non sei un essere umano che sta vivendo un’esperienza spirituale, sei un essere spirituale che sta vivendo un’esperienza umana. Aveva ricordi precisi di una sua esperienza umana di quattro millenni fa, diceva d’essere stato un crudelissimo capo degli schiavi nella costruzione di una piramide. Beh facile, può dirlo chiunque, chi ti controlla?


Anna abitava in Egitto. E amava invitare sorella e amici, e andare a controllare.
Vanno, ovviamente una guida li accompagna, ma lui chiede di non intervenire per favore, vuole guidare lui. Un sorriso, d’accordo. Non un dubbio, un’incertezza: conosce gli ambienti, i passaggi, i perché. La guida è sbalordita, ma non ha ancora visto tutto. “In fondo al corridoio a sinistra c’è una porta” ma la porta non c’è, e lui non si dà pace, come può essere, sono sicurissimo… La guida non sorride più: “C’era una porta in origine, è stata chiusa in un secondo tempo”. Gli anni passano, le amicizie no, si approfondisce quella con mia madre, cercatrice spirituale, in una lunga condivisione di spirito e allegria.
Dopo la guerra lui lascia il suo inquieto Paese, viene in Italia e cerca lavoro, qualunque lavoro ma è difficile. Un vecchio amico gli offre un’occasione, guidare un camion da Milano a Napoli con un carico di merce da consegnare. Sarebbe banale se non disegnasse così bene la persona che lui era. Lungo viaggio, una trattoria per camionisti, il tempo di un panino e il camion non c’è più. Ragazzi intorno, a vedere lo spettacolo, e a loro dice: “Ho bisogno di parlare con chi comanda qui”. Lo portano, il capo è incuriosito. E lui con quei suoi occhi senza ombre, quella sua profonda infanzia, si confida con lui. “Sono un povero diavolo come te, non ho niente, queste cose mi sono state affidate da un amico e io non potrò mai ripagarlo, è come un tradimento e non potrò farci niente”. Da anima ad anima. Gli riportano il camion, del carico non manca una virgola.
Nel frattempo il grande disegno, che aveva accompagnato le scelte famigliari di mio padre e mia madre, ha nuove proposte da offrire. La scelta è difficile e dolorosa, ma come sempre ricca di dignità e di amore: si separano, ma l’amicizia e il rispetto non mancheranno mai. Per noi figli un esempio di civiltà; per loro si apre il periodo più fecondo delle loro vite, con una scelta diversa non sarebbe mai stato. Ma per lei, mia madre, manca qualche passaggio di decisioni altrui.
Siamo nel 1950, l’amico Joza ha tentato di tutto, prova a portare le sue speranze in America. Anche lì piccole cose, la fortuna non attecchisce ancora. Poi finalmente… un amico esperto in agricoltura dice che si sta preparando una straordinaria stagione per la produzione dei meloni. Un prestito per affittare un campo, al lavoro.
È una stagione da ricordare. Tutti hanno coltivato meloni, mangiato meloni, provato a vendere meloni arrivando infine a non poterne più di meloni, che intristiscono abbandonati nei campi. Lui smette di fare programmi, cammina dove la vita lo conduce, il suo Disegno lo troverà.
Lo trova. Lo aspettava sulla porta di un monastero a Los Angeles, dove un Maestro indiano, Yogananda, lo porta a completare la sua anima e a renderla fertile. Farà molte cose, da giardiniere col pollice verde ad organista nelle funzioni religiose, monaco – riceverà il nome Premamoy, permeato di amore divino – ed estensore di un programma di allenamento spirituale per i postulanti, che gli saranno poi affidati per sempre.
Ma prima di tutto questo, è stato agente del Destino di mia madre. Sono sempre rimasti in contatto. Lui scrive della sua vita trasformata, poi è lei a scrivere al Maestro, che diventa il suo Guru poco prima di morire: per tutta la sua lunga vita lei sarà grata di essere arrivata in tempo. Oltre a trovare casa per la sua anima, mia madre ha modo di mettere a frutto le sue capacità e di acquisirne di nuove: traduce i libri di Yogananda e le lezioni per i “devoti” italiani, diventa responsabile per l’Italia di tutta l’attività dei gruppi; per insegnamenti e controlli riceve in casa (a ondate) quelli che possono spostarsi, per gli altri si sposta lei in giro per l’Italia, cura le musiche e suona l’organo all’occasione. Scrive sette lettere al giorno (“non faccio apposta, quando ho finito le conto, sono sempre sette”). La sua condizione fisica non è motivo per lamentarsi, neanche quando è costretta in sedia a rotelle, e i dolori sono proprio tanti. A 84 anni comincia a tradurre un poemetto indiano in quartine, l’ultima cosa che vuole ancora chiedere alla sua vita. La porta a termine, sorride, adesso posso andare. Invece indossa ancora il suo corpo per qualche anno, fino al 1997.
Premamoy l’ha preceduta. In un giorno d’ottobre del 1990, alle sei del mattino, è suonato il telefono vicino a me, e a quarant’anni dall’ultima volta una voce sorridente mi saluta “come stai, i tuoi ragazzi tutto bene?”. La notizia arriva l’indomani, mia mamma sapeva già.
