Alla conquista della terra: il fenomeno migratorio

L’emigrazione italiana e il sogno argentino: l’esodo verso una nazione scelta come “seconda patria” da due milioni di braccianti e contadini

A partire dalla fine del XV secolo, in Europa, si sono verificate migrazioni senza precedenti, causate in gran parte da avvenimenti storico-politici ed economici. I due grandi flussi moderni comprendono gli spostamenti dall’Europa al Nord America e all’America Centrale e Meridionale; dalla Gran Bretagna e dall’Irlanda all’Africa e all’Australia; dall’Africa alle Americhe durante il periodo della schiavitù; dall’India all’Asia sudorientale, all’Africa orientale e ai Caraibi; grandi migrazioni interne in Russia e negli Stati Uniti d’America, entrambe verso ovest. Ognuna di queste migrazioni meriterebbe, per qualità e quantità, una trattazione singola e dettagliata, ma mi limiterò ad analizzare l’ondata migratoria europea verso il Nuovo Mondo ‒ Argentina in particolare ‒, in quanto essa costituisce una delle maggiori migrazioni degli ultimi secoli.

Prima del 1830, il numero di europei insediatisi oltreoceano sfiora i 2,5 milioni che aumenterà a 75 milioni di persone tra il 1835 e il 1935 (De Blij -Murphy 92). Restringendo il campo d’indagine alla popolazione italiana emigrante, i numeri cambiano ancora una volta. Innanzitutto è necessaria una precisazione: solo dal 1876 inizia la rilevazione statistica ufficiale, grazie all’intervento decisivo dell’economista Luigi Bodio (1840-1920), durante il Congresso di Statistica di Firenze del 1867. Prima di allora le fonti ufficiali riguardano circolari di polizia, decreti del Ministero dell’Interno, statistiche approssimative basate sui passaporti rilasciati, informazioni tratte da imprecise raccolte fondate sulla presunzione del proposito di emigrare. Sono tutte testimonianze che poco dicono sugli emigrati, ma che lasciano intendere molto su come si voleva che il fenomeno migratorio fosse conosciuto (Sori 78).

Quattro sono le fasi principali dell’emigrazione italiana dai primi decenni post-unitari in poi: la prima va dal 1876 circa al 1900; la seconda si spinge fino alla prima guerra mondiale; la terza abbraccia il periodo del fascismo; la quarta infine si estende dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. Tra il 1861 e 1940 il numero complessivo degli espatri è di 20 milioni circa in un’Italia che, nel 1901, conta 33 milioni di abitanti. Tali fasi sono relative a momenti diversi della storia mondiale, segnati dalla messa a coltura delle nuove terre, dallo sviluppo impetuoso dei nuovi continenti e dai problemi delle nascenti società altamente urbanizzate di tipo post-industriale. In seguito alla crisi economica mondiale del 2007, assistiamo a una “nuova emigrazione” o “fuga di cervelli”: sono giovani laureati che non riescono a trovare un lavoro conforme alle loro competenze e preferiscono inseguire occasioni migliori all’estero. Va da sé che i numeri sono limitati e non raggiungono certamente i livelli del passato.

In ogni caso, il fenomeno migratorio italiano manifesta caratteristiche di massa solo dopo l’Unità d’Italia (1861), con la crisi della campagna, determinata da una serie di fattori esterni ‒ quali il diffondersi dell’agricoltura delle pianure americane ‒ ed interni. Quest’ultimi sono legati ai modi e alle condizioni di politica internazionale che hanno condotto all’unificazione del paese, con il conseguente disagio delle campagne. Proprio i territori agricoli, parzialmente interessati dal miglioramento culturale, subiscono un’inesorabile pressione tributaria che colpisce particolarmente le classi meno abbienti. A ciò si aggiungono gli errori di politica economica ‒ liberismo esasperato nel primo quindicennio unitario ed esorbitante indebitamento per la costruzione delle ferrovie ‒ per cui l’espatrio diviene inevitabile. Unanime è, pertanto, il riconoscimento della natura economica e socio-demografica che stanno alla base della massiccia emigrazione del primo periodo, ponendo l’accento specialmente sulle trasformazioni subite dai rapporti tra popolazione e risorse economiche. In sintesi, accanto alla catastrofica crisi agraria, figurano la pressione demografica, il declino della piccola proprietà terriera e dell’azienda montana, dei mestieri artigianali e della manifattura rurale (Sori 115), la sottovalutazione delle forze lavorative e la bassa retribuzione del lavoro, specialmente agricolo, legata alla spirale negativa del mercato capitalistico.

Le statistiche compilate in relazione al rilascio del numero di passaporti o degli imbarchi dai soli porti nazionali, quindi non comprensive del fenomeno dell’emigrazione clandestina, fanno emergere le differenze tra Nord e Sud del territorio. Basti pensare che nel 1871, a dieci anni dall’Unità, gli emigrati nell’Italia del Nord ‒ Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto ‒ costituiscono il 75,45% della popolazione, mentre nell’Italia centrale il 96% e solo il 13,46% nell’Italia meridionale, isole comprese. Quest’ultimo dato è destinato a mutare rapidamente: negli anni tra il 1887 e il 1900, il Mezzogiorno ‒ con Calabria e Basilicata, in primis, il cui modello di sviluppo si basa proprio sull’emigrazione ‒ sorpasserà notevolmente il Nord, fino a raggiungere tra 1901 e 1909 un rapporto di quasi 4 a 1 (Avagliano 8-10). Un caso particolare lo offre il Veneto, regione di costante emigrazione massiccia, che deterrà il primato italiano con l’apice del 12%. Trattando gli espatri come un tutto unico, le regioni settentrionali più sviluppate ‒ Lombardia, Liguria e Piemonte ‒, tra il 1876 e il 1880, forniscono il maggior contingente di emigrazione, crescente fino al 1913 (Sori 24). Una lieve battuta di arresto si avrà solo tra il 1891 e il 1900, imputabile in buona parte alle perturbazioni dei principali mercati del lavoro europei.

Per quanto riguarda le quote medie nazionali, esse nascono da una marcata specializzazione regionale dei flussi emigratori per paese di destinazione. L’Italia settentrionale dimostra un’elevata e spesso crescente preferenza per l’emigrazione europea, mentre il Sud, per quella transoceanica ‒ tra il 1861 e il 1915 emigra praticamente il 90% della popolazione ‒ e l’Italia centrale si mantiene in una posizione intermedia, indifferente verso i due mercati principali del lavoro.

Ad emigrare, tra il 1880 e il 1930, sono soprattutto maschi, «operai, artigiani, professionisti, contadini. Furono questi ultimi a ingrossarne a dismisura le file» (De Clementi, 187). La sola provincia di Pordenone conta nel 1909 su di un totale annuo di 27.632 emigranti, 2.640 unità femminili; ciò significa che le donne costituiscono il 9% del flusso complessivo (Franzina 1995b). Iniziata timidamente in seguito ai ricongiungimenti familiari, l’emigrazione femminile aumenta progressivamente d’intensità tra l’inizio del secolo XX e lo scoppio della prima guerra mondiale fino agli anni settanta del XX secolo. In questo periodo, in Argentina, ad esempio, si focalizza l’attenzione su una particolare forma d’emigrazione femminile, quella di artiste anche di chiara fama, costrette a intraprendere, già in età avanzata, estenuanti tournée in America Latina per fronteggiare gravi difficoltà economiche. Lo testimonia Giacinta Pezzana che, dopo avere celebrato le nozze d’oro col teatro a Buenos Aires nel 1910, apre a Montevideo un’accademia imparando a recitare in spagnolo. Grazie alle sue lettere – raccolte con grande perizia da Laura Mariani – viene ricostruita la sofferta relazione dell’artista con il Río de la Plata e con il proprio Paese e, al contempo, si demoliscono gli stereotipi «del cliché dell’emigrante rozzo e analfabeta che la fortunata macchietta di Cocoliche  aveva contribuito a fissare nell’immaginario comune» (Bajini 147).

Pertanto, il fenomeno migratorio, con le sue molteplici declinazioni – viaggio, iniziazione, esilio, politica – si è rivelato una tematica fertile per diversi settori di studio, ad iniziare da quello storico-economico sino a giungere ad analisi di carattere linguistico e letterario, oggetto del presente studio.

Il Cilm, Centro Internazionale Letterature Migranti, e la rivista Oltreoceano

I termini emigrazione e immigrazione, pur essendo considerati contratti in un unico seme «(e)immigrazione, dove le tensioni identitarie sono indicate nella grafia stessa» (Bravo Herrera 25), rappresentano aspetti del medesimo fenomeno, capace di sconvolgere l’ordine sociale sia del Paese di partenza che di quello di arrivo. Tuttavia, se si annullano i due prefissi, ciò che persiste in un’espansione metafisica, è l’idea stessa di movimento, allargando ulteriormente il discorso a concetti di natura ontologica, come l’erranza dell’essere umano che, dopo la sua cacciato dall’Eden, va alla ricerca di un altro “paradiso” sulla terra. Costantemente rinnovata dalla memoria di chi la fissa indelebile sulla pagina bianca, l’esperienza migratoria testimonia un sistema di vita che si dispiega in continue trasformazioni, delineando una morfologia letteraria e strutturando percorsi di esistenza individuali e collettivi, attraverso lettere, poesie, diari, racconti, romanzi, memorie, testimonianze.

Negli anni novanta del XX secolo, la critica italiana[i] ha iniziato a individuare nei testi migratori riguardanti le Americhe, composti in lingua straniera, una progressiva imposizione di alcuni modelli tematici ‒ formali e contenutistici ‒ che sono divenuti oggetto di indagine esegetica da parte di alcuni studiosi, inseriti in ambito accademico. Risultati importanti si ottengono presso le università di: Cassino (Magnani), Milano (Bajini, Liano, Perassi, Scarabelli), Roma 3 (Blengino, Cattarulla), Salerno (Grillo), Venezia Ca’ Foscari (Cannavacciuolo, Ciani Forza, Regazzoni) e Udine (Centro Internazionale Letterature Migranti – CILM, http://www.uniud.it/it/ricerca/progetti/cilm).

Desidero soffermarmi, in particolare sugli studi condotti dal CILM, da me co-fondato nel 2008 ‒ insieme a Anna Pia De Luca (letteratura canadese), Alessandra Ferraro (letterature francese e  francofone), Antonella Riem (letteratura inglese e australiana) ‒ e di cui tuttora sono presidente. Suo organo di diffusione è la rivista di fascia A, Oltreoceano, fondata da chi scrive nel 2007, ampiamente nota ed apprezzata in ambito accademico ‒ come è possibile riscontrare dalle numerose citazioni e recensioni, dalla presenza nelle principali biblioteche e banche dati internazionali, dal premio “La letteratura delle radici” assegnatole dall’Associazione Italian in Italy ETS nel 2023 (www.italianinitaly.net).

Sue aree di interesse sono le Americhe ‒ nord, centro e sud‒, Australia, ma anche altri territori situati oltreoceano, dove intere popolazioni di stranieri si sono insediate alla ricerca della felicità e della soddisfazione economica dando vita a comunità “migranti” che si esprimono in italiano, francese, veneto, friulano, inglese, portoghese e spagnolo. Ugualmente interessanti sono le indagini, riguardanti gli emigrati di ritorno in terra europea: non si tratta di un episodio occasionale di ricerca delle proprie radici, ma di un nuovo flusso migratorio dovuto, come nel caso dell’Argentina alla drammatica situazione politica ed economica.

Attraverso collaborazioni internazionali, si è costituita e rafforzata nel tempo una fitta rete di relazioni dinamiche per lo svolgimento delle indagini che hanno delineato percorsi interpretativi interessanti contribuendo a rendere Oltreoceano all’avanguardia dal punto di vista della ricerca teorica ed epistemologica. Stilisticamente e tipologicamente diversi, poco conosciuti e marginali, tali testi ‒ realizzati da autori che narrano nella lingua di accoglienza, in un’adesione totale al contesto in cui sono approdati i nonni o i padri, o loro stessi ‒, offrono una visione ampia del fenomeno letterario. Essi approfondiscono le molteplici sfumature del problema con lo scopo di dimostrare l’importanza del discorso migratorio, incentrato su esistenze avventurose e sulla riflessione di una situazione sociale in movimento.

Il richiamo dell’Argentina

Una considerazione particolare per la sua esemplarità ‒ rilevabile nella continuità del processo emigratorio e nell’ampiezza del fenomeno che coinvolge, come mai accaduto in nessun altro paese, l’intero arco regionale ‒ riguarda l’Argentina, scelta come seconda patria già nel 1853, quando si verifica un primo timido esodo in risposta all’appello lanciato nel Preambolo della Costituzione Nazionale della Repubblica Argentina: la nuova nazione dichiara la propria disponibilità ad aprire i confini “per tutti gli uomini del mondo che vogliono abitare il suolo argentino”. Nel 1861 si registrano già 18.000 italiani che nel giro di pochi anni (1895) raggiungono le oltre 492.000 unità, ovvero 12,5% della popolazione totale (massimo livello raggiunto) e il 49% degli stranieri (Bernasconi – Santillo). È il coronamento del sogno di intellettuali impegnati politicamente, come Domingo Faustino Sarmiento e Juan Bautista Alberdi, entrambi consapevoli della necessità di convertire una struttura diacronica, fortemente condizionata da antiche memorie feudali, in dinamica per avviare l’atteso sviluppo economico, soffocato da estenuanti lotte interne. Pertanto, risulta prioritario recuperare la mano d’opera necessaria per coltivare una terra ricca di risorse naturali, ma priva della forza lavoro.

I flussi s’intensificano dopo la Prima Guerra mondiale, a causa delle forti restrizioni all’immigrazione operate dagli Stati Uniti e dal Brasile: a coloro che partono in cerca di fortuna, si aggiungono gli esiliati politici e, in seguito alle leggi razziali del 1938, gli ebrei per fuggire dalla crescente influenza del nazionalsocialismo. Tra il 1947 e il 1951 l’emigrazione italiana in Argentina coinvolge circa 330.000 persone; tuttavia, con la crisi economica del 1952, il fenomeno subisce una netta flessione sino ad invertire di rotta negli anni sessanta, quando iniziano i rientri in Italia. Attualmente gli argentini di origine italiana sono circa il 40% dell’intera popolazione (Bernasconi – Santillo).

Una sorta di canto delle sirene alimenta, sin dall’inizio,  i desideri e i sogni della maggioranza dei contadini veneti, la cui più grande aspirazione è acquisire la proprietà della terra e la possibilità di un lavoro migliore, sopraffatti come sono dall’arretratezza delle tecniche di coltivazione, dai rapporti immobiliari sbilanciati sempre a favore degli altri, dall’insostenibile tassa sul sale e sulla macinazione, dall’alimentazione del tutto insufficiente e dalle malattie da queste derivate – la pellagra tra le più pericolose –. Il quadro è desolante per cui inevitabile è allontanarsi al più presto possibile, finché le forze sono ancora in grado di sostenere organismi già minati nel fisico e nella psiche. Essi affrontano, pertanto, difficoltà paragonabili a quelle dei primi conquistadores, con la medesima determinazione e con lo spirito dettato dalla disperazione, per appropriarsi di un luogo dove creare il proprio futuro.

Alla conquista della terra

Una volta sbarcati a Buenos Aires e dopo una sosta di venti giorni nelle famose “case dell’emigrazione”, i nostri connazionali vengono smistati secondo due direttrici principali: l’una risale il fiume Paraná, sino all’altezza di Santa Fe e poi prosegue via terra ‒ in treno ‒ per Córdoba, Jesús María e Colonya Caroja; il secondo percorso, continuando a risalire il corso del fiume Paraná, si spinge fino a Reconquista e a Resistencia (G. e A. Di Caporiacco). Sono, soprattutto, coloni, affittuari, operai, artigiani, veneti e friulani, profondamente legati alle proprie origini linguistiche e culturali, i quali portano con sé tesori della civiltà contadina conservati a distanza di tanto tempo, a tal punto da affermare che esistono un altro Veneto e un altro Friuli, al di là dell’oceano[ii].

Ben presto al sogno subentra l’incubo e nel locus orridus le speranze si scontrano con la dura realtà, diversa da quanto immaginato. Tra il 1876 e il 1914, più di due milioni di braccianti e contadini italiani, sono vittime di soprusi e di ingiustizie. La promessa di ottenere terre vergini fertili e capaci di garantire prosperità si rivela solo una chimera. Le enormi distese della pampa, disponibili dopo la violenta espulsione delle popolazioni indigene, vengono distribuite tra gli ufficiali dell’esercito o vendute a proprietari terrieri senza scrupoli o a società per azioni. Gli immigrati continuano ad essere semplici lavoratori poco retribuiti, o mezzadri, affittuari e lavoratori a giornata[iii].

Esplicite, tra le tante testimonianze pubblicate nel tempo[iv], sono le molteplici lettere scritte nel corso degli anni ‒ raccolte da Emilio Franzina nel volume Mèrica! Mèrica! –  con il loro carico di amarezza, di disappunto e di illusione. Sono indirizzate ad amici e a parenti, quasi implorandoli di restare in patria, per non essere traditi da false circolari, da leggi ambigue e non corrispondenti alla realtà dei fatti, da truffe di agenti senza scrupoli, dalla mancanza di lavoro.

In un italiano sovente sgrammaticato, vengono via via enumerate una serie di disagi che rendono aspro l’esodo, sin dalla fase iniziale del viaggio in mare. Si narra, ad esempio, del rapporto devastante sulle drammatiche disgrazie subìte a causa degli agenti d’emigrazione, o delle autorità portuali e dei consoli italiani. Segue la descrizione dettagliata delle condizioni disumane in cui vivono durante il trasferimento, maledicendo sé stessi per aver scelto l’espatrio. Le seguenti parole non lasciano dubbi «Maledetta quella volta che mi decisi alla partenza che mi sono meso nelle mani di questi mercanti di carne umana. Ma l’emigrazione continua e progredisce li compatisco sono amanti di novità vanno in cerca della schiavitù del dolore incontro alla morte» (18 novembre 1877, p. 109).

Luigi Basso, da Santa Fe, conferma il suo stato di totale disillusione e dirige all’amico Antonio Giusti una raccomandazione afflitta: «non sta lusingare nessuno che vengano su queste terre se volino venire che vengono pure ma si trovano pentiti, io scrivo quello che vedo colli occhi miei che gridano della miseria come me e che si patisse la fame» (28 luglio 1878, p. 84). Ed ancora, Giovanni Biagio esorta con l’animo affranto a: «spargere la voce di questa mia lettera che quelli che anno quel pensiero della merica sono tutti fulmini e castighi di Dio per miseri che siano perché non vi è che tradimento da per tutto» (16 novembre 1877, p. 88). Si potrebbe continuare all’infinito, dato il dolore profondo, le ardenti delusioni vissute da tutti coloro che hanno sofferto la devastante esperienza migratoria. Martina Gusberti fa rivivere il ricordo anche in epoca contemporanea, quando nel romanzo El laúd y la guerra (1996), descrive dettagliatamente uno di quegli inganni perpetrati sulla popolazione di Resistencia.

Le prove che devono superare sono dure e non tutti riescono a sopportare il peso della disperazione: alcuni si arrendono e continuano a sopravvivere in uno stato di miseria e di alienazione nella terra dell’illusione; altri ripercorrono le stesse orme, attraversando l’oceano per l’ultima volta; altri, i più fortunati, ma soprattutto i più forti psicologicamente, sfidano la fortuna. Questi, lavorando duramente, trasformano le aride zone rurali nella regione agricola più produttiva, chiamata pampa gringa e contribuiscono a costruire la nuova Argentina, determinando fatti e sentimenti in una continua evoluzione in cui tutte le cose nascono, crescono e muoiono.

A questa prima trattazione del fenomeno migratorio seguirà, prossimamente, un secondo articolo, “La città e l’emigrante italiano”, nel quale il tema sarà focalizzato dall’autrice anche ricorrendo ad alcuni esempi letterari.

Note

[i] Per quanto riguarda le opere scritte in italiano, si rimanda alla banca dati degli scrittori (Basili), fondata da Armando Gnisi, già docente dell’università La Sapienza di Roma.

[ii] Esempi significativi sono Colonia Caroja (1878) ‒ inizialmente denominata Colonia San Martín (Nuñez) ‒ sortain Argentina nella provincia di Córdoba, e Chipilo in Messico dove nel 1875, con la promulgazione della prima legge di colonizzazione, giunge un gran numero di italiani. Essi provengono dal Piemonte, Trentino, Lombardia e, soprattutto, dal Veneto per meglio specificare da Segusino, un piccolo paese sulla sinistra del Piave, in provincia di Treviso, appartenente da un punto di vista dialettale all’area basso-bellunese. Inizialmente denominata colonia “Fernández Leal”, viene fondata il 2 ottobre 1882 da 38 famiglie per un totale di 424 persone, collocate in un unico caseggiato: in attesa della costruzione di case e strade, i nuovi abitanti danno avvio alle semine (Zilli Manica). Il numero è destinato ad aumentare dopo la Prima Guerra mondiale con nuovi arrivi di numerosi sfollati, protagonisti delle peggiori violenze, provenienti da paesini alpini, e in particolare da Segusino, invaso dai soldati tedeschi il 10 novembre 1917 e liberato il 30 ottobre 1918. Non a caso Lucio Puttin sostiene che il calvario subito da Segusino: «può senz’altro costituire il simbolo di una tragedia più vasta dilatatasi spaventosamente lungo la Valle del Piave, tra il Bellunese, il Trevigiano ed il Friuli» (21). Nel 1902 il nome della località muta in “Popolo di Francisco Javier Miná”, quando già si volevano smantellare le colonie legate all’immigrazione. I paesani sono finalmente liberi dai vincoli con il governo creati dai contratti d’immigrazione e entrano a far parte del moderno stato messicano. Dopo il periodo difficile della rivoluzione, alla quale gli abitanti di Chipilo si sono sentiti per lo più estranei, la colonia si consolida e si afferma con un ulteriore sviluppo sociale ed economico, aprendosi all’industrializzazione e alle nuove professionalità, anche alla formazione scolastica e universitaria. Oltre all’agricoltura, considerata attività produttiva fondamentale della comunità, si è incrementata soprattutto l’industria del mobile (Cf.  Zago Bronca, Secco, Sartor e Ursini, Donat).

[iii] Per ulteriori notizie sul tema cf. Bernardi, Blengino, Incisa di Camerana, Devoto.

[iv] Si ricordano tra gli altri: G. Di Caporiacco, Cattarulla.

Bibliografia citata

Avagliano, L. (1976): L’emigrazione italiana. Napoli: Ferraro.

Bajini, I. (2012): Artiste con la valigia. Giacinta Pezzana tra Buenos Aires e Montevideo (1909-1914). Oltreoceano, 6, pp.145-152.

Bernardi, U. (2002): Addio patria. Emigranti dal Nord-Est. Pordenone: Biblioteca dell’Immagine.

Bernasconi, A.; Santillo, M. (2008): “America Latina-Italia: flussi migratori”. In Caritas / Migrantes (Ed.), Immigrazione. Dossier Statistico 2008. XIII Rapporto (pp. 48-59). Roma: Idos.

Bevilacqua, P.; De Clementi A.; Franzina, E. (2009): Storia dell’emigrazione italiana. Roma: Donzelli.

Blengino, V. (1987): Oltre l’oceano. Gli immigrati italiani in Argentina (1837- 1930). Roma: Edizioni Associate.

Bravo Herrera, F. E. (2020). Tracce e itinerari di un’utopia. L’emigrazione italiana in Argentina. Prefazione di R. Luperini e A. Melis. Trad. di S. Costanzo. Isernia: Cosmo Iannone.

Cattarulla, C. (2003): Di proprio pugno.  Autobiografie di emigranti italiani in Argentina e in Brasile. Reggio Emilia: Diabasis.

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Devoto, F.  (2003): Historia de la inmigración en la Argentina. Buenos Aires: Sudamericana.

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Zilli Manica, J. B. (2002): Italianos en México. Xalapa: Concilio.

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