La mia vita, la mia Ucraina: un racconto-testimonianza
In questo momento, nel quale l’attualità ha portato all’attenzione internazionale la triste situazione del popolo ucraino, ospitiamo più che volentieri il racconto di una donna che ha costruito la sua vita nel nostro Veneto, ma che conserva un forte legame con la sua terra d’origine. Ne emerge il coraggio e la fierezza di un popolo che più volte, nella sua storia recente, e particolarmente dal 2014 ha dovuto subire le aggressioni compiute dal proprio vicino, lottando per la propria indipendenza e libertà.
La mia casa è in Italia, in Veneto. Lo amo tanto, qui sono la mia famiglia e la mia vita. In qualsiasi posto in cui mi trovo, però, un lato del mio cuore guarda verso l’Ucraina. In Ucraina sono le mie radici, i miei parenti, gli anni della mia infanzia, adolescenza, insomma trent’anni della mia vita.
Sono nata in un paesino piccolo, con 500 abitanti. La casa si trovava di fronte alla scuola con un giardino enorme, dove passavo le mie giornate.
Uscivo dopo aver fatto colazione, correndo andavo con amici nel bosco, anche se era distante, mangiavamo ciliegie, frutti selvatici e tornavo a casa prima che la nonna mi chiamasse per il pranzo.
Mamma lavorava in ufficio postale, come responsabile. Papà insegnava in un istituto professionale.
Quando ho compiuto sei anni, mio padre ha trovato lavoro come autista di autobus in una piccola città, dove abitavano i nonni materni. Io, con la mamma e le due sorelle gemelle Elena e Lilia, siamo rimasti al villaggio ancora per un anno. La mamma aspettava dal direttore dell’ufficio postale la chiamata per trasferirsi in città. Io mi sentivo una farfalla libera di volare dove volevo, nel mio paesino, e cominciavo ad essere triste per il trasferimento in città. Non sapevo cosa mi aspettava. Amici nuovi, la casa dove abitavano gli zii con le famiglie e dovevo iniziare la prima elementare. Avevamo la stanza per me e le mie sorelle, dove prima stavano i nonni che sono tornati a vivere nella casa dov’è cresciuta la mia mamma, in un villaggio con il bosco e un lago molto bello. Anche una chiesa di legno bellissima, alla quale hanno dato fuoco sovietici ateisti, senza dare la possibilità di salvare alcune bellissime icone. Insomma, ho iniziata la mia vita nella città di Volochisk, con la sua storia molto antica. Ve la dico in breve, cominciando dal sedicesimo secolo.
Dall’anno 1545 la città aveva nome Volochisk. Nell’anno 1793 era stata stabilita una dogana tra Russia e Austria, da allora fino al 1939. Negli anni 1930-1931, centinaia di bravi agrari contadini sono stati imprigionati nei gulag e le loro famiglie deportate in Siberia.
Dal 1941 al 1944 Volochisk è stata sotto l’occupazione dei fascisti, che hanno ucciso 8634 ebrei. La città aveva meno di 20mila abitanti. Prima dell’invasione russa c’erano tante fabbriche metalmeccaniche, di mattoni, lattiere, di zucchero, ricambi per aerei, centrali elettriche per il Polo Nord e numerose altre attività.
A me piaceva studiare e dovevo prendere voti buoni, non volevo saltare la scuola quando avevo la febbre, perché non dovevo perdere le lezioni e rimanere indietro.
Dopo la scuola correvo all’istituto d’arte, a suonare la bandura (uno strumento tradizionale ucraino) che deriva da un antico strumento greco, la kobza, di cui si ha testimonianza già nel VI secolo. La bandura prende forma e si diffonde tra il XIV e il XV secolo. Era un tale simbolo ucraino, suonato da musicisti ambulanti, spesso ciechi, che negli anni Trenta Stalin ordinò l’eliminazione di un gran numero di loro.
Dopo aver terminato la scuola, seguendo i consigli della mia maestra cambiai strumento e, superando gli esami, sono stata assunta nel collegio musicale (con lo strumento balalaica) nella città centrale della mia regione, Chmel’nyc’kyj.
I miei genitori mi continuavano a dire che nessuno viveva facendo il musicista, che non avevo una bella voce e un gran talento, che dovevo diventare operaia o dipendente e aiutare loro e i nonni con gli animali domestici e lavorando la terra, coltivando gli ortaggi. Io sognavo un’altra vita. Gli studi al college erano faticosi. La giornata cominciava alle 5,40 quando passava il primo tram, alle 6 di mattina ero con lo strumento in aula a prepararmi per la lezione. Uscivo alle 10 di sera, quando si chiudeva la porta. Nonostante tutto, studiare era molto interessante. Tanti amici, concorsi internazionali, teatro, concerti, feste, gite.
Il mio professore era una persona vera, con tanto talento, e un grande psicologo. Mi ha fatto conoscere grandi musicisti a Kiev, mi ha portato a Odessa ad ascoltare famosi vocalisti e io, per ringraziarlo, ho cercato sempre di studiare il meglio possibile. Sono riuscita a finire il college con voti alti e ottenere il diploma rosso che dava uno stipendio agli studenti bravi, così potevo comprare i dischi in vinile con la musica che mi piaceva, i libri e portare delizie e dolcetti alle mie sorelle, quando tornavo a casa in qualche weekend libero.
Il mio professore diceva sempre che gli studi erano difficili, ma così avrei avuto un buon lavoro.
L’inizio è stato bello, sono tornata nella mia città a lavorare nella nuova scuola d’arte appena aperta. Si trovava nel parco delle Pinete. Sono riuscita a formare una classe di bambini, ho creato una piccola orchestra e tutto è andato bene per un paio d’anni.
Poi mi sono sposata, è nata Alexandra e sono cominciati gli anni Novanta, pesanti.
Il Paese non aveva più soldi, i negozi erano mezzo vuoti. Per comprare dei vestiti per la bambina dovevo mettermi in coda di notte davanti al negozio. I risparmi di tutti i cittadini erano persi nelle banche, lo stipendio veniva pagato con i coupon e con quelli non si sapeva cosa prendere: prendevamo servizi per il tè, piatti, un robot per la cucina, insomma quello che c’era, per non sprecare i coupon. Più tardi, anche quando sono tornati a circolare i soldi, il mio stipendio veniva pagato in due, tre parti e sempre in ritardo. Le aziende dove lavoravano mio padre e mio marito erano chiuse.
Io di mattina andavo a vendere in un chiosco e il pomeriggio insegnavo. Avendo due bambine, ci siamo salvati lavorando tanto nell’orto: avevamo le nostre verdure, una mucca, animali domestici. E quello ci dava da mangiare. Le sorelle sono diventate brave sarte, quindi siamo riusciti ad avere tutto il necessario. Mancavano solo i soldi, non riuscivamo a pagare neanche le medicine per le bambine quando si ammalavano. Ho deciso di andare all’estero per un po’, solo per costruire una casa per la mia famiglia, perché nella casa dei genitori eravamo in troppi.
Sono arrivata a Napoli da una mia amica, che lavorava lì da tanti anni, e poi sono andata in piazza Garibaldi, dove si poteva ottenere un lavoro. Ho ottenuto un lavoro da cameriera ai piani, in un albergo di Castellammare di Stabia. A Castellammare ho trovato un panorama bellissimo, con il Vesuvio davanti. Sono rimasta stupita da questa bellezza, così diversa dai paesaggi e posti belli che ero abituata a vedere in Ucraina. In albergo ho incontrato quattro mie compaesane. Una di loro, Alexandra, era una signora anziana che faceva la cameriera ai piani ed era addetta alla lavanderia. Io dovevo sostituire proprio lei. Alexandra mi ha raccontano in breve la storia della sua vita. Lei era dell’ovest dell’Ucraina, ma era vissuta in Cecenia, perché aveva sposato un uomo ceceno e aveva due figli. Lavorava come preside della scuola e insegnava matematica. Nel 1994 i Russi sono entrati in Cecenia portando la guerra, perché non volevano che il paese diventasse indipendente e pensavano in due giorni di arrivare fino a Groznyj, la capitale.
Lo scenario era ben conosciuto, però a Kiev pensavano di essere lì in tre giorni. Il marito di Alexandra era morto, suo figlio lavorava come medico e rientrando dopo il turno di lavoro, ad un incrocio di villaggio, è stato picchiato a morte dai soldati russi. Anche questi ucraini hanno passato più di due anni in quella guerra, anzi dieci anni.
Dopo la morte di suo figlio, Alexandra ha abbandonato la Cecenia ed è venuta in Italia, dove ha trovato la sorella che, dopo Castellammare, era andata a lavorare a Pompei. Sua sorella aveva trovato impiego come badante, così hanno pensato di lavorare una vicina all’altra.
Io non capivo come i russi avevano potuto uccidere un medico civile, il figlio di Alexandra, se sono andati in Cecenia per liberare il popolo dai terroristi. Alexandra mi ha risposto che io non so niente di quel popolo e della “pace” che porta. Adesso lo so e capisco tutto.
In questi anni di guerra, mi sveglio e vado a dormire guardando le notizie su Telegram. Ho tanti parenti in varie città. Tanti amici che sono in prima fila a combattere. Vogliamo solo una cosa, che l’Ucraina esista come paese, poter vivere la nostra vita. La Russia non ci aveva mai lasciati liberi e indipendenti. Oggi sono venuti ad uccidere.
Sono 802 giorni dall’inizio dell’invasione ucraina da parte dei russi, noi li chiamiamo anche “orchi”.
Oggi il mio popolo celebra la Santa Pasqua. Il primo anno festeggiamo in famiglia con la mamma vicino, però era la prima Pasqua senza papà. La mia casa profumava di focaccia appena sfornata, con lievito madre che per questa occasione ha fatto mia figlia Olga: uova colorate che preparo sempre insieme alla mia nipotina Amélie, con la buccia di cipolla, curcuma, vino rosso, cavolo blu. I disegni li inventa Amèlie. Non so se le mie figlie manterranno le tradizioni ucraine, ma nei ricordi le avranno di sicuro. Abbiamo la tavola bella, come cibo non manca niente, siamo felici di essere tutti insieme, ma dentro c’è una tristezza forte.
La colpa di questa tristezza è la guerra. Nei nostri discorsi torniamo sempre ai pensieri della guerra, scambiando gli auguri con i parenti, amici. Tanti hanno festeggiato fuori dalle proprie case, alcuni sono rimasti senza casa e si sono rifugiati nella mia città natale, perché vengono da Kherson che ogni giorno viene bombardata.
Alcuni miei parenti sono di Odessa e non sappiamo come stanno.
Abbiamo ascoltato l’augurio del nostro presidente Zelensky, aveva parlato della Bibbia e che la vita vincerà sicuramente sulla morte. Oggi siamo uniti in preghiera, siamo diventati tutti vicini l’uno all’altro, i combattenti e quelli che si trovano a mille chilometri di distanza.
Noi crediamo che arrivi la pace nella nostra terra e che Dio torni da noi, sulla nostra terra bruciata e ci regali pace a tutti.
Oggi è il 16 maggio, terzo giovedì del mese. Nell’anno 2006 è stata istituita la festa della camicia ricamata per iniziativa di una studentessa dell’università nazionale della città di Chernivtsi, facoltà di Storia, Scienze politiche e Relazioni internazionali. I compagni di classe e altri studenti sceglievano un giorno e vestivano delle camicie ricamate. Queste camicie erano indossate solo da una dozzina di studenti e insegnanti della facoltà. Ma negli anni successivi la festa è cresciuta e si è diffusa a livello ucraino, la diaspora ucraina di tutto il mondo ha iniziato ad unirsi ad essa, così come i sostenitori dell’Ucraina. Successivamente, è nata la tradizione di tenere dei concorsi, ad esempio “miglior ricamo” o “migliore foto del ricamo”. Data la guerra russo-ucraina in corso dal 2014, la festa è stata un’opportunità per attualizzare l’identità nazionale degli ucraini. Il giorno del Viscivanka serve come occasione per raccontare la storia e le tradizioni dell’abbigliamento ricamato antico e moderno. I ricercatori scrivono che, nell’era paleolitica, il ricamo era già popolare. Gli archeologi hanno trovato camicie di lino decorate con ricami. L’abbigliamento ricamato era, ed è anche oggi, come un amuleto per un ucraino. Una volta si capiva quanto benestante fosse una persona, o quanto invece fosse povera, vedendo proprio il ricamo sulla camicia. Ogni elemento del ricamo aveva un suo significato. Non esisteva una famiglia ucraina che non avesse un abbigliamento ricamato. Oggi sono ritornate le tradizioni mantenute per secoli. Siamo felici per questo.
Ogni volta, tornando dalla vacanza ucraina, porto in regalo per i miei figli e nipoti una camicia ricamata. La indossiamo andando alle feste di compleanno, come abbigliamento festivo. Porto sempre il ricordo delle feste di compleanno, a scuola, mie e dei miei figli, tutti con vestiti ricamati.
Io credo nei giovani studenti che prendono l’iniziativa, protagonisti nella lotta per la libertà e l’indipendenza ucraina. Il 29 gennaio 1918 ebbe luogo la battaglia di Kruty, che per il popolo ucraino divenne simbolo di eroismo e sacrificio di sé e delle giovani generazioni nella lotta per l’indipendenza. Quando gli studenti difesero Kiev dalla Russia sovietica, il colpo principale dei Bolscevichi era atteso da Poltava. La battaglia ha dato il tempo al governo della Repubblica Popolare Ucraina (UNR) di firmare il trattato di Brest con i paesi della Quarta Alleanza (Germania, Austria-Ungheria, Turchia e Bulgaria). Il 9 febbraio la stessa Repubblica Popolare Ucraina fu riconosciuta come stato indipendente e il suo esercito ricevette il sostegno dell’esercito tedesco e austro-ungarico nella lotta contro i bolscevichi.
Nell’ottobre 1990 uno sciopero politico della fame, messo in atto dagli studenti, ha avuto luogo a Kiev: in seguito questa azione è stata chiamata la rivoluzione sul granito. È stata la prima protesta politica non violenta ad avere successo contro il potere comunista dell’Unione Sovietica. Diverse centinaia di studenti vi hanno preso parte, 137 dei quali hanno digiunato da uno a dodici giorni. Tanti rischiavano di essere licenziati dall’università. Le elezioni presidenziali del 2004, a favore del candidato filorusso Viktor Yanucovych, hanno dato inizio alle proteste di massa definite la Rivoluzione Arancione. Le organizzazioni studentesche vi hanno preso parte attiva. Uno studente, Dimitriy Romanyuk, ha lanciato un uovo contro Yanucovych, per dimostrare che i giovani della zona dei Carpazi non volevano lui come presidente.
Il 21 novembre 2013 sono iniziate le proteste nella Piazza d’Indipendenza a Kiev, come reazione alla decisione del Gabinetto dei Ministri dell’Ucraina di sospendere il processo di preparazione alla firma dell’accordo di associazione tra Ucraina e Unione Europea. I manifestanti erano continuamente riuniti in Piazza dell’Indipendenza e il loro numero era via via cresciuto. La notte del 30 novembre erano rimasti circa 400 manifestanti, in maggioranza studenti. La piazza era circondata da circa 2000 combattenti Berkut armati, le unità della polizia. Loro hanno picchiato e hanno fatto male a tanti manifestanti. L’Euromaidan, così è stato chiamato questo movimento di protesta, ha chiesto le dimissioni dell’allora primo minisro Azarov, facendo appello ai paesi occidentali affinché introducessero sanzioni contro Yanucovych e i rappresentanti del suo governo.
Gli studenti ucraini sono sempre senza paura e in tutte queste occasioni hanno iniziato a lottare per i valori, l’idea nazionale e l’indipendenza. Senza temere il pericolo o sentire paura della repressione, della carcerazione e della tortura.