Prende avvio l’anno scolastico: iniziamolo con un pensiero, grato, agli insegnanti
Alcune riflessioni che possono apparire naturali e persino ovvie, ma che andrebbero tenute bene a mente
Ogni nuovo anno scolastico porta in sé attese, aspettative, discussioni, polemiche. Le varie riforme del sistema dell’istruzione, più volte annunciate o adottate nel corso degli ultimi decenni, sono state in genere considerate peggiorative o quantomeno inefficaci rispetto allo scopo, uno scopo – in verità – spesso neppure ben definito. Gli insegnanti risultano malvisti per il presunto privilegio d’una lunga pausa estiva, quando il dato di fatto è che le loro retribuzioni sono (anche a confronto con altre nazioni europee) a malapena dignitose, e hanno perso la propria autorevolezza di fronte a genitori che non esitano a prendere a priori le parti dei figli, anche in presenza di comportamenti scorretti e inescusabili. L’apprendimento scolastico, infine (ma certo non ultimo dei problemi), è costretto a subire la concorrenza di una realtà mediatica fittizia, definita multimediale ma in realtà caotica, una società affollata di mille sirene che suggeriscono guadagni e popolarità a prescindere da ogni percorso di studio e formazione, unitamente alla sovraesposizione ad una miriade di stimoli incoerenti che aumentano a dismisura la confusione rendendo sempre più arduo, ai giovani e giovanissimi, focalizzarsi su obiettivi chiari e non effimeri.
Oggi il mestiere di insegnante, nonostante tutto e contro tutto, si conferma – persino, in realtà, più che mai – quello che è sempre stato: il più importante, delicato, prezioso, insostituibile dei compiti. Delicato, sì, perché se è vero che in qualunque ambito professionale si troverà sempre qualcuno che avrebbe fatto meglio, per sé e per gli altri, a scegliere una diversa strada, tuttavia è soprattutto un docente, laddove inadeguato, a poter sopprimere o rovinare in un allievo un talento, un’attitudine, un’abilità che, ben guidate, possono invece fiorire. Come sostiene una celebre, e sagace, considerazione: se un ragazzo ha cinque in una materia e nove in un’altra non è tanto il caso di impartirgli troppe ripetizioni in ciò per cui è carente, se non il minimo indispensabile, quanto d’incoraggiare e stimolare le inclinazioni e le capacità là dove eccelle.
Non chiamiamola missione, allora, perché c’è chi non approva affatto l’aura di implicito eroismo nascosta in questo termine, ma un po’ di vocazione (o predisposizione) comunque è necessaria: quantomeno perché l’insegnamento non è, e non sarà mai, un lavoro come un altro. Non ho mai fatto parte di tale ambiente, ma ho conosciuto e conosco parecchi docenti, dalle scuole primarie a quelle secondarie (l’ho ben imparato anch’io, che non si chiamano più elementari e medie e licei come ai miei tempi…), e non conto più le volte in cui ho sentito dir loro, al momento della quiescenza, di lasciare volentieri non i ragazzi, non l’insegnamento in sé, bensì tutte le incombenze burocratiche e amministrative che fanno da estenuante contorno e contribuiscono fortemente a trasformare ogni entusiasmo in frustrazione.
Daniel Pennac, scrittore assai noto e docente francese, ha osservato: “Tutto il male che si dice della scuola fa dimenticare il numero di bambini che ha salvato dalle tare, dai pregiudizi, dall’ottusità, dall’ignoranza, dalla stupidità, dalla cupidigia, dall’immobilità o dal fatalismo delle famiglie”. Sarebbe un’ottima cosa ricordarlo sempre perché, anche se Henry Ford diceva (non a torto) che “non si può imparare a scuola ciò che farà il mondo l’anno prossimo”, tuttavia si può ben apprendere come fronteggiarlo, questo mondo, nonostante le storture che abbiamo riassunto all’inizio. “Ai bambini deve essere insegnato come pensare, non cosa pensare”, sosteneva Margaret Mead, ovvero – è la sostanza di un aforisma citatissimo in rete – mostrare dove guardare, ma senza dire cosa vedere. Perché il vero scopo dell’educazione è “trasformare gli specchi in finestre”, ha scritto il giornalista Sydney J. Harris con una bella intuizione poetica.
Alzi allora la mano chi non ha conservato qualche ricordo di un proprio docente, chi può davvero sostenere di non aver appreso almeno qualcosa, tra i banchi, indispensabile poi nel corso della vita e magari tuttora: un monito o un metodo, un criterio o un contegno, un modo d’essere, agire o pensare. L’augurio a tutti coloro che operano nella scuola sia allora quello espresso nelle parole, molto citate, di Henry Brooks Adams, premio Pulitzer nel 1919: “Un insegnante ha effetto sull’eternità, non si può mai dire dove termini la sua influenza”. La quale, certo, può risultare talora anche imperfetta, in caso di incomprensioni e di errori: ma che, ne siamo certi, è in quasi tutti ispirata da un desiderio sincero di bene verso questi ragazzi e ragazze, chiamati a crescere e destreggiarsi in un’epoca colma di opportunità ma, nel contempo, di ostacoli e paure, di contraddizioni e incongruenze che disarmano spesso anche noi adulti, figuriamoci loro.
In definitiva, il minimo che può fare chi non è insegnante, e lo facciamo più che volentieri, è esprimere stima e gratitudine nei confronti di chi ha scelto, come impegno di vita, un compito così nobile e decisivo per il futuro di ciascuno e della società nel suo insieme.