Il “magazzino” di Paolo Lanaro

Una miscellanea con cui il poeta vicentino ripercorrere la propria biografia letteraria

Il vicentino Paolo Lanaro, accademico Olimpico, ha pubblicato Magazzino. Ricordi, note, frammenti, cianfrusaglie (Cierre Edizioni), con la prefazione di Goffredo Fofi, che lo presenta così: “Poeta forte e sensibile, mai superficiale e mai banalmente sentimentale, sempre fondamentalmente ‘morale’, di cui ci sorprendono le sue osservazioni di vita quotidiana, le sue riflessioni immediate e chiare sulla vita quotidiana dei nostri stupidi tempi”. In un mondo di “cretini intelligenti”, secondo la definizione di Leonardo Sciascia, le sue opere si stagliano nette, appaiono “diverse” per le forti radici dell’autore che affondano “nei campi e nei torrenti dell’Altovicentino”.

Egli ha avuto maestri e compagni da cui apprendere (Fernando Bandini e Andrea Zanzotto, in particolare) e con i quali confrontarsi e “cercare”, ed ha avuto anche allievi, nonché lettori abbastanza esigenti che negli anni gli si sono affezionati. Con Zanzotto si è incontrato più volte a Pieve di Soligo: “Era agosto e lui mi accolse in giardino”. Faceva un caldo torrido ma lui sembrava non curarsene. L’incontro fu un’occasione per conversare e affrontare discorsi ora impegnativi, ora leggeri, all’insegna della sincerità, della spontaneità e della semplicità. Ma la sua visione del mondo era connotata da profondo pessimismo riguardo ai nostri tempi di “angosciosa disgregazione”. In un incontro ad Asiago il poeta trevigiano si rifiutò di leggere le sue liriche, rimettendosi totalmente a disposizione del critico che lo presentava e del pubblico che lo accoglieva. Poi quando toccò a lui parlare, “improvvisò un discorso magistrale tra pedagogia, letteratura, cronache e riflessioni morali”. Sublime umiltà dei grandi!

Il libro è ricco di aneddoti, riflessioni, pensieri, considerazioni, osservazioni, sempre avvincenti ed accattivanti. Fra i tanti ne scegliamo uno: “Ero in montagna a Nosellari. Un ragazzo del paese, di nome Ulrico, dopo avermi sentito perorare con passione la causa degli ebrei, cominciò a deridermi e a chiamarmi “ebraicano”. Credo che fosse un ibrido tra un ebreo e un mohicano, una cosa abbastanza rara. Le discussioni si fecero sempre più incandescenti. Soffrivo, perché avvertivo nell’ingiuria un razzismo nauseabondo. La rabbia che provavo era tremenda e ossidava la grandissima luna che sovrastava le due collinette al centro del paese. Ricordo che in quel mese d’agosto giustiziai (in sogno) almeno una decina di volte il fetido rimasuglio nazista”.

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