Erminia Fuà Fusinato: il coraggio colto di una donna veneta del Risorgimento che fu poeta, patriota, pioniera della pedagogia
Figura luminosa e oggi ancora sorprendentemente poco conosciuta, Erminia Fuà Fusinato (1834-1876) fu poetessa, patriota, intellettuale e pioniera della pedagogia italiana. A lei è dedicato a Padova un liceo, e proprio Padova – assieme a Venezia, Castelfranco, Firenze e Roma – scandisce le tappe fondamentali della sua esistenza: una vita intensa, anticonformista, moderna.
Nata a Rovigo nell’ottobre 1834 da una famiglia ebraica, Erminia crebbe a Padova, dove ricevette un’educazione domestica di alto livello. A soli diciotto anni conobbe Arnaldo Fusinato, poeta e patriota più grande di lei di diciassette anni e già vedovo. L’incontro – avvenuto in casa Fuà, durante la lettura dei versi della giovane Erminia – segnò l’inizio di un legame affettivo e intellettuale. Attraverso Arnaldo furono infatti pubblicate le sue prime poesie sulle riviste femminili di Milano. La famiglia, però, ostacolò il matrimonio, soprattutto perché Arnaldo era cattolico e considerato uno “scapestrato”. Erminia scelse di risolvere il conflitto seguendo la propria volontà: nel 1856 si trasferì a Venezia da uno zio, si convertì al cattolicesimo – mantenendo comunque il nome, gesto non comune – e sposò Arnaldo. Una scelta di coraggio e di autonomia, inaudita per una donna dell’Ottocento. Il suo celebre «Sposo chi mi pare, vi piaccia o no» restituisce tutta la determinazione che la contraddistinse.
I Fusinato si stabilirono a Castelfranco Veneto, dove Erminia divenne madre di tre figli e, allo stesso tempo, partecipò attivamente alla rete cospirativa veneta: amministrava risorse, teneva collegamenti tra Torino e i comitati locali e compose poesie patriottiche come Venezia a Milano e Grido di madre dopo la pace di Villafranca. Quando Arnaldo dovette fuggire a Firenze nel 1864, Erminia lo raggiunse con i figli. Nella città toscana continuò a raccogliere fondi per le famiglie degli esuli, collaborò con riviste femminili e curò la prima edizione (1867) delle Confessioni di un ottuagenario dell’amico Ippolito Nievo, pubblicata con un’introduzione anonima firmata “Gli Editori” e accompagnata da una sua lunga lirica in memoria dello scrittore.
Una voce femminile fuori dal coro nelle celebrazioni dantesche del 1865
Nel 1865 Firenze celebrava con solennità il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri. Le istituzioni culturali della città erano in fermento: conferenze, letture pubbliche, accademie, concorsi. In questo clima, la Società Filologica di Firenze decise di invitare anche Erminia Fuà Fusinato, poetessa già molto stimata, chiedendole un componimento in onore del Sommo Poeta. Le aspettative erano chiare: una lirica dedicata a Beatrice, la musa immortale celebrata dalla tradizione letteraria. Erminia, invece, scelse un’altra strada. Con un gesto sorprendente e radicale, la poetessa compose una lirica di 88 versi dedicata non a Beatrice, ma a Gemma Donati, la moglie di Dante, figura quasi invisibile nella storia letteraria, ricordata appena in qualche nota erudita e spesso confinata sullo sfondo. Erminia la porta in primo piano e invita Firenze a ricordare “colei che di Dante fu la sposa”, la donna che – scrive – “gli addolcia gli esigli / Crescendogli d’intorno incliti figli”. E, rivolgendosi direttamente a Firenze, invita la città a non giudicare Gemma per il fatto di non essere stata “seconda musa” del poeta:
Nè t’incresca, se a lui seconda musa
Ella non fu di cantici immortali,
Ma pensa che, rinchiusa
Nei domestici sacri penetrali,
Quanto poteva dar tutto ella ha dato
A quell’unico amato,
E umilmente sommessa
Visse per lui della sua vita istessa.
È un ritratto di dedizione, silenzio e invisibilità, condizione di molte donne del tempo, ma qui elevata a tema poetico e civile. In quei versi, Erminia non solo restituisce dignità a Gemma Donati, ma mette in discussione l’intero sistema simbolico che ha privilegiato l’ideale femminile (Beatrice) a scapito della donna reale. Il gesto di Erminia non si esaurisce, però, solo nella scelta del soggetto. Dopo aver completato la poesia, desidera leggerla pubblicamente durante le celebrazioni ufficiali. Ma la risposta della Società Filologica è immediata e perentoria: solo gli uomini sono autorizzati a leggere dal palco. Erminia rifiuta. Rifiuta il silenzio imposto, rifiuta la marginalità a cui vorrebbero confinarla e decide, quindi, di non presentare l’opera in quella sede, ma, la stessa sera, la leggerà in un salotto letterario, dove la sua voce trovò ascolto e risonanza. Un gesto di disobbedienza civile e culturale che prefigura con sorprendente chiarezza i temi del femminismo del secolo successivo.
Un tracollo finanziario di Arnaldo costrinse Erminia a trasferirsi a Roma e trovare un impiego retribuito. Grazie all’intervento del ministro Cesare Correnti, ottenne incarichi prestigiosi e pionieristici per una donna: ispettrice scolastica per le scuole femminili di Roma, Umbria e Napoli (1871); docente di Lettere alla Scuola Normale di Roma (1871); direttrice dell’Istituto Femminile di Roma e docente di Morale (1873). Accanto all’intensa attività didattica pubblicò Scritti educativi (1873), La strenna della mamma (1873), Versi (1874) e Scritti letterari (1883, postumo).
Morì di tubercolosi nel 1876, a soli 42 anni. Il marito, che la raggiunse a Roma nel 1874, è sepolto con lei al Verano, sotto una statua che la ritrae in cattedra. Il necrologio del 1877 su L’Illustrazione italiana la descriveva come donna stimata e centrale nella vita culturale italiana. Tuttavia, dopo gli anni Trenta, Erminia cadde nell’oblio, complice anche il suo cognome ebraico e le leggi razziali del 1938: la scuola magistrale di Padova a lei intitolata fu rinominata “Amedeo di Savoia”. Perfino la memoria familiare la cancellò. Eppure – sottolinea la studiosa Gabriella Romani – Erminia fu una donna “borghese, liberale, modernissima”, convinta sostenitrice dell’indipendenza economica delle donne e del valore della cultura come bene inalienabile. Il suo motto: “Educatevi per saper educare”, che intendeva come presa di coscienza civica e non solo domestica.
Pedagogia e poesia in Erminia Fuà Fusinato. La voce dell’infanzia
Nel panorama dell’Ottocento italiano, Erminia Fuà Fusinato rappresenta una figura capace di intrecciare dimensioni solo apparentemente distanti: pedagogia e poesia. Le sue liriche dedicate all’infanzia – meno note rispetto a quelle patriottiche – costituiscono un capitolo unico nella letteratura educativa del secolo. Lo mostra con chiarezza Angela Arsena nel saggio Erminia Fuà Fusinato: quando la pedagogia incontra la poesia (2020), dove definisce il suo universo lirico “unico nel suo genere e unico nella stagione storica del tempo”, proprio perché fondato su un “culto dei ricordi dell’infanzia” capace di tradursi in un mondo poetico con chiari obiettivi formativi. Secondo Arsena, Erminia Fuà Fusinato possiede una qualità rara: è “capace di trasformare la pedagogia in occasione di poesia e viceversa”. Nei suoi versi, l’atto educativo non è mai astratto o moralistico, ma passa attraverso l’immagine, il ritmo, il suono, diventando esperienza sensoriale e affettiva. La poesia si fa così “mezzo sonoro e musicale” per esprimere una concezione dell’infanzia limpida e profondamente rispettosa. Sul piano stilistico, le sue liriche sono costruite con una struttura sintattico-fonetica semplice, fluida, immediata, “adatta alla comprensione dei più piccoli” e in grado di offrire un accesso diretto al mondo dell’infanzia. Le immagini sono rapide, chiare, trasparenti: una traduzione poetica pensata per essere sentita prima ancora che compresa.
Titoli come Versi e fiori, Ad un augelletto, La preghiera dei trovatelli, Il fiore del verno, Ad una fanciulletta, Primavera, A mio figlio Gino rivelano già da soli la centralità di una sensibilità delicata, attenta ai gesti, ai simboli, ai piccoli accadimenti che popolano la vita dei bambini. Nelle liriche di Erminia Fuà Fusinato, l’infanzia non è solo un tema poetico: è anche un luogo emotivo. “Occasione di gratitudine e di rifugium dagli affanni”, scrive Arsena, e pochi testi lo mostrano meglio del sonetto Consigli ad un fanciullo (1868), in cui l’autrice invita il bambino a custodire “ogni bellezza d’arte e di natura” come un tesoro interiore capace di consolare nei giorni più difficili. Anche la memoria diventa pedagogia: la memoria delle armonie svanite, dei fiori d’inverno, degli affetti, ma soprattutto “del ben reso agli afflitti e ai poverelli”. Una delle osservazioni più originali di Arsena riguarda il legame profondo, quasi autobiografico, fra la poetessa e l’infanzia. “I suoi ricordi di bambina vengono riletti e rivissuti in chiave poetica”, fino a creare un effetto di sospensione dell’età: come se, spiega la studiosa, Erminia tornasse bambina per rivolgersi non ai bambini reali ma ai suoi coetanei di allora. In questo processo, la poesia si fa: sommessa, come un bisbiglio confidenziale; musicale, con cadenze facili da memorizzare; visiva, fondata su immagini immediate e senza mediazione; affettiva, costruita su tenerezza e autenticità.
Fra le liriche più emblematiche della produzione educativa di Erminia Fuà Fusinato spicca Ai bambini, composta nel 1854 per una fiera di beneficenza a favore degli asili infantili di Padova. È una poesia colma di attenzione sociale, di cura materna, di dolcezza umana. I versi aprono con una dichiarazione limpida: “O bambini, o bambini, io v’amo tanto”. È un amore che nasce dall’ascolto – “il dolce favellar”, le preghiere sussurrate – e che si traduce in empatia profonda: il pianto infantile suscita pietà; il sorriso infantile dissolve ogni malinconia. Ma accanto alla tenerezza emerge anche uno sguardo vigile sulla questione sociale: la poetessa denuncia la miseria che affligge i piccoli, vede ingiustizia nel dolore dei bambini poveri e invoca un mondo che sappia nutrire “questa solitaria lampada” che sono le loro vite fragili.
In un’epoca in cui l’infanzia veniva spesso trattata come oggetto di istruzione moralistica, Erminia le restituì dignità, ascolto e complessità emotiva. La sua poesia seppe essere rifugio, guida e sguardo sociale, dimostrando che educare può essere anche un atto poetico. Il suo insegnamento più attuale è forse questo: l’infanzia è un luogo da cui non si esce mai davvero, e a cui la poesia può farci tornare con dolcezza, verità e responsabilità.
Una statua per Erminia Fuà Fusinato sul Listòn a Padova
Tra il 2022 e il 2024 a Padova è tornato centrale il tema della quasi totale assenza di statue femminili negli spazi simbolici cittadini. Mentre si discuteva sulla collocazione della statua di Elena Cornaro Piscopia, nessuno propose Erminia Fuà Fusinato. Eppure, come donna di cultura, poetessa, patriota e prima ebrea a ricoprire un incarico dirigenziale al Ministero dell’Istruzione, Erminia Fuà Fusinato meriterebbe un posto nel museo diffuso del Risorgimento che è oggi il Listòn, l’area pedonale tra il Municipio, l’Università e il Caffè Pedrocchi. Un suo busto realizzato negli anni Trenta dallo scultore Nino Cloza – mai esposto e oggi dimenticato in un deposito del Comune di Roma – potrebbe essere recuperato e installato finalmente in quella che è stata la sua città, anche considerando che il 2026 segnerà il centocinquantesimo anniversario della morte di Erminia Fuà Fusinato, che è stata patriota, educatrice, poetessa, intellettuale laica e indipendente, donna del suo tempo, eppure sorprendentemente moderna.
(testo elaborato dal project work di laurea di Elisabetta Trevellin, Erminia Fuà Fusinato, donna del Risorgimento italiano, 2025)
Monumento sepolcrale di Erminia Fuà Fusinato al cimitero del Verano, Roma

