Radici nel passato per l’orizzonte presente (e futuro)

Le nuove tecnologie sono destinate a cambiare radicalmente il rapporto dell’uomo con il lavoro: un passaggio che nella storia si è già verificato

In un suo libro del 1992, intitolato La bilancia, il filosofo Emanuele Severino osservava che all’origine di molti problemi era, e avrebbe continuato ad essere, il fatto che un terzo dell’umanità mangiava anche troppo, mentre due terzi non avevano di che sfamarsi. Ed è evidente come ancor oggi gravi sperequazioni economiche e sociali e difficoltà di giustizia distributiva permangano a livello non solo mondiale, ma nazionale: basta considerare il rapporto fra il prezzo delle merci e i salari, o le pensioni, della maggioranza degli italiani, per non dire di quanti non dispongono né di salario né di pensione.

Dunque, anche solo in questo senso, il recupero di un’antica generosa voce come quella del Popolo Veneto del 1922 avrebbe la sua ragion d’essere. Tuttavia, viene fatto anche di chiedersi che posizione prenderebbero oggi, in tempi tanto mutati, gli uomini che cent’anni fa fondarono questo giornale. Siamo sicuri che sia ancora soprattutto una questione di condizioni lavorative e di salario? O che, piuttosto, il nocciolo della questione non si sia spostato altrove?                                         

Non cento ma duecento anni fa, sulla scia della “coscienza infelice” di Hegel,il giovane Marx descriveva in termini drammatici l’alienazione dell’operaio nel rapporto capitalistico di lavoro, dove non solo viene materialmente sfruttato, ma umanamente non può più riconoscersi e diventa altro da sé. Ed è superfluo ricordare i fatti e misfatti, le rivoluzioni, reazioni e trasformazioni che sono seguite. Ora però il termine “alienazione” sta assumendo un significato meno filosofico, più concreto e diretto, per cui quella che era alienazione dell’uomo nel lavoro “non suo” diventa semplicemente alienazione del lavoro, in quanto trasferito dall’uomo alla macchina, ormai capace di portarlo avanti con sempre minor bisogno di lui. Il lavoratore si trova così minacciato di una sostituzione di sé con quello che per millenni è stato un suo mero strumento: di questo dovrebbe ora chiedere conto, assai più che di un salario insoddisfacente o di condizioni lavorative non del tutto sicure… Naturalmente, spero di sbagliarmi; tuttavia, se mi sbaglio, non sono sola. Intanto, voglio ricordare due libri, che a distanza di quasi duecento anni dicono più o meno la stessa cosa.                                                                                                                                                     

Il primo è intitolato Erewhon (anagramma di nowhere, in nessun luogo) e “appartiene a quel genere narrativo in cui una civiltà immaginaria è usata come mezzo per criticare quella del proprio paese”. In questo senso può essere considerato una satira dell’Inghilterra vittoriana, dei cui valori ci offre un’immagine rovesciata. Fra questi il progresso tecnico-scientifico, del quale tratta in alcuni capitoli intitolati, appunto, alle macchine, che a Erewhon sono proibite: o, per essere più precisi, ne è stato proibito e bloccato con pene severissime ogni sviluppo oltre un certo limite di utilità, stabilito una volta per tutte. Questo in base a un rigoroso discorso scientifico di stampo darwiniano che l’autore, Samuel Butler, attraverso sviluppi paradossali porta alla seguente conclusione: le macchine sono preziose ma da un certo punto in poi è meglio farne a meno, perché potrebbero diventare – hanno ottime possibilità di diventare – le nostre padrone.

Infatti, attraverso una lucidissima e articolata analisi evoluzionistica, applicando cioè alle macchine i criteri e le leggi di quella che ai suoi tempi era la Scienza per eccellenza, l’evoluzionismo di Darwin, Butler dimostra come nulla impedisce che col tempo acquistino, dopo la funzionalità, autonomia e coscienza – del resto cos’altro ha fatto l’uomo? – e che a noi tocchi di “vederci sostituire a poco a poco dalle nostre stesse creature, finché, rispetto a loro, non saremo più di quanto le bestie dei campi sono rispetto a noi”.

Sarà questo anche il nostro destino davanti al progredire della I.A., l’Intelligenza Artificiale? Perché noi non avremmo certo il coraggio – forse neppure la possibilità – di fare quello che, per salvare la loro dignità di uomini, fanno gli abitanti di Erewhon: “uccidere la razza delle macchine”. E infatti, a differenza di loro, oggi “si stenta a prendere atto dell’onnipresenza della tecnologia e dei suoi effetti e rischi incalcolabili sulla vita di tutti”. Così un articolo della Domenica del Sole 24ore dell’11 febbraio 2024, dedicato a Techgnosis, il libro di Erik Davis pubblicato alla fine del secolo scorso e recentemente riproposto in una nuova edizione. Si tratta di un’opera molto complessa, non per nulla sottotitolata Mito, magia e misticismo nell’era informatica, dalla quale emerge chiaramente una denuncia delle caotiche e catastrofiche conseguenze, almeno dal punto di vista della nostra umanità, a cui sta portando la realtà virtuale creata dalle macchine. Ad esempio, “il computer è senza dubbio diventato un idolo, e anche piuttosto esigente. Ci offre molto chiedendoci molto, una dedizione pressoché totale e una delega cognitiva che di fatto ci soggioga e impoverisce la vita mentale e sensoriale, creando in noi assuefazioni che vanno molto al di là degli innegabili favori pratici che ci fornisce”.

Ora io non vorrei arrivare a dire che i luddisti (gli operai seguaci di John Ludd che, più di duecento anni fa, in Inghilterra distruggevano selvaggiamente le macchine nel pregiudizio che togliessero loro il lavoro), non vorrei dire che siano stati, nella loro ignoranza, profeti. Però ormai appare nient’affatto fantascientifico che le macchine siano in grado di realizzare molte cose prima e meglio dell’uomo e con un costo molto inferiore; che il lavoratore corra il rischio non solo di essere sfruttato e alienato nel compimento della sua attività, ma anche di esserne escluso; che, di conseguenza, difendere i suoi diritti e interessi diventi un impegno molto più difficile e complicato. Stando così le cose, o almeno nella non improbabile eventualità che stiano così, per ritrovare la voce del Popolo Veneto si tratterebbe non tanto di tornare a quello che i suoi fondatori sostenevano allora, quanto di capire – da quello che dicevano e sostenevano allora – quello che potrebbero dire e sostenere oggi, in una situazione avviata a inediti e radicali sconvolgimenti.

Perché non diventi un processo alle intenzioni, bisognerebbe conoscerli bene. Io posso soltanto fare qualche ipotesi sull’unico del quale so qualcosa: Sebastiano Schiavon.        

Schiavon guardava lontano. Lontano nel futuro, ma anche nel passato, e le due direzioni non erano divergenti, erano piuttosto coordinate fra loro. Mi pare significativo che a vent’anni, l’animo così aperto alle urgenze sociali e politiche del momento storico, così traboccante – come ben presto dimostrerà – di generose pretese morali, abbia voluto laurearsi con una tesi di grammatica la quale, per “popolare” che sia, costituisce pur sempre una regolamentazione logica del linguaggio; e che l’abbia addirittura scritta in latino, la lingua “morta”, eppure ancora comune e che, forse meglio di ogni altra, rispecchia nelle sue strutture l’ordine razionale del pensiero. In seguito, lasciando perdere i socialismi del secolo precedente, realisticamente coordinò la sua attività innovatrice e le rivendicazioni sociali alla tradizione storica della sua gente e, contro le leghe rosse, organizzò con successo le leghe bianche. Allora è forse esagerato o arbitrario attribuirgli l’idea che non ci sia vero rinnovamento senza conservazione, che il futuro non debba tagliare le proprie radici né cancellare il passato, ma ricollegarsi ad esso? Non per salvare capra e cavoli, ma per aver capito che nessun edificio sta in piedi senza fondamenta e che queste vanno trovate sul suo stesso terreno. 

Dopo cent’anni, dall’esempio di Sebastiano Schiavon si potrebbe forse concludere che non conviene restare attaccati ai problemi di ieri per la paura di riconoscere e affrontare quelli di oggi. Volendo davvero cambiare in meglio la società, bisognerà prima di tutto stare attenti a non farla implodere per averne logorato, e infine demolito, le strutture di base. 

Poscritto: quest’ultimo avvertimento presuppone che la sopraffazione delle macchine non sia il solo rischio che si corre, ma… Un problema alla volta, prego.

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