La storica via Garibaldi a Venezia
Un luogo-simbolo, crocevia antico e moderno di esistenze e attività
Un parente, dopo decenni di conduzione di un negozio di calzature fondato da un suo zio nel remoto 1918 a Venezia, decise di cederlo desideroso di godersi la meritata pensione. Dopo averci pensato a lungo, superati timori e perplessità del caso, in pieno accordo con mio marito che operava come geometra presso una cooperativa nel settore restauri edilizi proprio in Venezia, stabilii di rilevarlo io stessa. Da allora per me, e per la mia famiglia, iniziò una seconda vita! Tanta responsabilità, tanti impegni, ma nel contempo tante innumerevoli e inimmaginabili esperienze umane divenute poi un prezioso legame con il passato, una guida per il presente e… molte storie da narrare, ora divertenti, ora toccanti.
Il negozio era situato nella larga e caratteristica via Garibaldi, che tanto piaceva a Napoleone, sulla quale lo stesso nutrì grandi sogni mai realizzati. In origine si chiamava “rio terà” essendo, infatti, un rio interrato che congiunge le due fiancheggianti rive, lungo le quali si snoda una serie di negozi, grandi e piccoli di ogni genere: ristoranti, bar, due antiche farmacie, la chiesa San Francesco da Paola, una rinomata pasticceria toscana e i tipici “bacari” ‒ altrove chiamati osterie ‒ che offrono gli altrettanto tipici e appetitosi “cicheti”. Dopo ulteriori e molteplici denominazioni, prese il nome di “via” ‒ unica eccezione nella toponomastica della città – e, nel 1866, in seguito all’entrata delle truppe garibaldine a Venezia, essa venne dedicata a Garibaldi. Ne è testimonianza il grande monumento che domina la sua estremità, ovvero l’ingresso dei Giardini che conducono al padiglione della Biennale Arte.
Ci troviamo nel pittoresco sestiere di Castello che connota l’anima veneziana più genuina.
Sebbene la fuga ‒ inarrestabile ‒ verso la terraferma fosse al tempo già iniziata, gli abitanti erano,
nella quasi totalità, nativi del posto. Venezia si sa, è una città dove si va a piedi; le persone si incontrano e si rincontrano per strada, la quale si trasforma in un vero punto di ritrovo sociale. Pian piano si arriva a conoscersi tutti come in un paese, e proprio come in un paese ci si sente parte di una comunità. In verità, per qualcuno dei veneziani ‒ compresa anche la schietta e sbrigativa commessa del forno dirimpetto al mio negozio ‒ chiunque venisse dal di là del Ponte della Libertà era un “campagnolo”. Fosse pure originario del centro di Padova, di Verona, di Treviso, di Vicenza o di Rovigo, sempre “campagnolo” era! Chiarito e stabilito questo concetto, nella comunità veniva ben accolto anche il “campagnolo”! E vi trovava solidarietà e calore umano.
Bruno, l’ottico del luogo, era un veneziano puro sangue, saggio, di indole amichevole. Per lui non esisteva la frontiera “Ponte della Libertà”. In virtù della sua pluridecennale attività conosceva a fondo persone, storie e dinamiche del sestiere. E, pian piano, me ne rendeva edotta raccontandomi in maniera asciutta, senza mai giudicare, i fatti più strani e curiosi che succedevano, facendomi conoscere tante persone del posto. Posso dire che la cronaca era davvero ricca e variegata! Fu lui a spiegarmi che la signora sempre in ciabatte e in grembiule che veniva da me ad acquistare le scarpette per i nipotini, e nel suo negozio gli occhiali, era nient’altro che una prestasoldi, per usare un eufemismo. Non a caso veniva chiamata “la cassiera”, il che mi suscitava una certa perplessità fino a quando non ne ho scoperto il vero significato.
Già nei primi tempi del mio arrivo mi presentò la signora Palma. Una donna bella ed elegante, dagli immancabili tacchi alti che le conferivano un portamento signorile. Giammai un capello fuori posto. Insomma una presenza che non passava inosservata. Oggi, con un termine moderno, la si definirebbe “un’icona” di via Garibaldi. Per mio figlio Mauro, lei era l’ultima rappresentante della Bella Époque. E lo diceva con grande simpatia. La sua storia merita di essere conosciuta. Non è la vicenda di una personalità famosa, ma di una eroina di tutti i giorni. Aveva assistito e accudito l’amato sposo ‒ grande amico dell’ottico Bruno ‒ con amore e con abnegazione durante tutta la lunga malattia che lo aveva colpito.
Rimasta vedova a sessant’anni, senza figli e senza alcuna risorsa economica, cominciò ad andare nel piccolo negozio che fu del marito fotografo. Nella bella stagione vendeva rullini fotografici, come allora si usava, ma i soldi non bastavano per sopravvivere, per cui si era procurato un secondo lavoro. Nelle lunghe giornate invernali e nei periodi di pausa estiva tra una vendita e l’altra, incessantemente infilava collane per i più prestigiosi gioiellieri della città, con grande abilità. Il risultato era eccezionale per originalità e per creatività e, di conseguenza, molto apprezzato. Ciò la rendeva giustamente orgogliosa anche perché aveva una grande conoscenza del mondo delle pietre preziose e semipreziose. Distingueva una collana di perle vere da una di perle false sin dal primo sguardo. Amava le perle scaramazze, le riteneva più artistiche per la differente conformazione che la natura conferiva ad esse. Mi ha insegnato tanto riguardo a questo variopinto
mondo minerale.
Una volta allungò le braccia davanti a me e, accennando prima alla mano destra poi alla sinistra, mi disse: «Ti vedi Bambin – mi chiamava così perché lei aveva 32 anni più di me‒ questa co questa xe sta ea me salveza», e continuava «questa co questa xe ea me pension de vechiaia». Lei, che di solito parlava in italiano, queste frasi le scandiva in veneziano, perché è noto, il dialetto ‒ anche se è riduttivo riferirsi al veneziano con tale termine dato che si tratta di una vera e propria lingua come dimostrano i documenti ufficiali ‒ ha sfumature e suoni che esprimono pensieri e concetti in maniera più immediata dell’italiano. Realizzò, appunto, per un famoso gioielliere di Piazza San Marco, una stupenda collana in corallo rosa – un vero capolavoro d’arte – al quale si era dedicata instancabilmente per giorni interi. La collana era dono di compleanno del miliardario saudita Adnan Khashoggi ‒ giunto a Venezia con il lussuoso panfilo Nabila ‒ alla moglie che al tempo era un’italiana: Laura Biancolini. In città, Khashoggi era famoso sia per le sue faraoniche feste in cui le invitate sfoggiavano, oltre ad abiti di firma, i loro preziosi gioielli, sia per le sue spese astronomiche nei negozi più lussuosi. Il suo arrivo era un vero avvenimento mondano.
La signora Palma, aveva preso a benvolermi presto; sapendo che a causa della distanza negozio – abitazione a Mestre, durante la chiusura giornaliera non potevo tornare a casa, si premurò per farmi ottenere le tessere dei circoli ufficiali e sottufficiali della Marina ‒ come già erano state concesse a lei ‒ affinché anch’io potessi frequentarli. Così, nei sonnolenti mesi invernali, spesso andavamo a pranzo insieme; preferibilmente al circolo sottufficiali dove si respirava un’aria più allegra, un pochino meno austera rispetto a quello degli ufficiali. Conosceva tutti, e tutti la conoscevano e simpatizzavano con lei. Era una persona sempre sorridente, infondeva armonia e serenità a chi le stava accanto. Rimase al suo posto in negozio fino al 1989, cioè fino ad ottant’anni! Al tempo era un’età avanzata. Continuò ad infilare collane ancora per un lungo periodo riuscendo ad assicurarsi una più che dignitosa vecchiaia presso la casa di riposo Ca’ di Dio ‒ ora albergo super lusso ‒ nella favolosa Riva degli Schiavoni, dove morì nel 2007, all’età di 98 anni.
Negli anni ottanta il turismo di massa non aveva ancora invaso “la bella e fragile Venezia” ‒ come l’ha definita Papa Francesco nella recente visita pastorale del 28 aprile scorso ‒ ancor meno lo era la caratteristica Via Garibaldi, trovandosi lontana dai consueti itinerari turistici. Vi arrivavano le persone di una certa cultura, coloro che volevano conoscere “L’ALTRA VENEZIA”, o erano desiderosi di visitare la Mostra Biennale Arte o lo storico Museo Navale, davanti al quale troneggiano due enormi ancore, gemelle di quelle che si trovano a Roma, davanti al Ministero della Marina.
Tuttavia, in Riva Sette Martiri, da maggio a settembre, tutte le mattine attraccavano uno o due aliscafi provenienti dalla vicina Jugoslavia da cui sbarcavano i vari turisti stranieri che lì soggiornavano e gli slavi in visita giornaliera nell’affascinante Venezia. Fra quest‘ultimi, coloro che godevano di una maggiore disponibilità economica per permettersi una gita ‒ compreso lo shopping nei costosi negozi veneziani del centro ‒ erano gli sloveni. Inoltre, saltuariamente, vi sostavano anche piccole navi da crociera con il loro carico di passeggeri. Non erano certo le gigantesche navi moderne che qualche anno fa ‒ ora non più ‒ arrivavano addirittura in laguna causando gravi danni per il moto ondoso che suscitavano e il cui passaggio incuteva timore.
Essendo l’inizio di via Garibaldi proprio all’imbocco della gloriosa Riva Sette Martiri, le persone che scendevano a terra erano, in un certo senso, invitate a percorrere il boulevard Garibaldi che, in quei giorni, si affollava come non mai. Ferveva una vivace atmosfera festaiola: ovunque c’era gente che avanzava lentamente, sostava davanti ai singoli negozi e si guardava intorno per catturare ogni aspetto della via. L‘echeggiare di lingue straniere, alcune note altre sconosciute, aumentava la sensazione di essere immersi in una vera e propria Babele dove il caos era estremo e il brusio costante. Non era necessario allontanarsi dal negozio per scoprire il mondo: in fondo le persone più diverse giungevano a “sconvolgere” piacevolmente una normale esistenza, aprendo una finestra sulla natura umana che, nonostante la diversità culturale e linguistica, presenta medesimi desideri e uguali debolezze.
È doveroso riconoscere che tale affluenza significava anche – ma forse è più appropriato dire, soprattutto – un vitale incremento al non florido commercio del luogo che, lentamente, andava impoverendosi a causa del costante spopolamento del sestiere e della città intera, sempre più riservata agli stranieri, piuttosto che ai suoi abitanti. A sostenere un certo tipo di attività, contribuivano in parte i componenti del personale degli aliscafi, i quali giorno dopo giorno acquistavano grandi pacchi di caffè ‒ in grano – da portare nel loro Paese dove il caffè era un bene di lusso. È pensabile si trattasse di una sorta di piccolo mercato per arrotondare il misero stipendio che percepivano. Insomma, una limitata fonte di benessere per le rispettive famiglie. Chissà che destino avranno avuto. Saranno sopravvissuti alle sanguinose guerre scoppiate nella loro Nazione?
È opportuno ricordare che all’epoca ‒ non ancora globalizzata – le calzature made in Italy erano molto apprezzate ed ambite dagli stranieri, per qualità e per design; per di più, in Italia, costavano assai meno che all’estero. Per questo motivo nel mio negozio di calzature, nel corso degli anni, ho conosciuto molte persone dalle più disparate nazionalità, provenienti da ogni angolo del mondo; ciò mi ha permesso di acquisire preziose cognizioni sul comportamento dell’essere umano! Di alcune, seppure trattandosi di fugaci passaggi, ne ricordo episodi curiosi; ad esempio l’entrata del ragazzo americano ‒ pantaloncini corti, scarpe da tennis, zaino in spalla ‒ che voleva acquistare un paio di scarpe, imprescindibilmente classiche, nere e a buon mercato: dovevano costare il meno possibile. Gli servivano per entrare nella Basilica di San Marco, e realizzare, in tal modo, il sogno di visitarla. Entrarci così vestito, assolutamente NO: riteneva fosse blasfemo. Mentre pantaloni lunghi e camicia bianca li aveva nello zaino, le scarpe gli mancavano completamente. Bella lezione sul concetto di rispetto per coloro che pretendevano di entrare in costume da bagno nel Tempio sacro della cristianità!
Molteplici sono gli incontri che affiorano, per ragioni diverse, sulla scena della mia memoria. Taluni vi rimangono impressi per la loro singolarità, altri per la particolarità di un vissuto, altri perché hanno originato delle belle amicizie. Due, le più intense e significative: con Siegfried, pittore di Berlino Est e con la sua bella famiglia e quella con Norman e Jo, una coppia di Brighton. Ma questa è un’altra storia… ne parleremo un’altra volta. Ciò che rimane scolpito indelebilmente è il rapporto umano e solidale di Via Garibaldi, espressione di quella autenticità veneziana che ha reso grande la città più bella del mondo, la cui unicità e le cui bellezze continuano da secoli ad attirare folle di persone estasiate dinanzi a tanto splendore di panorami, di palazzi sul Canal Grande e di maestose chiese ricche di capolavori pittorici.