Il significato storico del “pilastro di confine” ad Ariano Polesine
In località Torre di Rivà, è l’ultimo rimasto dei cinquanta che separavano lo Stato pontificio e la Repubblica di Venezia
Contrasti fra veneti e pontifici nel territorio deltizio dopo il Taglio di Porto Viro (1604)
Dopo la deviazione del Po delle Fornaci nella sacca di Goro effettuata dalla Serenissima (taglio di Porto Viro), diverse famiglie veneziane (Tiepolo, Capello, Venier, Soranzo…) avevano cominciato ad acquistare all’asta le terre alluvionali incamerate da Venezia emerse dai bassi fondali marini.
La Santa Sede non era riuscita a impedire l’espansione veneziana, ma non perdeva occasione per protestare e ribadire che le terre di nuova formazione le appartenevano di diritto o quanto meno erano oggetto di contenzioso.
Nella seconda metà del Seicento la Comunità di Ariano aveva concesso in investitura estesi territori, per lo più vallivi e pascolivi, a nobili ferraresi (Trotti, Rossetti, Crispi) o a notabili per censo e funzioni (Violati, Marchioni) anche per rimarcarne il legittimo possesso. Ma la pressione dei coloni, dei pescatori e dei cannaroli veneti residenti nella parte orientale dell’isola (tagliolesi) dapprima debole e occasionale, era andata crescendo d’intensità lungo le linee direttrici di San Basilio, Oriolo, Romea, circondate da boschi, gorghi pescosi, valli e canneti, fino a lambire il dosso delle Tombe.
Gli arianesi (pontifici) reagivano agli sconfinamenti con sequestri di barche, distruzione degli attrezzi da pesca, arresti, seguiti da processi e condanne. Contrasti e colpi di mano avvenivano soprattutto nella parte meridionale dell’isola, compreso tra il Po di Goro e i rami veneti di Donzella. Nel porto ferrarese di Goro, le imbarcazioni cariche di merci pagavano la tassa di ancoraggio e i soldati esercitavano i controlli di sanità su merciepersone. Da qui i burchi risalivano il fiume trainati dai cavalli passando accanto ai possedimenti dei marchesi Trotti e del nobiluomo veneziano Vendramin. Era ben visibile l’appostamento difensivo, incardinato nella cinta muraria della Mesola, detto Torre di Goro, al quale Venezia contrapponeva un insediamento armato, per controllare il litorale e il territorio contestato.
I contrasti avevano finito per assumere, col passare del tempo, i caratteri di una ricorrente emergenza politico-territoriale. Le trattative intavolate dalle diplomazie erano sistematicamente fallite non solo perché si trattava di confini di Stato ma anche perché si intrecciavano con le mire veneziane sul porto di Goro. Entrambi i governi avevano affidato la sorveglianza armata del territorio a un manipolo di guarda confini, capeggiati gli uni dal veneto Francesco Antonio Morinelli, gli altri da Almerico Tescari. Il loro compito era vigilare i siti controversi dell’isola, intimidire gli avversari senza eccedere per non costringere gli Stati a interventi diretti. La Serenissima installò presidi militari in luoghi di interesse strategico (presso l’imboccatura del porto, nei beni del marchese Trotti lungo il fiume da Rivà al mare) col pretesto di proteggere i sudditi o di esercitare funzioni di sanità pubblica. Questa politica, attuata con graduali ma decisivi passi, incoraggiava di fatto i coloni veneti nei loro tentativi di espansione e di sfruttamento delle risorse del bosco, dell’allevamento o della pesca.
Trattato dei confini e Linea dei Pilastri, 15 aprile 1749
La questione dei confini nell’isola di Ariano si trascinava da quasi un secolo e mezzo. Le trattative diplomatiche culminate nei congressi di Papozze (1613) e di Corbola (1632) erano fallite. Nel 1747, anche grazie alla mediazione del Papa Benedetto XIV, i negoziati ripresero. Il nunzio apostolico Martino Innico Caracciolo e il procuratore di San Marco Alessandro Zen condussero gli incontri in veste di commissari con spirito costruttivo, pur tra sospetti e reciproci puntigli. Dopo lunghe riunioni e serrati confronti, il 15 aprile 1749, nel convento di San Francesco della Vigna a Venezia, i due plenipotenziari sottoscrissero un trattato di aggiustamento dei confini. Nella premessa si dichiara esplicitamente di voler porre termine alle travagliose vertenze e alle turbazioni per conseguire il bene della Pace.
La linea di confine concordata fra i due Stati cominciava dal Cantone della Brusantina di Corbola, procedeva in direzione ponente-levante fino alla punta del margine dell’antica Sacca di Goro,proseguiva seguendone il tracciato per giungere alla distanza di 150 pertiche padovane (circa 322 metri) dal Po di Goro. Risulta evidente la scelta di confermare la situazione esistente prima del taglio di Porto Viro ed in particolare di recuperare il tracciato della vecchia linea litoranea, desunta dalle mappe. Lo stretto corridoio che fiancheggiava il fiume lungo la valle dell’Oca, largo poco più trecento metri, assicurava allo Stato della Chiesa il pieno controllo di entrambe le sponde del Goro il cui porto, oltre che importante scalo commerciale, costituiva un approdo idoneo per le navi da guerra con pescaggio superiore ai vascelli da trasporto.
Il pontefice raggiunse un obbiettivo importante, controbilanciato dal riconoscimento dell’appartenenza a Venezia di gran parte dei nuovi terreni alluvionali. Circa l’attribuzione delle terre che il Po andava formando, le parti escogitarono, allo scopo di prevenire possibili futuri conflitti, un’originale soluzione, già abbozzata nel corso delle fallite trattative nel 1634: una linea di confine ambulanteche avrebbe seguito l’avanzata del continente con l’impianto di nuovi pilastri mantenendo invariata la distanza dal Goro, in modo che “tutto il di qua della linea medesima rimanga di Veneto pubblico Dominio, e tutto il di là della predetta linea sia di dominio della Santa Sede”.
Per rendere visibile e certo il confine, gli architetti Giovanni Giacomelli e Tommaso Temanza effettuarono un minuzioso sopralluogo allo scopo di erigere a spese comuni i 50 pilastri concordati. Nella parte alta di ciascuno di essi inserirono, da bande opposte, ben visibili, due lastre di marmo di pietra d’Istria riproducenti i simboli dei rispettivi Stati: il Leone di San Marco e il libro con la scritta “Pax tibi Marce Evangelista meus” sul lato opposto, rivolto verso il territorio veneziano; il triregno e le chiavi di San Pietro.
Qui sotto: pianta dell’isola di Ariano e del confine nella medesima tra lo Stato Pontificio e la repubblica Veneta, per diversi secoli controverso, convenuto il 15 aprile 1749 dai plenipotenziari Martino Innico Caracciolo e Alessandro Zen. La pianta è stata disegnata dall’architetto ferrarese Giovanni Giacomelli.