Giovannino Guareschi, il “padre” di Peppone e Don Camillo

Due personaggi emblematici del nostro carattere nazionale, nati dalla fantasia di uno scrittore che ha vissuto sulla propria pelle l’esperienza di internato militare

Giovannino Guareschi: il padre di Peppone e Don Camillo. Ma non solo. Se, infatti, i racconti all’insegna del “Mondo piccolo”, con i due protagonisti in carne ed ossa, più l’emblematica figura del Cristo crocifisso dell’altar maggiore della chiesa del paese, e sullo sfondo il “grande fiume”, il Po, in una Bassa ricca di umori, colori, sentimenti (e risentimenti), di religiosità e pure di una profonda umanità, hanno conquistato il “mondo grande”, con traduzioni in tutte le lingue eccetto il cinese, se, questi racconti costituiscono il fiore all’occhiello dell’opera di Guareschi, portati anche sul grande schermo e ri-proposti innumerevoli volte in tv, bisogna avvertire che anche dietro queste pagine c’è… dell’altro! E che altro! Il tutto, lungo un filo conduttore all’insegna della fede, della libertà e dell’etica della responsabilità personale.

Vedremo come. Giovannino Guareschi nasce, come umorista di fama, sulle pagine del Bertoldo, periodico della Rizzoli degli anni Trenta-primi Quaranta, fondato da Cesare Zavattini e del quale Giovannino divenne ben presto l’elemento propulsore, per così dire, non soltanto come idee, ma pure a livello dirigenziale.

Troviamo su questo periodico il meglio dell’umorismo di quel tempo: Giovanni Mosca, Carletto Manzoni, Massimo Simili, Giaci Mondaini (un cognome che potrà dirvi qualcosa: babbo di Sandra!), Metz, Bazzi, Marchesi, Campanile, Marotta, Angoletta, Bertarelli, Loverso ­– cito alla rinfusa – disegnatori, vignettisti e scrittori, ai quali si aggiunse, prima di essere costretto ad emigrare negli Stati Uniti, il grandissimo artista ebreo romeno Saul Steinberg, e con esordienti, per così chiamarli, quali Italo Calvino e Oreste del Buono – sì, quello di Linus!

Tanti personaggi li ritroveremo nel dopoguerra su “Candido”.

Un enorme successo, quello del Bertoldo, e… una “chiarissima fama” per Guareschi, autore, in quegli anni, di tre romanzi umoristico-sentimentali, ancora oggi leggibilissimi per la loro freschezza e immediatezza: “La scoperta di Milano”, “Il destino si chiama Clotilde”, “Il marito in collegio”.

L’intensa attività di Giovannino non venne interrotta nemmeno dall’8 settembre 1943, quando, richiamato alle armi come ufficiale di artiglieria, ad Alessandria, venne catturato dai tedeschi e rinchiuso nei lager di Polonia e di Germania per avere rifiutato la collaborazione al Reich, prima, e in seguito l’adesione alla Repubblica Sociale. Fu infatti nell’esperienza del lager che si rivelò il Guareschi uomo di fede e di libertà, attraverso quello che scrisse e quello che fece per tenere alto il morale dei compagni di sventura. Animatore di un gruppo di personaggi che oggi chiameremmo intellettuali, organizzò conferenze, lezioni, spettacoli; da parte sua, scriveva pagine umoristiche, ma pure di osservazione, di riflessione (i famosi “giornali parlati”) che andava a leggere passando di baracca in baracca: a Beniaminowo, Czestochowa, Bremervoerde, Wietzendorf, Sandbostel!… qualche nome, a questo punto, va fatto fra gli altri “intellettuali”, come li ho definiti: il grande disegnatore-pittore Beppo Novello, il filosofo Enzo Paci, i giuristi Allorio e Golzio, il poeta e critico letterario Roberto Rebora, il futuro rettore dell’Università Cattolica di Milano Giuseppe Lazzati, Gianrico Tedeschi, che proprio nei lager (e stimolato da Guareschi) maturò la vocazione al teatro, nonché il musicista e pittore Arturo Coppola, campano trapiantato a Treviso, che avrebbe musicato quel capolavoro scritto da Giovannino fra i reticolati: la “Favola di Natale”.

Ma prima di entrare nel vivo dell’esperienza del lager, fra gli oltre 600mila IMI (Italienische Militaer-Internierten – Internati Militari Italiani) dove Guareschi si trovò, ci si chiederà come era stato richiamato alle armi, un ufficiale classe 1908 che aveva prestato il servizio militare nel 1936. E’ presto detto. Una sera dell’ottobre 1942, dopo una cena a casa di amici, con un’abbondante libagione di grappa, camminando per le strade di Milano, Giovannino, addolorato per la notizia (in seguito rivelatasi infondata) del fratello Pino disperso in Russia, aveva detto ad alta voce quel che pensava di Mussolini e del regime.

Il solito zelante cittadino che quelle invettive aveva sentito, non mancò di presentare una denuncia, per cui il giorno dopo il Nostro venne arrestato. La notizia si diffuse peraltro rapidamente nella Milano degli scrittori e dei giornalisti; si mosse il vecchio Rizzoli che fece muovere altri e così, alla fine, la questione si concluse… “all’italiana”, possiamo dirlo? – il richiamo alle armi, fu la punizione! Per inciso, va osservato che dopo l’abbondante bevuta di grappa, un amico incosciente-inconsapevole, che avrebbe dovuto fare annusare a Giovannino l’ammoniaca, gliela fece, invece, bere. Di qui, la tremenda e inguaribile ulcera che avrebbe accompagnato il Nostro per tutta la vita. Ecco, allora, che, trovandosi nella Cittadella di Alessandria l’8 settembre 1943, il giorno dopo Guareschi venne fatto prigioniero.

Alla richiesta di schierarsi coi tedeschi rispose: NO, per il giuramento di fedeltà prestato al suo Re. E quando gli dissero che il “suo” Re era fuggito da Roma, la laconica risposta fu: “affari suoi!”, e prese la via del lager, dove gli italiani non furono considerati “normali” prigionieri di guerra, bensì Internati Militari, il che significava, per dirla alla buona: né carne, né pesce, non venendo applicata loro la convenzione internazionale di Ginevra del 1929. Il che comportò che a lungo non poterono scrivere a casa, né ricevere posta o pacchi dalle famiglie e dalla Croce Rossa. Naturalmente, le condizioni in cui quegli sventurati ma dignitosissimi militari si trovarono misero alla prova le loro convinzioni, i loro ideali, la loro volontà di resistenza. Fame, freddo, pidocchi, malattie, e tanta, tanta nostalgia della famiglia, della casa, della Patria furono le sofferenze di quegli uomini, che Guareschi raccontò in quei “giornali parlati” di cui si è detto, animato da fede, senso di libertà, generosità nei confronti degli altri, e con (non poteva essere altrimenti) un di più di battute umoristiche.

Sentite questa, scritta dall’internato numero 6865 nel lager di Beniaminowo:

“Signora Germania, tu mi hai messo fra i reticolati, e fai la guardia perché io non esca. E’ inutile signora Germania: io non esco, ma entra chi vuole. Entrano i miei affetti, entrano i miei ricordi.

E questo è niente ancora, signora Germania, perché entra anche il buon Dio e mi insegna tutte le cose proibite dai tuoi regolamenti.

Signora Germania, tu frughi nel mio sacco e rovisti fra i trucioli del mio pagliericcio. E’ inutile, signora Germania, tu non puoi trovare niente e, invece, lì sono nascosti documenti d’importanza essenziale. La pianta della mia città, mille immagini del mio passato, il progetto del mio avvenire.

E questo è ancora niente, signora Germania. Perché c’è anche una grande carta topografica al 25.000 nella quale è segnato, con estrema precisione, il punto in cui potrò ritrovare la fede nella giustizia divina”.

Continua su questo tono, Giovannino, per concludere: “L’uomo è fatto così, signora Germania, di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno. E questa è la fregatura per te, signora Germania”.

Come avete sentito, c’è un tono irridente nei confronti di chi lo tiene fra i reticolati, ma che tiene soltanto il suo corpo, e due elementi emergono: la fiducia in Dio, e il senso di libertà, che in Guareschi è, prima di tutto, un fatto interiore. Se non si è liberi dentro… Ancora: il richiamo che si può avvertire a quel passo del Vangelo di San Matteo (10:28) in cui si legge: “Non abbiate timore di quelli che uccidono il corpo ma non possono uccidere l’anima”…

La “Favola di Natale” fu un capolavoro scritto da Giovannino alla vigilia del 25 dicembre 1944 e il primo libro dell’internamento pubblicato subito dopo la liberazione dal lager, in cui l’autore racconta di un bimbo, il figlio Albertino, che con la nonna e il fedele cane Flik, si mette in viaggio (il cammino illuminato da una lucciola) per andar a trovate il babbo nel campo di concentramento e recitargli la poesia natalizia. E’ un percorso lungo e ricco di strani, originali, incontri, frutto di una fantasia straordinaria, nel quale compaiono personaggi inimmaginabili, ma pure le “antitesi”: il dio della guerra e Quello della Pace.

Il secondo libro del lager pubblicato da Rizzoli (1949) e dal quale ho tratto il brano sulla Signora Germania, si intitolò “Diario clandestino” e nelle pagine introduttive si legge fra l’altro. “Io, insomma, come milioni e milioni di persone come me, migliori di me e peggiori di me, mi trovai invischiato in questa guerra in qualità di italiano alleato dei tedeschi, all’inizio, e in qualità di italiano prigioniero dei tedeschi, alla fine. Gli anglo-americano nel 1943 mi bombardarono la casa, e nel 1945 mi vennero a liberare dalla prigionia e mi regalarono del latte condensato e della minestra in scatola. Per quello che mi riguarda, la storia è tutta qui. Una banalissima storia nella quale io ho avuto il peso di un guscio di nocciola nell’oceano in tempesta, e dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie, ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno…”. Attenzione, perché dopo i due brani citati dal “Diario clandestino”, troverete, collegato, un interessantissimo, emblematico elemento alla fine di questa conversazione. Dobbiamo peraltro aggiungere, a proposito delle espressioni di Giovannino nel lungo tempo del lager, quella eccezionale, paradossale, che così suona: “Non muoio neanche se mi ammazzano”, a dar la misura della ferma volontà, del fortissimo spirito di resistenza che lo animarono. Nonchè, la definizione che egli diede del lager: “uno scatolone di sabbia, coperto di malinconia” – in cui si avverte desolazione, se non anche una “amaritudine amarissima” (Isaia 38:17).

Dicevo del filo conduttore dell’opera e della vita di Guareschi, e non a caso dico opera e vita, perché la letteratura non sempre è come la vita degli autori. Ce ne sono di grandi che come persone non valgono molto. In Guareschi invece letteratura e vita, idee e comportamenti si identificano, succeda quel che potrebbe succedere, provando, poi, dopo il lager nazista, l’esperienza traumatica della galera italiana.

Ancora un momento, prima di venire al “padre di Peppone e Don Camillo”, per soffermarci sull’azione di Guareschi per la riconciliazione degli italiani, dopo la guerra fascista, che era poi diventata (anche) guerra civile. Ci sono voci di altissimo prestigio che si levano in questa direzione: dal Benedetto Croce del famoso intervento alla Costituente nel 1947, a don Primo Mazzolari, sacerdote antifascista che avrebbe indicato nel libro “I preti sanno morire”, “gli anni della caligine, che sono poi quelli della guerra civile”. Guareschi interviene spesso su Candido con scritti e vignette. Tra queste pagine, un emblematico racconto “Vendetta”, è la vicenda di un anziano maestro antifascista che negli anni del regime aveva perso il posto e, per sopravvivere, si era arrangiato con lezioni private. Durante la guerra e la resistenza gli avevano ammazzato l’unico figlio, Mario, andato partigiano.

Rimasto vedovo, dopo il 1945 era tornato all’insegnamento nella scuola pubblica e fra gli alunni si era ritrovato un certo “Luigino B.”, figlio di uno dei capi di quelli che gli avevano ammazzato Mario. Il padre di “Luiguino B.” stava per uscire dal carcere grazie all’amnistia; a quel punto nessuno avrebbe potuto impedire al vecchio maestro di mettere in atto la vendetta, cioè bocciare il bambino all’esame finale.

E qui è opportuna una prima osservazione: perché prendersela con un innocente? Contro chi non aveva avuto nulla a che fare con l’uccisione di Mario?

La risposta è che il sentimento di odio che anima il vecchio maestro per il grande dolore patito e per nulla sopito, era uno spirito diffuso a quel tempo e si manifestava anche nella pratica quotidiana proprio col vendicarsi (pure) sugli innocenti, facendo pagare loro un “debito” che con avevano contratto.

Ma ecco, il dialogo notturno del maestro con Mario, rappresentato dalla fotografia che il vecchio teneva appesa al muro dello studio, proprio di fronte al tavolo di lavoro. Ed ecco, il tema di italiano di “Luigino B.” zeppo di errori. Ce n’è abbastanza per la bocciatura, al di là del sentimento di vendetta. Basta soltanto decidere quale voto assegnare. Un voto che, visti gli errori rossi e blu si aggirava sul 2 o poco più.

A questo punto, lasciamo la parola a Guareschi.

“Era quella l’ora dei morti, e la notte era piena di fantasmi. Il silenzio li difendeva dal mondo dei vivi e l’aria era ferma. Il vecchio maestro fissava gli occhi di Mario velati dall’ombra e gli occhi apparivano vivi.

E anche il viso lentamente si vestiva di carne.

‘Due, tre o tre e mezzo?’ domandò ancora il vecchio maestro e le parole caddero nel silenzio e il silenzio le inghiottì.

‘Sei’ rispose una voce lontana.

Ed era la voce di Mario”.

Su Candido, settimanale umoristico, politico e di costume, Guareschi guidò la battaglia anticomunista che avrebbe portato alla sconfitta del Fronte democratico Popolare e alla vittoria della Dc e dei suoi alleati nell’aprile del 1948 e su Candido apparvero le famose vignette del Contrordine, compagni, coi trinariciuti all’insegna della “obbedienza cieca, pronta, assoluta”.

Citiamo intanto due vignette che fecero epoca. Un operaio che sta per tracciare la croce sulla scheda e la didascalia che recita: “Nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin, no”… che è poi un richiamo più ampio, oltre il riferimento a Stalin, alla voce della coscienza. Poi, lo scheletro di un soldato dell’Armir aggrappato al filo spinato del reticolato di un gulag; in alto il simbolo del Frodepop (il bel faccione di Garibaldi, come qualcuno potrà ricordare); “Mamma, dice il soldato, indicando il simbolo della Sinistra, votagli contro anche per me!”.

Derivava, questa vignetta, dal fatto che il Pci negava esistessero ancora, nel 1948, prigionieri italiani in Urss. Era vero il contrario, tanto che gli ultimi tredici, fra i quali don Giovanni Brevi, Franco Magnani e il trevigiano Enrico Reginato, fecero ritorno a baita soltanto nel 1954!!!

Vale poi la pena soffermarsi, come si diceva, sulla originalissima invenzione del trinariciuto, cioè il compagno che esegue prontamente e ciecamente le disposizioni del partito rinunciando a qualsiasi forma di senso critico. Il primo di questi personaggi (fra due compagni con nasi normali che sbuffano) lo troviamo sul numero 4 del 23 gennaio 1947 di Candido. La vignetta, intitolata Giusto risentimento, vede i compagni sfilare davanti alla statua di Cristoforo Colombo mentre L’Unità riporta la notizia che De Gasperi è in America. Didascalia: “Reazionario sporco! Perché non ha scoperto invece la Russia?”

Nel numero dell’1 febbraio 1947, c’è una vignetta dal titolo Disciplina di partito: un compagno arriva trafelato sbuffando da due sole narici davanti a un gruppetto con pennello intento a ungere altri compagni, ed esclama: “Contrordine! La direzione del partito comunica che si trattava di un errore di stampa dell’Unità la frase ‘ I compagni debbono essere sempre unti’, va invece letta: ‘I compagni debbono essere sempre uniti!”.

Ma l’ingresso, per così dire, al gran completo, delle tre narici arriverà nel numero 7 del 15 febbraio 1947, all’insegna della Obbedienza cieca, pronta, assoluta, appunto, e così proseguirà sino alla fine di Candido (1961).

Palmiro Togliatti è raffigurato con una pizza in mano, ma un attivista gli dice: “Contrordine, compagno Togliatti! L’Ufficio stampa del Kremlino comunica che l’ordine ‘Voi dovete agitare la pizza’, contiene un errore di trasmissione, e pertanto va letto: ‘Voi dovete agitare la piazza!’”.

Ancora un altro esempio. Sul numero 9 dell’1 marzo 1947, i trinariciuti compaiono con un sacchetto di noci in mano e nella didascalia si legge: “Contrordine, compagni! La frase dell’Unità: ‘Ogni compagno deve raccogliere tutte le noci e prontamente riportarle alla Direzione del Partito’, contiene un errore di stampa e pertanto va letta: ‘Ogni compagno deve raccogliere tutte le voci e prontamente riportarle alla Direzione del Partito’”.

Come si vede, sostituendo una lettera con un’altra, o eliminandola, o ancora aggiungendola, veniva completamente cambiato il senso della frase, e avere prolungato settimanalmente per tanti anni la rubrica indica una fantasia e un senso dell’umorismo non comuni… Ovviamente sgraditi ai comunisti, in primis a Togliatti, il quale nel 1948, in due comizi (a La Spezia e a Bologna), ebbe a definire Guareschi “Tre volte idiota moltiplicato per tre” e “L’uomo più cretino del mondo”. Dal canto suo, il Nostro avrebbe replicato affermando di non avere mai avuto elogio più bello!

Perché questa invenzione che ho definito originalissima? Perché nasi con tre narici quale stigma, segno distintivo di iscritti (e attivisti) al Pci? Lo spiegò lo stesso autore nella risposta a un lettore sul numero 14 del 5 aprile 1947 di Candido. “… Perché nel mio concetto base, la terza narice ha una sua funzione complementare indipendente dalle altre due: serve di scarico in modo da tener sgombro il cervello dalla materia grigia e permette nello stesso tempo l’accesso al cervello delle direttive di partito che, appunto, debbono sostituire il cervello. Il quale cervello, lo si vede, appartiene ormai ad un altro secolo. Non dico, come i miei nemici personali desidererebbero ad un’altra era. Perché la terza narice esisteva anche nell’altra era, ma era proibito mostrarla, e tutti dovevano portarla mascherata […] Naturalmente la terza narice non è una prerogativa delle sinistre: io credo che ce ne siano molte altre, distribuite un po’ in ogni dove. Il guaio è che sono ancora tappate per motivi prudenziali o altro e non si vedono ancora…”

Tutto ciò fa arguire in definitiva, che a Guareschi era assai caro il senso critico, per cui chi vi rinuncia è propenso a portare (inevitabilmente) il cervello all’ammasso.

Ed eccoci, finalmente, ai racconti del “Mondo piccolo” con Don Camillo, Peppone, eccetera. Alla fine saranno 347 – il primo scritto alla vigilia di Natale del 1946 – testimonianza della lotta politica del dopoguerra, ma anche di una civiltà contadina nella quale Giovannino affondava le radici, e di una fede in Dio che non viene mai meno e può illuminare il percorso di ogni uomo di buona volontà.

Come nascono queste due emblematiche figure? Personaggi inventati o riferimenti a uomini in carne e ossa incontrati da Guareschi e ai quali si era ispirato?

Lo scrittore, lo disse, una volta: aveva pensato, per il prete a uno zio materno, Oliviero Maghenzani, che voleva andare missionario, ma morì giovanissimo, e per il capo dei rossi, allo zio paterno Umberto, emigrato in Argentina: un corpo enorme con due occhi onesti, visti una volta, mai dimenticati.

Ma è pure probabile che il primo prete a ispirare la figura di don Camillo sia tato don Lamberto Torricelli, il sacerdote dell’infanzia di Giovannino, quando lo scrittore viveva a Marore (Parma) dove la mamma Lina sarebbe stata maestra per quarant’anni. Come parroco, don Torricelli aveva insegnato il catechismo al Nostro e in seguito gli aveva dato ripetizioni di latino.

Non va poi trascurata la figura di Lino Maupas, il francescano dalmata di ascendenze francesi cappellano del carcere di Parma, amico dei poveri e dei diseredati, che, aiutato da ricchi imprenditori fra i quali il vecchio Barilla, dava ai bisognosi, in primis i familiari dei detenuti – e c’è un racconto, “Roba del 1922”, pubblicato in “Ciao Don Camillo”, libro postumo curato da Alberto e Carlotta, in cui il fraticello solitario che incontra Peppone e la sua banda sull’argine del fiume, pare proprio ispirato alla figura di quel religioso. Quanto a Peppone, nella vita di Guareschi, un posto rilevante l’ebbe un mitico esponente politico della Bassa, quel Giovanni Faraboli, amico del babbo del Nostro, fondatore di cooperative rosse, socialista dalla ”chiara e onesta faccia”, morto povero. Da queste informazioni, e dalla logica “temporale”, ce n’è poi per smentire una voce diffusasi non si come e perché nei primi anni ‘50, all’apparire delle prime opere cinematografiche su Don Camillo. Secondo le quali Giovannino si sarebbe ispirato alla contrapposizione politica bolognese fra il cardinal Giacomo Lercaro e il sindaco Giuseppe Dozza. La realtà era ben altra. Quando nacque Don Camillo, su Candido, nel 1946, Giacomo Lercaro era parroco a Genova e l’anno successivo sarebbe stato nominato arcivescovo della mia Ravenna; cardinale a Bologna sarebbe arrivato nel 1952!!! Quindi…

Nella saga del robusto e manesco prete della Bassa e dell’avversario-amico Peppone, nonché del Cristo crocefisso dell’altar maggiore che parla al parroco e rappresenta la coscienza cristiana dell’autore, ci sono episodi esilaranti di umorismo, ma dietro i quali c’è sempre una nota pedagogica, che non disturba affatto, proprio in virtù di quella sorta di “leggerezza”, di quell’inconfondibile “stile Guareschi”, come ci piace chiamarlo. Prendiamo il dopo-partita Gagliarda-Dynamo, vinta dalla squadra di Peppone che ha corrotto l’arbitro, pagandolo meglio di quanto avesse proposto don Camillo! La tifoseria parrocchiale inferocita insegue l’arbitro fino in chiesa, e qui si ferma, fa retromarcia per l’opera di don Camillo… Ma non finisce lì. A un certo punto, dopo avere salvato l’arbitro, il parroco avvia un dialogo col Cristo crocifisso, al quale infine (accecato dal suo essere supertifoso) chiede perché non abbia fatto vincere la sua squadra. La risposta è (ovviamente) bene argomentata e alla fine il Cristo dice: “E perché dovevo aiutare te e non gli altri? Ventidue gambe quelle dei tuoi uomini, ventidue quelle degli altri: don Camillo, tutte le gambe sono uguali. Io non posso occuparmi di affari di gambe. Io mi occupo di anime…”

Già! Forse anche nella chiesa cattolica, oggi, c’è chi dimentica di parlare di anima e di anime, di salvezza delle anime! A me pare, questa battuta, di un’attualità straordinaria, valida anche per quei giocatori che pregano per la vittoria della loro squadra.

Tornano, poi, nei racconti del ”Mondo piccolo”, che vede politicamente i due protagonisti combattersi con animosità, ma umanamente uniti, perché, e qui apro un inciso: in Guareschi, polemista agguerritissimo nella lotta al comunismo, l’umanità ha sempre prevalso sull’ideologia – anche questa sua posizione appare di grande attualità! Tornano, dicevo, le riflessioni sulla libertà. Sentiamo.

“Peppone sospirò ancora.

‘Mi sento come in galera’ disse cupo’.

‘C’è sempre una porta per scappare da ogni galera di questo mondo’ rispose don Camillo.’ Le galere sono soltanto per il corpo. E il corpo conta poco”.

 Ancora, dunque, il primato dello spirito sulla materia!

E poi, quella sconfinata fiducia in Dio che fa di don Camillo il tramite per la salvezza del figlioletto di Peppone gravemente ammalato; occorre la streptomicina, che si trova soltanto in città, ma il paese è rimasto isolato per via di un violento temporale che ha bloccato le comunicazioni. Resta allora soltanto una soluzione: correre disperatamente e raggiungere, col bimbo, l’ospedale cittadino. E’ un tentativo da farsi e lo svolgimento, per così chiamarlo, e l’epilogo hanno del miracoloso, ma Giovannino, da vero cristiano crede che “nulla è impossibile a Dio”! (Luca 1:37).

E’ una pagina che merita di essere letta, o riletta. Don Camillo organizza una volante di grosse moto. A cavalcioni della ‘Guzzi’ più potente del paese si fa assicurare stretto col mantello e una corda il bambino ben infagottato.

Cito: “Due davanti, due dietro affiancati, in mezzo don Camillo e, davanti a tutti Peppone sulla enorme ‘DKW’ di Bolla, lungo le strade buie e deserte e squallide della Bassa, la ‘Volante saetta sotto la pioggia.

La strada è viscida, le curve improvvise e insidiose. Le ruote rasentano i fossi, i muri: ma la ‘Volante’ non si ferma.

Via, via, via dentro il fango, in mezzo al ghiaietto.

Ed ecco la grande strada asfaltata.

Le macchine rombano ed è una corsa folle.

Ma ad un tratto don Camillo sente un gemito doloroso uscire dal fagotto, che ha in grembo. Bisogna far presto.

‘Gesù’ implora don Camillo a denti stretti. ‘Gesù dammi ancora del gas!’.

Ed ecco che la ‘Guzzi’ ha come un balzo. Pare che dentro i cilindri abbia tutta la fabbrica di Mandello con la commissione interna al completo.

Via, via!

Li passa tutti e Peppone se la vede sgusciare di fianco e non può seguirla perché non ha più niente da girare: lui non ha un Gesù come quello di don Camillo cui chiedere ancora gas”.

I racconti del Mondo piccolo sono un affresco della Bassa e hanno avuto successo all’estero perché anche nel “mondo grande” ci sono delle Bassa, un mondo contadino con valori, umori, contrasti, e una sconfinata umanità. Angelo Roncalli, nunzio apostolico a Parigi, fece omaggio del primo volume “Don Camillo”, che gli era molto piaciuto, al presidente Vincent Auriol!

Tutto il mondo è paese, dice il proverbio popolare; ecco uno dei segreti del successo dei racconti guareschiani oltre i confini nazionali, descrivere un “mondo piccolo” che in effetti è universale. In questa narrazione, infatti, sono concentrati gli elementi caratterizzanti l’intelligenza, il sentimento, i principi morali, il Credo dell’uomo, dello scrittore, dell’umorista, del poeta Guareschi. Che sa descrive la realtà ambientale di una Bassa brumosa d’autunno, col sole estivo martellante sulle teste di uomini e animali, l’opima campagna che conosciamo, il respiro del “Grande Fiume” che porta non soltanto acque (allora non inquinate), ma pure favole, dicerie, leggende, diventando protagonista lui stesso.

Ci sono ovviamente la chiesa e la casa del popolo, le osterie, le partite a carte e le dispute politiche, anche manesche: uno specchio padano, insomma, fra Lambrusco e culatello, e momenti anche drammatici, ma con una forte componente di bene.

Un cenno particolare merita il Cristo crocefisso che, come detto, rappresenta la coscienza cristiana dell’autore, e che si rivela di molta severità nei confronti del suo “ministro” don Camillo. Valga per tutti, l’episodio della scritta “Peppone asino” apparsa su un manifesto del Pci zeppo di errori, debitamente sottolineati nottetempo da don Camillo.

Sentite: “Don Camillo, l’azione più misera che si può commettere in una polemica è quella di aggrapparsi agli errori di grammatica e di sintassi dell’avversario. Quelli che contano, nella polemica, sono gli argomenti”.

E siccome don Camillo cerca di giustificarsi, con espressioni del tipo: “D’accordo, ma ai fini politici generali…”, Gesù replica duramente:

“Non mi interessano i fini politici generali! Ai fini della carità cristiana, l’offrire alla gente motivo di deridere un uomo per il fatto che quest’uomo è arrivato soltanto alla terza elementare, è una grossa porcheria, e tu ne sei la causa, don Camillo!”.

E’ uno dei diversi episodi emblematici di come siano chiare allo scrittore la dottrina e la pastorale cristiane.

A questo punto, in un discorso più generale sul “Mondo piccolo”, ecco un interrogativo e una confutazione. Come mai, in un’atmosfera di forte contrasto, di lotta politica, nei quali Guareschi ebbe una parte importantissima, con duri attacchi alle sinistre, coi trinariciuti, eccetera, vediamo che alla fine, nelle cose fondamentali, come il bene della propria gente, Peppone e don Camillo possono ritrovarsi? Una anticipazione del compromesso storico (cosiddetto), come qualcuno già allora pensò? La risposta è negativa: nessuna anticipazione di compromesso storico, bensì, qualcosa d’altro e di più significativo, emblematico dell’uomo e dello scrittore Guareschi: la netta distinzione fra errore ed errante, all’insegna della fede cattolica, e di quell’umanità che prevale sempre sull’ideologia, di cui ho già detto.

In fondo in fondo, poi, Peppone, ancorché voglia nasconderlo ai suoi, è intimamente cristiano, all’insegna di sentimenti diffusi e di una cultura dei quali era impregnata gran parte della nostra società, sia sul piano del culto religioso, sia su quello morale e del costume, al di là delle separazioni-distinzioni destra-sinistra, credenti-atei, in virtù della quale poi un certo Benedetto Croce aveva potuto affermare “Perché non possiamo non dirci cristiani”…

Per seguire il filo conduttore della vita e dell’opera di Giovannino, occorre peraltro riandare anche all’esperienza della galera italiana e quindi leggere o ri-leggere una delle lettere che dal carcere di San Francesco inviò alla moglie Ennia (la Margherita del Corrierino delle famiglie).

Ma come ci finì, Giovannino nel carcere di San Francesco a Parma, per 409 giorni? Per la vicenda delle lettere di Alcide De Gasperi.

Premessa. Guareschi aveva subito un primo processo per vilipendio del Capo dello Stato. Luigi Einaudi, grande economista, illustre docente universitario, uomo politico liberale, nel maggio del 1948 era stato eletto Presidente della Repubblica. Nella sua tenuta di Dogliani, in Piemonte veniva prodotto un eccellente Nebiolo e tempo dopo, uno zelante collaboratore aveva pensato bene di appiccicare sulle bottiglie da mettere in commercio una etichetta con la scritta “Poderi del senatore Luigi Einaudi”. Una caduta di stile che non era sfuggita ai redattori di Candido, per cui era stata pubblicata una eloquentissima vignetta di Carletto Manzoni dal titolo “Al Quirinale”. Due file di bottiglie a mo’ di corazzieri (e “I Corazzieri” era la didascalia); in fondo, un omìno piccolo appoggiato a un bastone (Einaudi era claudicante) che si accingeva a passarli in rivista.

Nessuna reazione ci fu dal Quirinale, ma due zelanti deputati: Bettiol democristiano e Treves socialdemocratico si premurarono di presentare una denuncia. Al processo, Guareschi, responsabile di Candido, venne assolto, ma il P. M. ricorse in appello e nel secondo grado di giudizio, ci fu la condanna, coi benefici di legge della condizionale e della non menzione. Il che significava, però, nel caso di un altro processo per altra causa e magari conseguente condanna, l’imputato avrebbe scontato anche la prima pena. A meno che non fosse ricorso in appello. Il che nella vicenda De Gasperi non avvenne – vedremo come.

Intanto, siamo nel 1954 in un momento molto movimentato per così dire, in seno alla Dc e al governo Pella, quando il direttore di Candido riceve da un ex tenente della Guardia nazionale repubblicana, tale Enrico De Toma, che si stava occupando dell’ipotizzato carteggio Churchill Mussolini, due lettere a firma Alcide De Gasperi, la prima delle quali è quella che ci interessa, per via di sintesi.

Era scritta a macchina su carta intestata Segreteria di Stato di Sua Santità e datata 19 gennaio 1944, firmata da Alcide De Gasperi che nel ventennio e fino alla liberazione di Roma, lavorava nella Biblioteca Vaticana, fuoruscito antifascista.

Nella missiva indirizzata a un comando alleato di Salerno si chiedeva il bombardamento della periferia e dell’acquedotto della capitale, per indurre i romani a insorgere contro i tedeschi.

Prima di pubblicarle su Candido (gennaio 1954), Guareschi fece sottoporre le lettere al dottor Umberto Focaccia, perito calligrafo al quale si rivolgeva a volte anche il Tribunale di Milano. Focaccia confermò: la firma era di De Gasperi. E Guareschi pubblicò.

Il leader Dc sporse querela: non per falso, bensì per diffamazione a mezzo stampa.

Processo, rapidissimo, in quanto la Corte respinse subito le richieste dei difensori dello scrittore, avvocati Lener e Porzio: perizia chimica e calligrafica sugli originali delle lettere, la convocazione di dieci testimoni.

Giovannino venne condannato e gli si presentava lo spettro della galera anche per la precedente causa. Non restava che ricorrere in appello, ma questa, chiamiamola opportunità (pensando magari ad una assoluzione per insufficienza di prove), venne rifiutata dall’interessato con una lettera aperta di rara, altissima dignità indirizzata ai suoi legali e pubblicata su Candido col titolo “No, niente appello!”.

I giudici avevano pronunciato il verdetto di condanna, sulla base di testimonianze a favore di De Gasperi, del suo “alibi morale” e del giuramento da lui prestato che le lettere erano false; di qui, per loro, “la prova storica” del falso.

E Guareschi, nella lettera ai suoi avvocati, scriveva fra l’altro: “Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. La sentenza è regolare, ha il crisma della legalità. Il costume è sbagliato, e non è una questione che riguarda la Magistratura: è una questione di carattere generale che riguarda l’Italia.

Non è un colpo di testa: io non ho il temperamento dell’aspirante eroe o dell’aspirante martire […]” – avvertiva lo scrittore, per poi proseguire:

“Io sono un piccolo borghese, un qualsiasi padre di famiglia che, avendo dei figli, ha dei doveri.

Primo dovere […] quello di insegnare ai figli il rispetto per la dignità personale […]

In tutta questa faccenda hanno tenuto conto dell’alibi morale di De Gasperi e non si è neppure ammesso che io possegga un alibi morale.

Quarantacinque o quarantasei anni di vita pulita, di lavoro onesto, non sono un luminoso alibi morale?

Me l’hanno negato.

Hanno negato tutta la mia vita, tutto quello che ho fatto nella mia vita.

Non si può accettare un sopruso di questo genere.

Se il mio nemico mi sputa in faccia, non posso ricorrere in Appello per ottenere che mi ripulisca la faccia con un fazzoletto.

Se il mio nemico mi porta via mio figlio, non posso mettermi a patteggiare con lui perché mi restituisca almeno una gamba di mio figlio.

M’avete condannato alla prigione?

Vado in prigione. Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che m’è stato dato ingiustamente. Il pugno l’ho già preso e nessuno potrà far sì che io non l’abbia preso.

Non mi pesa la condanna in sé, ma il modo.

E il modo ancor m’offende.

Invece di un anno, due anni potevano darmi: ma dopo aver dimostrato che si era tenuto conto della possibilità che io fossi un comune onesto uomo sdrucciolato nel baratro della disonestà.

Mi hanno invece trattato come il delinquente incapace di compiere una azione onesta […]

No, niente appello. La mia dignità di uomo, di cittadino e di giornalista libero, è faccenda mia personale, e in questo caso accetto soltanto il consiglio della mia coscienza.

Riprenderò la mia vecchia e sbudellata sacca di prigioniero volontario e mi avvierò tranquillo e sereno in quest’altro Lager.

Ritroverò il vecchio Giovannino fatto d’aria e di sogni e riprenderò, assieme a lui, il viaggio incominciato nel 1943 e interrotto nel 1945.

Niente di teatrale, niente di drammatico.

Tutto semplice e naturale.

Per rimanere liberi bisogna, a un bel momento, prendere senza esitare la via della prigione”.

Che dire? Qualunque opinione noi possiamo avere, penso si debba convenire sulla grande onestà intellettuale dello scrittore, sul suo senso dell’etica della responsabilità personale, e della fedeltà, ancora una volta testimoniata, alla voce della coscienza, a costo di prendere, ancora una volta, la via della galera per continuare a restare libero.

Una galera, il carcere di San Francesco a Parma (e peraltro tutte le realtà simili d’Italia), nella quale il regolamento era… abbastanza antiquato, con tanto di bugliolo in cella e restrizioni che oggi non si immaginano.

Le reazioni di Giovannino, si possono leggere nella corrispondenza con la famiglia e gli amici più cari, compresa la ferma decisione di NON chiedere la grazia al Capo dello Stato, grazia che i commentatori del tempo avvertivano sarebbe stata concessa.

Ed eccoci quindi a quanto scrisse una volta alla moglie Ennia.

“Completa è la mia fede nella Divina Provvidenza che, per essere veramente tale, non deve mai essere vincolata da scadenze.

Mai preoccuparsi quindi del disagio di oggi ma aver sempre l’occhio fisso al bene finale che verrà quando sarà giusto che venga.

I giorni della sofferenza non sono giorni persi: nessun istante è perso, è inutile, del tempo che Dio concede.

Altrimenti non lo concederebbe!”

Che cosa emerge da questa breve ma incisiva frase?

Una sconfinata fiducia nella Divina Provvidenza; il senso del dolore, della sofferenza che ci uniscono a Cristo; infine, ma non ultima, la considerazione che i tempi di Dio non sono i nostri tempi!!!

E questo riguarda soprattutto quei cattolici impazienti a volte di ricevere una grazia, il sottoscritto compreso, senza considerare, appunto, che Dio ha ”i suoi tempi”!!!

Giovannino scontò 409 giorni dietro le sbarre, poi, usufruì della libertà condizionata nella sua casa di Roncole Verdi, umiliato, demoralizzato, ma non piegato.

La vicenda non finì comunque lì, per così dire.

In seguito l’ex tenente della Guardia nazionale Repubblicana De Toma venne processato: per falso, questa volta, e nei suoi confronti venne applicata l’amnistia.

E le lettere?

Il tribunale ordinò la distruzione degli originali, e così fu fatto. Oggi, quindi non possiamo dire fossero autentiche o false. Ognuno potrà avere un’opinione, ma in mancanza degli originali e di appropriate perizie, l’interrogativo resta.

Come resta la luminosa figura di Guareschi, del suo agire secondo coscienza, e non secondo convenienza, come sempre aveva fatto in una esistenza breve (aveva appena 60 anni quando morì, il 22 luglio 1968 nella sua casa di Cervia)) ma intensamente vissuta.

Siamo così arrivati all’epilogo di questo nostro incontro guareschiano. “Ritorno alla base” è il titolo del libro postumo, curato dai figli Alberto e Carlotta (indimenticabili personaggi, fra l’altro, del Corrierino delle famiglie), diviso in due parti; la prima raccoglie brani scritti nel lager e mai pubblicati, la seconda è costituita dal reportage del viaggio compiuto da Giovannino col figlio Alberto (soprannominato Sputnik) nel 1957, ripetizione del percorso sul treno tedesco dell’IMI Guareschi nel settembre 1943.

Ed ecco, nel finale, la sosta dei due in un piccolo albergo di Bergen, dove quella sera c’è una festicciola e Alberto chiede a una coetanea tedesca di ballare.

Intanto, “… Anche qui, nel piccolo albergo di Bergen, mi hanno riconosciuto e l’orchestrina in mio onore suona Guaglione, che nella traduzione tedesca è diventata “Peppino” con riferimento a non so quale “Peppone” che fa rima con ‘balcone’. Qualcuno sa biascicare l’italiano e si chiacchiera. Firmo non so quante cartoline. Adesso seduta al mio tavolo c’è un sacco di gente…”

Prosegue la descrizione di Giovannino – accompagnata dalle considerazioni sui giovanissimi dell’età del figlio (classe 1940): “Magari – penso – quel ragazzo lì, tutto sorridente, io l’ho visto, dodici anni fa, rannicchiato in mezzo ai fagotti che sua madre si tirava dietro sul carrettino mentre lasciava Bergen e la sua casa per andare a dormire in qualche fienile.

La ricordo, quella lunga fila di gente silenziosa, di donne dal volto impenetrabile: ci siamo incontrati quel giorno e non lo dimenticherò più”.

Pensa, ancora, lo scrittore, con un moto di sentita, intensa partecipazione-condivisione all’altrui sofferenza, che anche la ragazzina che sta ballando adesso col figlio “era annidata su qualche carrettino della lunga colonna…

“Qualcuno mi domanda se è la prima volta che vengo in Germania – La prima volta – rispondo.” …

Così, secco.

Niente di più, niente di meno.

La pietas suscitata dal ricordo di quella povera gente cacciata dalle proprie abitazioni, prevale su tutto quanto aveva patito nei lager nazisti, e non era stato poco, tra fame, freddo, ulcera, privazioni varie, nostalgia.

E allora, ecco: il lettore sensibile si può ricollegare all’osservazione fatta all’inizio: fede, che significa spirito cristiano, nessun odio, nessun desiderio di vendetta – “io non ho mai odiato nessuno”!

Quella risposta per me significa perdono. Per altri, non saprei!  Fate voi…

Conferenza tenuta all’Università Popolare dell’età libera del Montello, Villa Wassermann, Giavera, 6 ottobre 2023

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