Ricordo di Pierantonio Gios e Giuliano Lenci

Due personalità padovane che fecero parte del Comitato scientifico del Centro Studi Onorevole Sebastiano Schiavon

Monsignor Pierantonio Gios, di Asiago, ordinato sacerdote dal vescovo Girolamo Bortignon, fu avviato agli studi universitari a Milano e a Roma, dove ha conseguito il dottorato alla Pontificia Università Gregoriana. È stato per decenni bibliotecario dell’Antica biblioteca del Seminario di Padova e nel 2004 bibliotecario ed archivista della Biblioteca Capitolare. La sua passione era la storia.

L’ho conosciuto nel 2000, all’inizio della mia ricerca su Sebastiano Schiavon conclusasi poi, nel 2005, con la pubblicazione di Sebastiano Schiavon, lo strapazzasiori. Allora era direttore della Biblioteca del seminario vescovile di Padova. Alla mia richiesta di consultare i registri scolastici del seminario che Schiavon, da esterno, aveva frequentato dal 1895 al 1903, mi rispose subito in modo burbero che non era possibile, perché i documenti non risultavano catalogati ed erano messi alla rinfusa nella polverosa soffitta del seminario. Ma sottolineai che quelle carte mi servivano, in quanto dovevo essere certo sul percorso scolastico di Sebastiano. Finalmente, dopo diverse mie richieste, un pomeriggio inaspettatamente mi concesse, con l’aiuto di un sacerdote suo collaboratore, di accedere addirittura alle soffitte, dove con difficoltà trovai i registri che riportavano voti e giudizi della frequenza di Sebastiano alle medie, al ginnasio e al liceo.

Poi la conoscenza si fece sempre più profonda, tanto che Monsignor Gios si offese quando presentai per la prima volta il mio libro nella sala consiliare antica della Provincia, senza aver sollecitato un suo intervento. Per potermi scusare di questa mia disattenzione, faticai non poco. Ci riuscii organizzando ad Asiago, presso la sede dell’“Unione montana Spettabile Reggenza dei Sette Comuni”, la presentazione del libro, chiedendogli di esserne il relatore. Lui, nativo di Asiago, ne fu soddisfatto. Accettò poi con sincera amicizia di far parte del Comitato scientifico del Centro studi ma, lo disse subito, senza partecipare alle riunioni, in quanto impegnato su troppi fronti. Nella stesura poi dell’ultimo suo libro, Don Carlo Liviero prete della Diocesi di Padova, mi teneva informato sulle notizie relative a Schiavon e mi chiese anche due foto delle manifestazioni contadine ad Asiago del 1909, che poi pubblicò. Sempre nel 2012 partecipò come relatore, con Giovanni Silvano e Francesco Jori, al convegno “Padova e provincia a inizio ‘900”, organizzato ancora dal Centro studi nella Sala Paladin di Palazzo Moroni a Padova.

Più recente invece è la mia conoscenza del professor Giuliano Lenci, pisano di nascita ma padovano d’adozione, ben conosciuto in città non solo per la sua lunga e competente attività di medico pneumologo, ma anche per il suo ininterrotto impegno civile e politico. Fu partigiano nel Corpo Italiano di Liberazione, dirigente dell’ANPI, presidente dell’Istituto Veneto per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea, consigliere comunale di Padova e apprezzato ricercatore storico, autore di articoli e pubblicazioni di storia locale e nazionale, promotore della creazione del Museo del Risorgimento e dell’Età Contemporanea. Ci incontrammo alla prima presentazione del mio libro, nel 2005, nella sala antica del Consiglio Provinciale: si presentò e, con la sua inconfondibile parlata toscana, si congratulò per avergli fatto scoprire un personaggio così eccezionale, che lui non conosceva. Da buon storico, subito mi chiese se nelle mie ricerche avessi incontrato Gregorio Ricci Curbastro, noto matematico padovano, sul quale stava scrivendo. Purtroppo non gli fui di aiuto.

Anche lui si innamorò di Sebastiano Schiavon: era meravigliato di quello che aveva saputo fare in pochi anni, soprattutto a favore delle classi più deboli e per questo, io credo, lo sentiva molto vicino alla propria sensibilità. Si offrì più volte di presentare il mio libro sia a Padova che in provincia, nelle scuole superiori, e accettò con entusiasmo, che malgrado l’età ancora provava, di far parte del nostro Comitato scientifico. Rammento che andavo sempre ad aspettarlo in via Palermo, dove abitava. Si univano a noi Adriano Baroni e, qualche volta, Gianpaolo Romanato. Tutti insieme ci recavamo, in automobile, alle riunioni da Alberto Schiavon, in via Uruguay.

Lo ricordo con simpatia l’8 settembre 2012 quando lui, ormai ultranovantenne, con la lunga barba bianca e il bastone, partecipò all’inaugurazione della mostra fotografica itinerante “Padova e provincia a inizio ’900”, nel chiostro dei salesiani a Monteortone. Gli avevo chiesto se desiderava, in quell’occasione, parlare della pellagra traendo spunto da una fotografia esposta. Lui, come al solito disponibile, accettò subito. Come si può vedere dalla fotografia, seduto sul muretto del chiostro ci illustrò in modo esauriente, e nello stesso tempo piacevole, tutte le caratteristiche di quella malattia endemica, in questo modo:

“Dal Settecento ai primi anni del ‘900 si manifestò nelle zone rurali del Nord Italia, in particolare in quelle più povere del Veneto e del Friuli, una malattia la cui genesi venne solo tardivamente con precisione individuata nelle sue vere origini.

Nel complesso quadro clinico dominavano disturbi psichici e nevritici, con confusione mentale e perdita dell’intelletto e costante associazione di segni infiammatori della cute nelle parti più esposte alla luce, di tale specie (pelle agra) da aver dato alla malattia il nome introdotto nella letteratura medica italiana nel 1771.

Le frequenti e gravi alterazioni mentali obbligarono al ricovero in ambiente manicomiale, in cui allora i pellagrosi costituirono la massima rappresentanza. La pellagra venne ben presto collegata alle condizioni ambientali di miseria, ma senza una precisa identificazione della causa fondamentale, anche se non mancarono via via osservazioni mirate alla concomitante scorretta alimentazione e soprattutto a quella esclusiva ed eccessiva di mais, di regola 2-3 chili di polenta al giorno, senza aggiungere verdura, frutta od altri indispensabili prodotti.

La malattia colpiva circa il 30% della gente di campagna, non di rado associata all’alcolismo, esprimendo in massimo grado la realtà di quell’epoca dei casoni e di proprietari terrieri non disponibili ad un vero cambiamento delle condizioni di quei lavoratori.

Soltanto dopo l’unità d’Italia, nel 1881, il governo intraprese alcuni provvedimenti e poi, in età giolittiana, obbligando alla denuncia dei casi accertati. Ma la pellagra continuerà ad essere presente nel Veneto quando in tutto il resto d’Italia era scomparsa. A Padova funzionerà il dispensario antipellagroso fino agli anni venti del secolo scorso. Nel lungo dibattito condotto sulla genesi della pellagra si differenziarono varie ipotetiche posizioni, da quelle che imputavano l’avvelenamento di mais avariato (ad esempio col sostegno di Cesare Lombroso) ad altre che negavano un rapporto con il mais (di questa errata idea fu anche il celebre Stefano Jacini nella sua inchiesta sul Veneto).

Ma in sostanza per lungo tempo sopravvisse quanto il padovano Francesco Luigi Fanzago (1766- 1826) aveva indicato nel primo libro interamente dedicato a questa singolare malattia, distinguendo i particolari segni e sintomi, intuendo che la pellagra era dovuta alla esclusiva presenza di mais nella dieta.

La pellagra, ormai ben individuata come una malattia da carenza alimentare, ebbe la sua definitiva identificazione dopo le ricerche del 1937 dell’americano Conrad Arnold Elvehjem. La causa della malattia fu dunque attribuita allo scarso o mancato assorbimento di vitamine del gruppo B, in particolare niacina o vitamina PP (Prevenzione Pellagra), pressoché assente nel mais, così come il triptofano necessario per la sua sintesi.

Scomparve dunque anche nel Veneto questa singolare malattia, che aveva dato alla nostra regione la triste immagine di sofferenze prodotte dall’ingiustizia sociale”.

Ho brevemente ricordato questi due amici, conosciuti nel segno della storia locale, dei quali avverto l’assenza per il legame personale che si era creato. Erano entrambi convinti estimatori di Sebastiano Schiavon e la conoscenza più approfondita del personaggio ha fatto sì che, con diverse angolature, si sentissero vicini a lui.

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