Istriani, dalmati, giuliani: l’esodo dei duecentomila

Perseguitati e profughi per colpe non loro: un dramma di cui è ancora difficile parlare

Le immagini più eloquenti della tragedia pensiamo le abbia date Indro Montanelli, quando scrisse che quelli del confine orientale erano “gli italiani migliori” e parlò poi di una “corona di spine” calcata sulle loro teste, in quanto furono gli unici a pagare, e duramente, la sconfitta della Patria nel secondo conflitto mondiale.

Vengono regolarmente alla mente quelle emblematiche espressioni, ogni anno, e così è stato per il 10 febbraio scorso, “Giorno del ricordo”: della pulizia etnica praticata dal regime comunista di Tito in quelle terre che già furono Italia – Venezia Giulia, Istria, Dalmazia, Fiume – e dell’esodo che secondo alcune fonti fu di 350mila persone, ma che sicuramente ammontò a oltre duecentomila.

Il peso subìto da istriani, dalmati, giuliani fu duplice: fuga dalle loro terre, abbandonando case, beni, tombe dove riposavano i familiari, le loro campagne, le loro chiese; poi, una volta in un’Italia libera, ma ancora percorsa dalla spirale dell’odio di una parte politica che guardava a Oriente, a quell’esempio luminoso di libertà e di democrazia che si chiamava Urss, Unione Sovietica delle Repubbliche Socialiste!

Qui conviene aprire una parentesi a uso e consumo degli immemori.

Prima della rottura di Tito con Stalin, il Pci tacciava di fascisti tutti coloro che, nelle terre del confine orientale tolte all’Italia e cedute alla Jugoslavia, parlavano di dittatura, di mancanza di libertà, di sopraffazione, di esecuzioni indiscriminate. Accadde poi che, ad operai di Monfalcone con tessera Pci andati a lavorare in Jugoslavia… mal gliene incolse, in quanto dopo lo strappo titino da Stalin finirono in galera assaggiando, per così dire, il sapore della realtà politica, sociale, umana di quel “paradiso dei lavoratori”, a Goli-Otok, l’Isola Calva!

Erano diventati “fascisti” anche loro, agli occhi del regime jugoslavo?

Perché una delle aberranti convinzioni di quei duri e puri nostrani era che chiunque non fosse comunista era necessariamente fascista. Questa mia non vuol essere polemica, ma soltanto… Storia, che non è maestra di vita, perché chi ha occhi e orecchie foderati dall’ideologia nulla vuole sapere e imparare.

Ma torniamo al ricordo di quell’esodo, perché tale fu, per dimensioni numeriche e per privazioni materiali, sofferenze morali. Abbandonate abitazioni, beni, in certi casi affetti, dopo avere vissuto tempi di paure e di violenze, di terrore e di morte, ecco questi sventurati raggiungere l’Italia libera, in nave, sui treni, con mezzi di fortuna. Un’Italia nella quale un minimo di pietà, un minimo di solidarietà, un minimo di aiuto i nostri compatrioti se li aspettavano. Eppure…

Eppure, ecco la seconda umiliazione, il secondo duro colpo subiti. Indifferenza, se non avversione da parte di non pochi militanti comunisti. Avvenne allo sbarco dei profughi nei porti di Venezia e di Ancona, con aperti atti di ostilità da parte dei militanti del Pci. Ancora più clamorosa fu l’accoglienza alla stazione ferroviaria di Bologna, il 18 febbraio 1947, dove un treno merci sul quale viaggiavano profughi sbarcati ad Ancona restò bloccato sui binari senza che agli addetti della Pontificia Opera Assistenza e della Croce Rossa fosse permessa la distribuzione di un pasto caldo, nemmeno a vecchi e bambini. Furono lanciati sassi e minacciato uno sciopero dei ferrovieri, se quel convoglio non fosse immediatamente ripartito. Il che avvenne, e soltanto alla stazione di Parma quegli sventurati poterono rifocillarsi…

Quale la fine dei profughi? Furono accolti in 109 campi allestiti in varie parti della penisola mentre in ottantamila presero la via dell’emigrazione, dall’Australia al Canada. In seguito all’esodo, in Istria interi villaggi restarono spopolati; da Pola, Capodistria, Parenzo, Orsera, era fuggito il novanta per cento della popolazione di etnia italiana.

Tanti anni dopo, un esponente di punta di quel partito comunista che aveva definito “fascisti” gli sventurati dell’esodo (che appartenevano a tutte le classi sociali), Giorgio Napolitano, assurto alla carica di capo dello Stato, avrebbe riconosciuto lo “status”, per così dire, di perseguitati e profughi, senza peraltro pronunciare parole di biasimo o di condanna nei confronti dei suoi compagni del Pci di allora.

Si ha un bel dire: il contesto storico, la guerra fredda, il retaggio del fascismo, eccetera. Ma un po’ di cuore? Un po’ di umanità? No? No. Non ci furono! Perché l’ideologia prevalse sull’umanità.

Per cui, se adesso ricordiamo quell’esodo, preceduto dagli infoibamenti, dalle uccisioni compiute nei modi più svariati ed efferati dai titini, quello che a noi più duole, e stringe il cuore, è costituito dall’indifferenza, dagli atti di ostilità compiuti contro quei profughi. E più che mai sentiamo nel profondo quanto sia condivisibile quell’espressione di Leon Bloy, che così suona: “A stare dalla parte dei perseguitati, non si sbaglia mai”. Ieri, come oggi. Sempre.

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