Piero Brombin, esploratore Ideo-Ecologista

Tra note biografiche e riflessioni critiche, un ritratto dell’artista padovano

Piero Brombin nasce a Padova il primo giorno di primavera del 1938. Si definisce Ideo-Ecologista fin dalla nascita (è nato sotto un albero di sequoia). Esplora l’Arte in tutte le sue declinazioni ma è nell’Arte di Vivere il suo progetto più vero. Si forma presso l’istituto Pietro Selvatico tra il 1950 e il 1955, frequentando il corso di Architettura, e cominciando già allora a lavorare come disegnatore in alcuni importanti studi professionali, come quello di Marcello Checchi, docente presso l’Istituto Pietro Selvatico (1). Prosegue poi gli studi per Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna dal 1956 al 1959. Negli stessi anni collabora con Luigi Saccardo (1927-2004) artista e designer, che ne chiede la collaborazione, vedendone il talento. Ciò gli permette di pagarsi gli studi e di conoscere tra le altre cose il settore dell’Arredamento, industria in quegli anni trainante e dinamica per l’Economia del Paese (2).

Nel 1957 vince per il Concorso per la Scenografia e viene selezionato, con altri sette studenti di tutte le Accademie di Belle Arti, d’Italia dal Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma: tale accredito lo porterà l’anno successivo alla partecipazione come inviato speciale alla XIX Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia: un amore per la cinematografia sperimentale che lo accompagnerà per tutta la sua vita artistica, fino ai giorni nostri. I disegni della scenografia sono realizzati per l’opera Le Cocu magnifique, farsa in tre atti di Fernand Crommelynck (3). Brombin per tali illustrazioni si rifà al Costruttivismo Russo con cenni al Minimalismo. La scena infatti si riduce ad una quinta di brevissima profondità, da cui emerge una panca e null’altro, mentre la schiena della scena si sviluppa pressoché in un unico piano. In essa si distinguono puri elementi geometrici (cerchi, quadrati e linee convergenti), su tracciato di sezione aurea. Il minimalismo è però mitigato dal trattamento a tessitura sfrangiata a trama di iuta di alcune superfici di tale schiena. Sempre con le medesime qualità la tenda di scena, che si vede accostata sul margine destro in primo piano, con funzione di sipario.

Scrive l’Artista a presentazione del suo lavoro:

Il mio principale scopo è stato quello di non inserire sul palcoscenico alcun elemento pieno che potesse creare dello spazio inutilizzabile con la sua superficie. Altro mio scopo è stato di creare tutta una zona di azione al centro della scena, nella quale l’azione potesse direttamente svilupparsi; costruendo un telaio in legno che delimitasse quello che si può dire la struttura del mulino. Questo telaio costruito solo nelle parti perimetrali mi consentì di rendere più visibile il più possibile l’azione teatrale. Altra soluzione fondamentale di questa mia scenografia è stata quella di rialzare il piano di azione sopra il livello del palcoscenico in modo che la costruzione venga a trovarsi al centro del boccascena del teatro come si trattasse di una costruzione pittorica. Di questa, la parte inferiore, e cioè la zona dove i vari attori debbono agire, è stata risolta a tavolato con grandi fessure; una rampa ed una scaletta mi porta al piano superiore, anche questi elementi sono risolti con tavole di legno; due grandi telai di legno dipinti di nero sono poi disposti sul davanti. Sul fondo una grande ruota di ferro, che allude sia al mulino, sia a questa sorta di frantumazione degli elementi. Infine dovevo risolvere il problema di come chiudere questa composizione tutta in una atmosfera che desse una luce adeguata; questo è stato risolto con grandi pannelli di gesso bianco, uno sul fondo e due laterali.

Il riferimento è preciso e diretto alla creazione scenica della «biomeccanica» dovuta al regista Meyerckol’d (4).

Brombin così continua:

Le impalcature valsero per l’attore come attrezzi di palestra che gli permettevano di proiettare i suoi ritmi dinamici, di scatenare la sua destrezza atletica. La recitazione veniva creata con movimenti meccanici e mimici che alludevano al ritmo dei macchinari e degli ingranaggi in seguito alla scenografia. Gli attori erano vestiti con costumi ricavati dalle tute da lavoro e portavano in testa larghi cappelli da contadini. È così che il teatro assume l’aspetto di una complessa industria in cui l’attore diveniva un ingranaggio inserito in queste complesse costruzioni sceniche che diedero al teatro d’avanguardia, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, un impulso forse maggiore che gli stessi testi letterari. E noi siamo grati a questi maestri del loro insegnamento dei loro sforzi e delle loro brillantissime idee la cui vitalità è tuttora vivace e stimolante. In teatro il cosiddetto creatore scenico utilizza liberamente sia la pittura che l’architettura; esso non deve essere assoggettato a nessuna norma di stile, deve creare con assoluta libertà di azione, trascurando qualsiasi norma prestabilita. Per questo a lui tutto è lecito in un processo che condurrà il suo lavoro alla pari di tutte le arti figurative e con l’arte del drammaturgo. I suoi mezzi saranno oltre che pittorici, plastici; la stilizzazione che fonderà questi diversi elementi, presentata ad un pubblico attonito. La verità però è che la parte scenica se vuol essere veramente libera non può non essere in contrasto con quanto richiede l’opera teatrale, nel suo complesso. È anche certo che oggi queste teorie non hanno trovato molte applicazioni direi anzi che si è rimasti ad una scenografia barocca, cioè con predominio pittorico che tende a lasciare da parte gli elementi della spazialità. Ed è con questa scenografia che si vedrà dove i vari artisti imposteranno la loro scena, con queste basi che gli condurranno ai pericoli di un dilettantesco stile ornamentale e che finiranno col portare la scena alle leggi drammaturgiche, allo spirito del dramma, non perseguendo così ad uno suo scopo ma che finirà coll’ essere sopraffatto dalle leggi della regia. La premessa di Crommelynck sulla parte scenografica del suo «Magnifico cornuto» è molto semplice. Esso la descrive come un vecchio mulino adibito ad abitazione, con grandi pareti imbiancate a gesso, scale che conducono a piani superiori ed alle stanze, due grandi finestroni nella parete davanti, porte, mobili, ecc. Ora si poteva benissimo attenersi a questa descrizione per essere letteralmente fedele al testo dell’autore, ma considerate le ragioni che ho esposto sopra, ho desiderato creare le scene secondo mie idee e realizzare una costruzione che non fosse per niente legata all’opera letteraria.

Si segnalano di questo periodo diversi altri premi. Alla Biennale Giovanile d’Arte di Cittadella (Padova) Brombin vince il primo premio, con medaglia d’oro. Il quadro si intitola Natura morta con drappo rosso. La composizione si sviluppa con piani in ribaltamento in campiture piatte come nel primo Cubismo alla Georges Braque. Al centro della scena una fruttiera con un grappolo d’uva, posta su tavolo con tovaglia, in affaccio su finestra aperta con i due oscuri aperti sui lati. Brombin riduce gli oggetti a pure siluette, puntando ad una sintesi figurativa per accostamenti, negando la spazialità in profondità. Vale a dire che diversamente dal Cubismo pone in essere una sorta di galleggiamento delle forme su un unico piano, portando l’immagine finale ad una sintesi decorativa e olografica, se non nel rovesciamento sul piano verticale del cesto della fruttiera, che si contrappone agli altri piani e che per sovrapposizione indica una certa profondità di campo. Si notino anche le decorazioni del copritavola che probabilmente hanno ascendenze nello studio dell’arte gestalitica: pura tessitura come il modulo ripetitivo delle scandole degli oscuri; evidente interesse per gli accostamenti di superfici, più che per le costruzioni di volumetrie tridimensionali.

Alla Mostra di Pittura Città di Bassano (VI) è secondo. Nel 1959 partecipa alla XIII Biennale d’Arte Triveneta di Padova. Il Gazzettino di Sabato 31 Ottobre 1959, così ne descrive l’opera: Pur nella riduzione estrema della forma plastica a piani nudi e larghi di colore, variato su note cupe e basse di rosso bruno, ci paiono costruite con intelligenza e misura le due operette del padovano Pietro Brombin. In sostanza, anche in quest’opera l’Artista preferisce la riduzione delle forme ad apparato decorativo olografico. Partecipa alla Biennale Nazionale d’Arte di Verona.

Nel 1959 Augusto Micaglio, proprietario dell’albergo Stella d’Italia a Sottomarina (VE) commissiona a Marcello Checchi l’ampliamento della hall d’ingresso, che affida ai suoi giovani alunni tra cui Piero Brombin, la decorazione della parete esterna verso la Piazza (5).

Il programma decorativo è fissato con precisione dal committente, avente come tema le forme marine della ristorazione, da eseguirsi nei colori accesi veneti e in materiali aventi durabilità. Il risultato sono cinque grandi pannelli murari decorati con ceramiche sgargianti, rendono ancora oggi unico e ricco di valore il prospetto di questo albergo. (…)

L’opera che maggiormente attira lo sguardo e la curiosità dei passanti è quella posta all’ingresso sulla piazza, eseguita dall’architetto Piero Brombin; il più ricco e vasto intervento tra quelli realizzati, dotato di nove piccoli sottogruppi ceramici: in alto gli elementi naturali come il mare, ottenuti con incisioni zigzaganti che rievocano le increspature delle onde, le gocce sospese a mezz’aria dell’acquazzone estivo che dura un soffio per poi lasciare spazio al sole, i cui raggi cocenti terminano con dei cerchi rossi. Sotto ancora un gruppo di figure geometriche e poi la tipica vista della spiaggia: una lunga fila di capanne disposte parallelamente alla costa (come si vede in molte cartoline dell’epoca, mentre oggi vengono collocate ortogonalmente al litorale) generava pannelli continui con la sagoma scura dei tetti delle capanne a schermare la visione della riva del mare. Questa forma è tipica delle spiagge del Lido di Venezia e della Sottomarina anni ’50/’60, quando l’arenile non aveva ancora raggiunto la profondità attuale. Nel cielo sole e luna si baciano in un unico tondo, metafora di una città dello svago che non conosce riposo nel periodo estivo. Ancora geometrie, segni, bolle (che lui definisce crateri, generati da un effetto della cottura non propriamente voluto dall’artista) e infine, nel settore più basso, due maschere bifronte risaltanti in una cornice a punte, un’illusione ottica che fa percepire allo stesso tempo due profili ravvicinati o un unico volto, gli occhi costituiscono la medesima faccia ma il cambiamento cromatico porta la mente a distinguere due entità separate. La fascia inferiore riporta tre pesci: nel primo la grande lisca di un pesce dei fondali una sogliola con gli occhi nello stesso lato le spine perpendicolari all’asse centrale come la struttura urbanistica di Chioggia; due pesci più stilizzati a destra, con sembianze quasi umane. I nove sottogruppi hanno dimensioni diverse, non sono regolari ma hanno bordi a volte arrotondati a volte spigolosi. Il tutto si presenta in forma astratta e con una solida logica geometrica, figure lievemente in rilievo utilizzando una vasta gamma cromatica che esprime in maniera evidente il chiarore solare, la luce marina e gli elementi del folklore chioggiotto; il cliente dell’albergo, il passante che si reca in spiaggia, sono accompagnati nel loro percorso da queste macchie di colore, le stesse che ritroverà sul lido. Brombin rievoca l’astrattismo di Paul Klee, specie nei gruppi geometrici e nelle texture, e Picasso nell’intento cubista della rappresentazione umana e dei pesci.

Nel 2017, l’edificio subisce una radicale ristrutturazione e i pannelli ceramici vengono smontati, restaurati e collocati nell’androne di ingresso al Residence che prende il posto dell’albergo. Sempre a Sottomarina Piero Brombin esegue altre opere, delle quali restano solo testimonianze fotografiche essendo state distrutte. Come l’arredo per il Caffè Caracas in viale Veneto, conosciuto come bar BAC dall’acronimo del proprietario Boscolo Aldo Caporale. Brombin ne realizza il bancone, con il suo apparato decorativo che venne realizzato con una tecnica d’avanguardia in vetro dipinto rappresentante il viaggio del caffè: sagome nere stilizzate raccolgono i semi di caffè dagli alberi nelle foreste sudamericane su lunghissime scale a pioli , nel settore centrale enormi ceste di semi vengono condotte al di là dell’oceano mediante due piccole imbarcazioni e nell’utilizzo parte cinque omini con cappello, seduti alti sgabelli, gustano il caffè attorno al tavolo di un bar. L’opera risale alla metà degli anni ’60, profondamente diversa in stile da quella osservata alla Stella d’Italia, artisticamente più matura, ma la raffigurazione umana stilizzata, i profili e lo sguardo bianco sul volto nero sono elementi ricorrenti in numerose sue opere. L’artista sta aveva eseguito anche una decorazione superiore, a nastro, che s’intravede immagini ma non si riesce a distinguono con chiarezza. Il bar Caracas è stato gestito da Aldo Caporale fino al 1962, anno nel quale decise di spostare l’attività in centro a Chioggia; con i lavori di ammodernamento venne smantellato il bancone, del quale rimangono solamente alcune foto in bianco e nero provenienti dall’archivio della famiglia Gibin che ha successivamente gestito il bar.

Un’altra opera andata perduta, della quale purtroppo non è sopravvissuta alcuna documentazione fotografica, è l’apparato decorativo della pescheria “Ai pesci vivi” in piazza Todaro a Sottomarina; la proprietaria, Elsa Bonaldo, amica di Brombin, gli commissionò la decorazione in piastrelle ceramiche. Le poche testimonianze orali raccolte dai commercianti adiacenti, parlano di un rivestimento ricco di animali marini, pesci, stelle e cavallucci smaltati e lucidi che fuoriuscivano dalla superficie ceramica, con colori talmente vividi da essere visibili dalla strada; il verde e il blu ne facevano da padroni. La pescheria, aperta nel 1965 e attiva esclusivamente nel periodo estivo, venne presto chiusa e venduta, con la successiva demolizione delle ceramiche artistiche di Brombin.

Nel 1960 fonda il gruppo “Il Prisma” con Mario Pinton, Nerino Negri, Paolo Meneghesso, Amedeo, Armando e Maria Grazia Lazzaroni, Millo Bortoluzzi, Enrico Schiavinato e Renato Vanzelli: il gruppo opera al di fuori di una corrente artistica, rifiuta una poetica comune e sostiene “la discussione aperta, lo scambio di idee e la volontà affermata di agire in profondità” (6). Il gruppo avrà il suo esordio presso il Palazzo della Borsa (attuale Camera di Commercio) con la Mostra: “Omaggio a Padova”, con le opere aventi come tema le diverse interpretazioni della città.

Dal 1960 al 1963 frequenta il Primo Corso Superiore Sperimentale di Disegno Industriale “New Venice College of Industrial Design” a Venezia: Nel 1960 eravamo in 13 iscritti al Primo Corso Superiore di Disegno Industriale a Venezia, dove insegnava Scarpa, E. N. Rogers, S. Tintori, I. Zannier, M. Albini e T. Maldonado. Alle lezioni di Carlo Scarpa eravamo sempre in quattro, perché era terribile il suo controllo: arrivava fino al controllo di come facevamo la punta alla matita, “di legno” assolutamente e solo di una marca, perché oltre alla qualità della grafite era per Scarpa la sommatoria estetica data anche dal colore e dall’inclinazione della proporzione dell’inclinazione del taglio fatto con la lama (7). Nel 1960 entra nello studio di Carlo Scarpa e vi permane fino al 1963, collaborando a diverse opere tra le quali il Padiglione Veneto dell’Esposizione Italia 61 a Torino, il negozio Gavina a Bologna, il Padiglione Italia della Biennale di Venezia.

(1- Segue)

Note al testo

(1) Marcello Checchi, Padova 21.10.1911 – 23.11.1993; architetto. È stato presidente dell’Ordine degli Architetti dal 1945 al 1947, successivamente Consigliere dal 1957 al 1949 e dal 1949 al 1953. Docente di Disegno di Brombin presso l’Istituto Selvatico.. Ha partecipato alla costruzione del Quartiere INA-Casa “Egidio Forcellini” sotto il coordinamento di Giulio Brunetta, ha progettato il restauro di Villa Vescovi a Luvigliano. Insieme a Renato Iscra e Gaetano Luciani pianifica per l’Impresa Grassetto il Quartiere Conciapelli. Si vedano i testi: Padova di Mario Battalliard, edizioni CFP, Limena, 2016 e Matteo Doria, Gli esordi artistici e professionali di Piero Brombin, in Chioggia, rivista di studi e ricerche, n. 54, maggio 2019.

(2) A Luigi Saccardo si devono le decorazioni presso la Trattoria al Pero, Padova, 1952; le ceramiche del caffè Candido, Ponte di Brenta,1952; le decorazioni dell’ingresso della Torre Medoacense, Padova, 1956; l’atrio del Cinema Biri, Padova, 1954; e molti altri interventi, anche fuori città. Si veda l’ottima documentazione a lui dedicata in: Padova anni Cinquanta, Architettura e Spazio Urbano di Enrico Pietrogrande, Gangemi Editore, Roma, 2023; pagina 363 e seguenti. Sicuramente da Saccardo Piero Brombin assorbe parte dell’espressività e la capacità di agire dalla pittura alla ceramica. Matteo Doria, in op.cit., segnala che Brombin in questo periodo esegue anche lavori come vetrinista per la PAM.

(3) Fernand Crommelynck, (Parigi,1886 – Saint-Germain-en-Laye, 1970) drammaturgo, attore e sceneggiatore belga di lingua francese. La sua opera si caratterizza per il linguaggio di un realismo paradossale, con esiti tragici. Le Cocu magnifique, la sua opera maggiore, fu presentata per la fu presentata per la prima volta il 18 dicembre 1920 a Parigi al Teatro de la Maison de L’Œuvre. Da essa è stato tratto il film diretto da Antonio Pietrangeli nel 1964 Il magnifico cornuto. Pablo Picasso, che conosceva Fernand Crommelynck, nel 1968 realizzò 12 acqueforti e acque-tinte che ne illustravano la trama.

(4) Vsevolod Ėmil’evič Mejerchol’d, Penza, 9 febbraio 1874 – Mosca, 2 febbraio 1940. Sulla creazione della biomeccanica si veda il libro a cura di Fausto Malcovati: Vsevolod Mejerchol’d, L’attore biomeccanico; Ubulibri, 1996.Si tratta dei testi fortunosamente salvati da Eisenstien dopo che Mejerchol’d, accusato di Trotskismo, fu prima torturato e poi fucilato da Stalin.

(5)Gli altri artisti protagonisti sono: Lino Salvato e Maria Grazia Lazzaroni; Alessia Boscolo Nata. I riferimenti sono in: Piero Brombin a Sottomarina in Chioggia, rivista di studi e ricerche, n. 54, maggio 2019.

(6) Articolo di Paolo Franceschetti Nerino Negri scultore, in Padova e il suo Territorio, Anno XXXII, Maggio-Giugno, 2017.

(7) Carlo Scarpa, ricordato da Piero Brombin, in Architettura e Design Rivista…. 19xx. Il testo continua con: di una matita non se ne doveva usare più della metà. Non c’erano “mozziconi” nello studio di Scarpa: sul suo tavolo, come sul mio, con la carta da schizzi fatta arrivare dalla Germania, c’era una grande quantità di matite. L’immagine richiamava i quadri dell’americano Saul Steinberg. Anche questo per lui era lezione.

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