Il silenzio degli IMI
Gli Internati Militari Italiani dopo l’armistizio: nella vicenda esemplare di un padre
rivive una pagina di storia a lungo dimenticata
Parlare del silenzio di chi è ritornato dai campi di concentramento potrebbe divenire, almeno per me che amo troppo la scrittura, un modo per “inflazionare” il silenzio stesso. Operazione utile se fosse una scelta calcolata di vita, un metodo di comodo per rifiutare le proprie responsabilità. Ma in realtà quel silenzio rivela un male di vivere, un disagio esistenziale conseguente al vissuto tragico in quei campi e come tale merita di essere indagato, in un discorso che ne rivaluti la giusta valenza. Questo è il silenzio a me noto, per la mia esperienza personale di figlia primogenita di un padre Internato Militare Italiano (IMI), e quindi da ascoltare con rispetto, come voce che viene da un lontano profondo. Il silenzio degli IMI reduci è quello di chi si sente in colpa di essere sopravvissuto, di chi ha pudore a riferire ciò che ha subito, di chi teme di far soffrire chi gli è vicino, di chi pensa di non essere creduto in una narrazione storica troppo tardi decifrata obiettivamente, di chi non riesce a reinserirsi nella vita civile abbandonata molto prima e diventata altra, di chi deve riconquistarsi il proprio territorio affettivo. Inizialmente i familiari che vivono intorno a loro, conoscendo poco di quanto accaduto nell’orrore di quei campi (ricordiamo che le lettere venivano sottoposte a censura), ne avvertono la sofferenza e cercano di aiutarli con la vicinanza, la comprensione, il colloquio in questa difficile fase iniziale. Non sapevano neppure delle diverse condizioni di vita di quei 650 mila e più: per esempio che gli ufficiali vennero più tardi costretti al lavoro, tanti altri invece furono da subito sfruttati in modo barbaro in luoghi invivibili, a prezzo della loro stessa salute. Quindi il loro è un silenzio dai molteplici significati, proprio di chi ha un peso dentro tale da non riuscire a ricreare il rapporto umano nemmeno nella propria stessa famiglia, in cui un figlio piccolo poteva considerare come intruso e non riconoscere come padre quell’uomo che si “intrometteva” nell’habitat domestico turbandone l’equilibrio, chiedendo un affetto che invece doveva lentamente riconquistarsi.
Nel mio caso magica è stata la creazione, da parte di mio papà, della casa delle bambole, tutta di legno e dotata di ogni comfort, di una grotta e delle casette per il presepio, di composite scatole porta-cucito reinventate dalla sua intelligenza e dalla sua manualità, in quel periodo postbellico, anche per dimostrarci di più il suo amore: patrimonio, poi, delle mie sorelle e della famiglia.
Le condizioni esistenziali per gli IMI all’inizio erano pertanto difficili, aggravate dal fatto che – come detto – non volevano parlare della loro inenarrabile esperienza: espressione di una dignità raccolta nel silenzio del dolore. Ecco, sì, ritornando a mio padre, ascoltavo di nascosto nei suoi incontri con gli amici reduci (Guelfi, lo zio Leone, Gruden, Paci…) le parole piene di sconforto, sentivo i loro pianti insieme per essere sopravvissuti e vivevo altre manifestazioni indecifrabili per me, bambina, quali la messa domenicale: tutti vestiti con rispetto, a Terranegra, nel Tempio dell’Internato Ignoto, nome inquietante per me, per loro luogo comune del ritrovo, del ritorno, della rinascita.
Lentamente, però, proprio quel senso di amicizia che li aveva tenuti uniti nel campo di concentramento, che aveva impedito loro di cadere in forme tremende di depressione, si rinsaldava ancor più con il ritorno a casa e, contemporaneamente, rinasceva anche con altri amici padovani abitanti in via Gabelli, in via Rinaldi, o con alcuni parrocchiani di Santa Sofia. Questa è stata la sua, la loro salvezza, che ha permesso di riconquistare la propria dimensione umana. Per tale motivo, e lo ricordo bene, la mia casa era sempre piena di persone che mia mamma, con la sua sapienza infinita, riuniva proprio per restituire a mio papà quel calore affettivo, quella fiducia nella quotidiana convivenza di cui aveva bisogno. Ma i suoi silenzi, le sue assenze e malinconie, le zone d’ombra e luce, il suo amore possessivo, quasi geloso della famiglia e di noi figlie, in particolare di me primogenita, verranno compresi troppo tardi. Tale gelosia può trovare, ora, una sua spiegazione in una forma di paura e d’ansia di perdere il bene ritrovato, di spezzare la sua ancora di salvezza. Così il colloquio a cuore aperto, irrealizzabile allora per ignoranza dei fatti e per la sua morte anzitempo nel 1981, a 68 anni, in un altro campo di internamento (quello ospedaliero), è avvenuto solo grazie alla poesia:
È già scoccato il tocco quando / dei padri quel segreto si disvela. / Amaro incantesimo dell’esistere.
Poesia che mi permette anche di ricostruire, nella mia primissima raccolta, un’interpretazione personale del suo vissuto nella casa per lui balsamo, attorniato da queste figlie bambine che crescevano fiorendogli la vita, sullo sfondo del suo orto seguito con devozione: rivelando però sempre quel filo di mestizia, quella dimensione minimale data alle cose, una diversa visione dell’esistenza segnata da quel male oscuro che lo ha accompagnato fino alla morte. E proprio nel mondo della poesia incontrerò, per quei casi inaspettati, Luciano Macchini, un suo compagno di prigionia che, più giovane di lui e abile pianista, aveva vissuto quel periodo in modo meno angosciante. Vorrei che fosse qui, vivo, accanto a me, per sentirlo direttamente parlare della generosità di mio padre che divideva i suoi pacchi con i compagni, della sua operosità e manualità nel cucire scarpe, mostrine, bottoni delle divise, perché tutti loro ufficiali mantenessero quella dignità che i carcerieri cercavano in ogni modo di sopprimere. Ne riferirò quando dirò di altri incontri, di altre scoperte che mi apriranno gli occhi sul mondo degli IMI e mi offriranno l’occasione, grazie allo studio appassionato di mio marito Massimo, per testimoniare su questa trascurata e denigrata pagina di storia nel libro “La grande storia in minute lettere” (Valentina Editrice, 2017). Ma ritorno ora alla poesia, che già nella prima strofa comunica la conoscenza di fatti nuovi: la tragica fine di quegli internati che, smemorati, andavano a stendere i fazzoletti sui reticolati, dove li coglieva la morte assassina.
AMARO INCANTESIMO
a mio padre Gino
Nel crepuscolo lento
mi aleggia dentro, padre,
l’inquieto del tuo spirito
per la sofferta sosta in campi
plumbei, prigioni della vita
ove crisalidi di sangue
sui reticoli del morire
erano visioni del tuo vivere.
E l’ansia sento placarsi
nell’invocata casa, balsamo
all’anima ora più chiara.
Oh giorni ai Lari devoti
nel tempio degli affetti,
sereni al diramare
d’erba del tuo prato,
senza colmare d’oro
gli otri delle ore.
Oh giorni di sorrisi tersi
per schiudersi in corolle nuove
l’infanzia nostra, rosa ormai sfiorita.
Ma nella memoria del sentire
un mesto leitmotiv di note,
suono a me allora oscuro:
era il trainare quel tuo male
antico peso, stretto sempre dentro.
È già scoccato il tocco quando
dei padri quel segreto si disvela.
Amaro incantesimo dell’esistere.
[da Dell’azzurro ed altro, 1998]
Oltre gli affetti ritrovati, oltre l’amicizia vera, anche l’amore per la natura è divenuto per lui un dono salvifico: gli ha purificato l’anima, lo ha ricondotto in frequenti rivisitazioni ai luoghi d’origine a Villatora, proprio in virtù di quell’amore per le radici che ognuno ha in sé, rinsaldando la filiera affettiva con i genitori e tutta la famiglia di origine. Molto più tardi, a Rosapineta, questa sua attenzione al Creato si manifesterà in tutta la sua valenza: nella devozione alla dicondria del prato, ai tamerici composti in siepe, alla brezza marina, al sole, al mare come elementi primi di una antica filosofia che è rimasta in me, nel ricordo dei giorni trascorsi insieme pur nel presagio della sua fine vicina, e che rivivo in questi versi:
Ora che sento / l’umile splendore / delle note pure / su cui modulare / il canto maturo, / la mia zona segreta / da pudore dischiudo / e ghirlande intreccio / d’amore e dolore, / dono tardivo per filosofo antico.
Versi che mi permettono di parlargli ancora, in un colloquio filiale che va oltre il tempo stesso, come confessione della mia comprensione tardiva del suo segreto ma, anche, come un ringraziamento per l’eredità in me lasciata.
PER FILOSOFO ANTICO
a mio padre Gino
È in me cupo lamento
il tuo andare sofferto
tra respiri di vento
su tenui grappoli di tamerice.
Fiaccato ogni giorno di più
la vita cercavi
nell’oro-azzurro
di spazi solari
di scaglie marine
accesi smalti d’elementi primi.
Terra fuoco acqua aria
erano il tuo pentagramma
per musica d’anima
pastorale antica
d’accordi-costumi del vivere
in armonia soave con l’universo.
Ora che sento
l’umile splendore
delle note pure
su cui modulare
il canto maturo,
la mia zona segreta
da pudore dischiudo
e ghirlande intreccio
d’amore e dolore,
dono tardivo per filosofo antico.
[da Dell’azzurro ed altro, 1998]
Però nella poesia, nella forza della parola intima che si fa voce, ho recepito il modo per colmare questi suoi silenzi, lenire queste ferite (anche fisiche, come l’enfisema retaggio dei campi), stemperare le incomprensioni generazionali e sciogliere i nodi di un periodo storico travagliato. Così ho potuto esaltare la vitale religione, in lui e in molti altri, nei grandi ideali perseguiti, documentati nei suoi scritti, quali la fede, l’abbandono fiducioso alla provvidenza, l’amicizia già citata, ma anche il senso di appartenenza ad un insieme e l’affettuosità per quella Padova così cara al mio cuore perché
… la città più vera erano le mani / la voce del padre della madre / che ci conducevano per quegli spazi / della vita come luoghi dell’anima…
Ecco, non potrei capire mio padre avulso da quella casa di via Aristide Gabelli, dalla famiglia, da quella strada, dall’amicizia con Orazio e Jolanda, la Giannina, dall’affetto fraterno con il cognato Leone e altri amici: nelle loro conversazioni hanno sgranato quel rosario di contraddizioni di un’Italia difficile da comprendere, persino ora, nella sua storia e nelle sue scelte, ricomponendole in un’accettazione anche dell’incomprensibile. Solo alla morte di mia madre, con la scoperta di quel sacro carteggio tra loro, abbiamo potuto ricostruire e capire il cammino di questi IMI che hanno pagato per la loro fedeltà al giuramento di soldati e la resistenza passiva, o meglio reattiva, al nazifascismo: una pagina di storia molto complessa, espressione di un’Italia divisa fra chi collaborava con i tedeschi e quanti invece resistevano, nei campi di concentramento, a pressioni psicologiche di ogni genere, magari venendo considerati dagli altri dei traditori. E allora questa considerazione mi si dilata poi alla storia di tutto il Novecento, che è quanto mai composita e crudele, ma questo porterebbe il discorso lontano, a ricercare le cause remote della difficoltà di un popolo nel ritrovare la propria identità.
La comprensione del vissuto degli IMI diverrà però chiara e completa con lo studio della memorialistica, sollecitato dalla frequentazione del giornalista Giovanni Lugaresi, che ha ben delineato questa pagina storica rivalutandola nella sua verità scrivendone sulle pagine di “Per l’Italia” dell’Associazione Nazionale Combattenti Reduci Federazione di Padova e nella stessa “Lampada”, il Bollettino del Tempio Nazionale dell’Internato Ignoto di Padova, ma soprattutto nei suoi rapporti con Giovannino Guareschi registrati in numerosi suoi scritti. Il che mi riporta un caro ricordo, quello di una sera in cui siamo stati da lui invitati ad accogliere Carlotta Guareschi, figlia del celebre scrittore, per condividere i ricordi dei nostri padri: un incontro impedito, all’ultimo momento, da una nevicata copiosa che bloccò la circolazione dei treni.
in questa “storia del silenzio” voglio ricordare i tanti nomi autorevoli che hanno condiviso sacrifici, momenti di cultura e di invenzioni piacevoli, di speranza, nell’impegno di difendere sempre la propria dignità di uomini: Enzo Paci, Giovannino Guareschi, Gianrico Tedeschi, i patavini Giovanni Contarello, Oreste Guelfi, Vittorino Gruden, Leone Schiavon…
E consolante come una preghiera, / divino nutrimento all’anima / tra voi nella camerata a sera, / la linfa-logos dei Grandi che scorre / scavata da Paci il filosofo, / captivo d’uguale destino, / voce-riaccensione di sé ed altri / in archetipi-comune appartenenza / all’umano procedere sempre / oltre il limite delle baracche / oltre lo sguardo folle del presente [da “La grande attesa. Campo di Benjaminow n. 5437” in Fragmenta, 2006].
Quest’ultima strofa è un richiamo, e un invito, a passare il testimone a noi figli e ai nipoti, affinché ci impegniamo nella comprensione di questo e di ogni periodo storico oltre lo sguardo inerte dell’indifferenza.