Il canto della tradizione orale nei repertori dei cori

Un patrimonio di testi che permette di approfondire e comprendere molti aspetti e vicende della nostra storia

Si definisce tradizione orale il sistema di trasmissione, replicazione e rielaborazione del patrimonio culturale in un gruppo umano, esercitato attraverso l’oralità, senza l’utilizzo della scrittura.

Il riferimento sociale principale è al mondo contadino non acculturato che da sempre e per ultimo ha comunicato di padre in figlio con l’oralità, la quale ha sempre rappresentato il sistema privilegiato, rapido e immediato di trasmissione del sapere.

La società contadina cantava, scandendo i momenti dell’anno, della settimana e della giornata; i luoghi della vita famigliare o collettiva (la casa, il cortile, la chiesa, il lavoro) diventavano sedi naturali per la condivisione canora.

La tradizione orale comprende quindi forme che da un lato riguardano tutti i linguaggi   relativi al lavoro e alle arti e dall’altro forme quali narrazioni, miti, canti, frasi, leggende, favole, rime ecc.

Il canto, rispetto alle altre forme orali, si fonda su due elementi paralleli e dallo stesso peso specifico: il testo e la melodia. Dal punto di vista dell’apprendimento la melodia, per la sua immediatezza, ha senz’altro più chances nella memoria rispetto ai testi. La struttura melodica dei canti di tradizione orale è, per la sua semplicità, molto funzionale ad essere ricordata perché insiste spesso sui gradi congiunti nella successione delle note e gli intervalli sono facili da prendere e memorizzare.

Il sapere del canto in modo particolare, prima del progressivo prevalere nel secolo scorso della riproduzione tecnologica sulla trasmissione orale, ha sempre viaggiato “verticalmente” (in senso generazionale, quindi nel tempo) e “orizzontalmente”, quindi nello spazio, in senso storico.

Nella famiglia contadina i figli hanno appreso, nelle varie età, i canti sia dai genitori che dai nonni, trasmettendoli “verticalmente” alle generazioni successive. In questo contesto le melodie si sono conservate bene e i testi si sono modificati poco: entrambi sono giunti a noi nelle loro integrità sostanziale, anche perché geograficamente sono rimasti in territori omogenei. Un esempio significativo è Quel mazzolin di fiori, il cui testo e melodia (già attestate in uno scritto del 1870 [1]), si sono mantenuti, nei passaggi generazionali invariate.

I grandi eventi storici come le guerre e, in forma differente, le migrazioni che hanno costretto intere generazioni a vivere insieme, sradicate dalle famiglie e per lunghi periodi, hanno fatto sì che, “orizzontalmente”, i canti si siano trasmessi in un contesto di confronto e di narrazione condivisa; i protagonisti hanno dunque appreso nuovi canti e nuove versioni delle melodie e dei testi conosciuti. Le trasformazioni dei testi è causata anche dalle variazioni fonetiche delle parlate e dialetti; le melodie, a seconda dei gruppi di provenienza, possono avere rilevanti cambiamenti nei ritmi e nei modi di esecuzione. Per quanto riguarda le guerre è significativo l’esempio del vecchio canto ottocentesco La ragazza guerriera (2) che, durante il conflitto 1915-18, mantenendo la stessa melodia, attualizza il testo, pur insistendo sul tema della donna travestita da soldato, con il titolo La si taglia i suoi biondi capelli.

Nella prima versione, presente in varie regioni italiane e anche in altri paesi europei, si narra un ribaltamento di ruoli e la ragazza si offre al posto del padre/fratello per andare in guerra. Arrivata al fronte, il figlio del re (dell’Imperatore, del capitano), dubitando del sesso, la sottopone a varie prove dalle quali lei esce senza tradirsi. La figura della donna-guerriera  appartiene all’immaginario archetipo della femmina adolescente, forte e coraggiosa che non perde la sua femminilità, anzi la preserva per l’uomo che riuscirà a sposarla. Non a caso in alcune versioni piemontesi della ballata si sottolinea la verginità della ragazza che resta tale pur a stretto contatto con il mondo maschile.

Nella lezione cantata dai soldati nella Grande guerra entrano elementi significativi di contestualizzazione: il Piave, il tenente, la baionetta, il battaglione, gli imboscati. Il testo con la melodia figura in varie raccolte.

Un altro esempio è il canto narrativo Maledizione della madre (3) molto diffuso in tutta l’Italia settentrionale nella prima metà dell’Ottocento. Il tema riporta la storia di una ragazza che vuole sposare il re di Francia (o altro personaggio) senza avere il consenso della madre e si stacca dalla famiglia; disobbedendo rimane vittima della maledizione e muore attraversando a cavallo il mare o un corso d’acqua. Nella seconda metà dell’Ottocento il testo, che si snoda su una melodia uguale, è stato riadattato in seguito all’emigrazione contadina verso il Sud America: è il noto Mamma mia dammi cento lire dove il contrasto con la madre non riguarda più la richiesta di matrimonio, bensì il denaro necessario ad emigrare.

Per avere un quadro d’insieme sulla complessità del canto tradizionale in Italia, vale la pena riprendere in sintesi alcuni fondamentali elementi che costituiscono la base di studio etnomusicologico di Roberto Leydi (4), che aveva individuato alcune macro-aree in Italia:

Un’area mediterranea/meridionale che comprende la Sicilia dove i canti hanno un impianto spiccatamente melodico con tendenza ad uno sviluppo melismatico; in essi si fa uso di larga prevalenza dell’esecuzione solistica e i testi hanno moderata prevalenza di caratteri lirici; i testi con carattere narrativo sono spesso in forma di storie lunghe, in grado di sviluppare la vicenda in più episodi, con digressioni descrittive e interventi commentativi, non raramente con conclusioni moralistiche […]

L’area settentrionale (Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia, Veneto) dove i canti hanno un impianto melodico-tonale (con base modale di tipo nord-europeo); vi è una forte presenza di esecuzione corale in forma di polivocalità con predominio di impianti strofici con ritornelli; in essi figura larghissima presenza di repertorio narrativo in forma di ballata europea. […]

Si aggiunge un’area centrale in cui i canti hanno anche connotazioni originali, ma spesso composite in riferimento a stilemi provenienti sia dal sud che dal nord. I canti hanno impianto melodico con forti predisposizioni alla decorazione e al virtuosismo melismatico. Il tipo dominante di esecuzione è solistico e, nel territorio toscano, caratterizzato dall’uso polivocale a imitazione strumentale. Il metro dominante è l’endecasillabo e il fondo del repertorio è prevalentemente “lirico (con presenza di forme quali lo strambotto e lo stornello); presente il materiale narrativo in forma di ballata probabilmente derivata dal nord. […]

Un caso a sé per connotazione stilistica è rappresentato dalla Sardegna, i cui canti conservano elementi arcaici, basandosi sul mutu e il muttettu; caratterizzati per lo più dal metro settenario, i canti hanno carattere “lirico” su base modulare e sono eseguiti con voce sola con accompagnamento di chitarra. […]

Trasversali a tutte le culture delle aree italiane, in base alle funzioni sociali del canto di tradizione orale, Leydi (5) individua i seguenti generi: Ninne nanne, rime e giochi infantili. Canti rituali connessi con la religiosità. Canzoni a ballo e balli strumentali. Serenate, stornelli, strambotti, canti lirici e satirici, canti numerativi. Contrasti. Canzoni narrative. Canti di lavoro e sul lavoro. Canti sociali e politici in cui si possono inserire i canti sulla guerra e i canti di guerra.

L’interesse scientifico per il canto di tradizione orale si sviluppa in Italia nell’Ottocento e lo sforzo per documentarlo, ricercando le fonti e compilando raccolte antologiche, ha spesso ubbidito alle necessità di valorizzare la varietà di documenti in ambito nazionale, con fini politici in senso unitario.

Non a caso a pochi anni dall’Unità d’Italia sono attivi in un contesto etnomusicologico Costantino Nigra (6), Giuseppe Pitré (7), Giuseppe Ferraro (8) che raccolgono i testi, con alcune indicazioni melodiche dei canti, nelle prime raccolte sistematiche; stesso scenario negli Imperi centrali del primo novecento, dove l’attività degli studiosi come M. Gräfin Pace (9) era tesa a dimostrare una coesione sociale che in realtà si stava sfaldando.

Con l’Unità d’Italia e il regno dei Savoia, la leva militare accomuna le sorti di milioni di uomini provenienti dall’intera penisola. Gli interventi bellici coloniali tra la fine dell’‘800 e la guerra di Libia del 1911, già costituirono i presupposti di un esercito italiano che obbligava soldati provenienti dalle varie regioni a convivere e a conoscersi.

Il caso della Prima guerra mondiale, che si pone nella storia come evento limite per il numero degli Stati e dei mobilitati, l’ampiezza dei tempi, l’estensione geografica e le generazioni coinvolte, ha rappresentato un incrocio significativo per gli scambi di sapere.

Con l’intervento italiano del 1915 si trovano mobilitati in centinaia di reggimenti misti gli uomini ritenuti abili provenienti da tutta la penisola. Sono presenti due generazioni tra gli arruolati e ognuno di loro reca con sé il sapere di tradizione orale che, anche relativamente al canto, rispecchia la varietà culturale geografica italiana.

I soldati (appartenenti per la grande maggioranza al popolo contadino) partono per il servizio militare e per la guerra con il bagaglio personale di cultura fondata sulla tradizione orale, sia in senso linguistico (con la conoscenza dei dialetti prima ancora dell’italiano) sia in senso narrativo (canti, leggende, frasi, favole, miti…).

Si impone a tutti i livelli la necessità di capirsi e condividere le esperienze; nasce l’italiano popolare che si riflette anche nei tanti canti eseguiti durante la guerra.

Agostino Gemelli (10) scrive:

[…] Il soldato porta con sé da casa sua questi canti, queste pratiche superstiziose, questi usi. Ma essi nella vita militare assumono una nuova fisionomia per un processo di adattamento al nuovo ambiente. Così i nostri alpini hanno canti, superstizioni, modi di dire che sono propri della vita dei cacciatori, dei montanari di determinate valli, dei contrabbandieri; manifestazioni che nella vita militare assumono in tutto o in parte un nuovo contenuto riferentesi alla nuova vita. Inoltre il soldato presenta una capacità meravigliosa di trovare motti, espressioni, canti per esprimere una situazione. […] La vita in comune, prolungata per mesi e mesi, il fatto che ciascuna unità vive una propria vita quasi autonoma – il che vale specialmente per le truppe alpine – fa sì che fra i soldati una parola, un canto acquistino in breve tempo diritto completo di cittadinanza. […]

L’uniformità e la costanza dell’ambiente, la relativa uniformità delle azioni, il mutarsi relativamente lento dei compagni permette lo stabilirsi di queste manifestazioni, così come nei clan dei popoli primitivi. Se non che i contatti continui fra unità ed unità e gli scambi degli uomini fra di essi rendono possibile il trasmettersi di usanze e di forme di linguaggio. […]

Al canto solistico spesso si sostituisce il canto di gruppo all’unisono, in cui diventa emotivamente essenziale il poter condividere nell’attimo e nell’intonazione le parole cantate e il loro significato.

Questo esprime la volontà di essere vicini, un corpo unico, nel momento del pericolo e della lontananza da casa.

Si imparano vicendevolmente i canti degli altri, si aggiungono varianti musicali, ma soprattutto testuali, inserendo nuove strofe che raccontano i momenti della guerra.

Dalle molteplici raccolte di canti della prima guerra mondiale si evince che una parte considerevole dei canti non avevano un testo inerente la guerra, ma raccontavano amori a volte contrastati, ma più spesso felici; ciò a testimonianza della volontà di evadere dalla tremenda angoscia quotidiana.

Si può presumere che nei momenti relativamente più tranquilli delle seconde linee e dei periodi di riposo, gruppi abbastanza omogenei di soldati (e soprattutto di alpini) cantassero anche in semplice forma polifonica con sistema omoritmico, secondo schemi imparati dai loro nonni e padri. In alcuni casi, in località montane che hanno mantenuto meglio la tradizione del canto collettivo, abbiamo ancora oggi qualche traccia significativa in senso storico-filologico di come si poteva cantare spontaneamente in forma polifonica.

Piero Jahier con Vittorio Gui, Carlo Salsa, Emilio Lussu, lo stesso Benito Mussolini nelle loro raccolte, diari e memorie testimoniano la pratica del canto spontaneo.

Già durante la guerra e a maggior ragione dopo la sua conclusione vengono pubblicate una notevole quantità di raccolte di canti, quasi a cementare con la scrittura il perpetuarsi della memoria di canti narranti le vicende vissute in comunità durante il conflitto.

Un riferimento centrale di grande significato è il lavoro dello scrittore-tenente degli Alpini Piero Jahier che, in unità di intenti con il musicista Vittorio Gui (entrambi al fronte), pubblicano Canti di soldati, uscito nel 1918 (a guerra in corso) sulla rivista «L’Astico» e a Capodanno 1919 edito dalla Sezione P della I Armata in «Trento Redenta». In questo libro sono presenti, oltre ai testi, anche le musiche, trascritte a orecchio da Vittorio Gui: ciò costituisce un unicum per quei tempi; la maggioranza delle raccolte edite dalla fine Ottocento a tutta la Prima guerra mondiale infatti si limitano a trascrivere i testi con assenza della scrittura melodica.

Gli Alpini.

Già dalla fine dell’Ottocento in Africa e per tutta la prima metà del Novecento, nei reparti alpini mobilitati per le guerre si riscontra una provenienza regionale più omogenea, in quanto la maggior parte dei soldati sono originari dell’Italia settentrionale e ciò si riflette nel repertorio dei canti (piemontesi, lombardi, veneti e friulani), ma anche, per una parte di essi, nel tipo di esecuzione corale-polifonica.

Ma con gli alpini, che al rientro a casa si sparpagliano meno degli altri soldati, succede che il canto rimane patrimonio di gruppo, soprattutto maschile. Serve per condividere la memoria di esperienze e per rivendicare anche un ruolo patriottico nell’elaborazione della Vittoria.

E non a caso nasce proprio in Trentino l’esperienza promossa da Nino Peterlongo e dai fratelli Pedrotti con il coro della S.O.S.A.T. (11) a partire dal maggio 1926. Il valore assoluto dell’esperienza è la creazione di uno stile di canto che unisce, in quella terra di confine, varie origini e provenienze.

Alla fine della guerra i soldati, rientrando a casa fanno partecipi le proprie famiglie dei canti imparati e affidano la loro salvaguardia alla memoria delle donne, custodi da sempre della tradizione orale. Non a caso ad esempio ritroviamo repertori analoghi, anche se modificati, nei lavori di risaia da parte delle mondine. Succede dunque che il canto di tradizione orale riprende la verticalità dell’informazione generazionale.

Durante il ventennio fascista, si impone un nuovo repertorio di canto d’autore, originale sia nei testi che nella musica. Tracce di canto di tradizione orale lo ritroviamo nelle guerre d’Africa degli anni ’30, ma sostanzialmente in forme e contenuti simili a quelli della Grande guerra.

Negli anni ’40 è interessante invece il riapparire di melodie tradizionali nelle esperienze delle spedizioni in Russia, in Albania e inGrecia dove gli alpini furono protagonisti. In questi contesti il drammatico già visto dai padri nella grande guerra si sommò alle esperienze nuove dei figli. Vi sono variazioni di testo ed entrano nel repertorio anche canti patrimonio delle regioni interessate dalla guerra dove gli alpini furono protagonisti.

Un esempio calzante viene dal canto Sul ponte di Bassano ovvero Bandiera nera, che nella guerra 15-18 era diffuso con un testo dalle inflessioni venete in cui la bandiera nera è il simbolo degli alpini che vanno alla “guera”, non ritorneranno e il fazzoletto bianco dell’addio all’amata è un gesto di grande dolore.

Nella seconda guerra mondiale il canto divenne famoso nella versione che gli alpini ella Julia ne dettero in Grecia e in Albania: Sul ponte di Perati.

Ispirato al ponte di Perati, sulla Vojussa, al confine greco-albanese (che tra l’ottobre 1940 e l’aprile 1941 fu aspramente conteso fra greci e italiani) il canto (12) acquisì un nuovo testo con forte carica poetica.

Altrettanto interessante è il riapparire del canto di tradizione orale nell’esperienza resistenziale, che non a caso viene vissuta anche in quell’Italia settentrionale dove soprattutto gli alpini avevano tenuto “in cassaforte” i loro canti.

Proprio in riferimento al canto citato Bandiera nera / Sul ponte di Perati, l’identica melodia riappare nella guerra di resistenza in valle dell’Arma (Cuneo) con un testo scritto da Nuto Revelli con titolo Pietà l’è morta (13)e nell’Appennino romagnolo per opera della formazione partigiana “Maiella”, divenendo Sul ponte fiume Sangro (14), inno ufficiale di quel gruppo di partigiani abruzzesi.

Dagli studi di valenti ricercatori come Savona e Straniero risultano documentati una quarantina di canti della Grande guerra identici nella melodia, ma variati nei testi.

Se 25 anni prima quei canti furono patrimonio anonimo di un intero esercito in cui si riflettevano talvolta identità di corpo (alpini, bersaglieri, fanti…), nelle versioni resistenziali gli autori dei nuovi testi sono spesso noti e narrano le vicende dei piccoli gruppi presenti, a macchia di leopardo, in tante zone italiane.

All’indomani della seconda guerra mondiale inizia l’irrevocabile trasformazione sociale del mondo moderno in cui il mondo contadino si avvia a rappresentare un riferimento periferico; la ricostruzione e il boom economico, l’istruzione per tutti e la televisione, soprattutto in Italia, fanno presto passare in secondo piano la centralità secolare della tradizione orale.

Quei canti sopravvivono nella loro versione originale fino agli anni ’50 nelle stagioni lavorative delle mondine.

I cori Alpini restano gli unici depositari di un grande repertorio che, non essendo più corrispondente alla vita delle persone nella sua quotidianità, viene presentato in forma di concerto storico, dove le melodie sono elaborate dagli autori in senso armonico e polifonico.

Il Centro Studi Musica e Grande Guerra ha affrontato da alcuni anni la catalogazione sistematica delle raccolte (pubblicate a partire dai primi mesi del 1915 ad oggi) e dei singoli canti. Gli esiti attuali indicano in poco meno di 800 i documenti testuali e musicali inerenti la pratica del canto dei soldati italiani.

Note

1 Zeitschrift des Ferdinandeums für Tirol und Vorarlberg di Ludwig Horman. Il testo è composto da sei quartine scritte in lombardo e in italiano. Vedi Quel mazzolin di fiori, Museo degli usi e costumi della gente trentina.

2 C. Nigra, Canti popolari del Piemonte, Tipografia scolastica di Sebastiano Franco e figli e comp., Torino 1854, n° 48

3 Ibidem, n° 23.

4 R. Leydi, I canti popolari italiani, Mondadori, Verona 1973, pp. 15-23.

5 Ibidem.

6 C. Nigra, Canti popolari del Piemonte, Tipografia scolastica di Sebastiano Franco e figli e comp., Torino 1854.

7 G. Pitrè, Giuseppe, Canti popolari siciliani, Luigi Pedone Lauriel, Palermo 1870-71.

8 G. Ferraro, Canti popolari del Basso Monferrato, Luigi Pedone Lauriel, Palermo 1888.

9 M. Gräfin Pace, Gloria-Viktoria. Lieder gesammelt von M. Gräfin Pace, Buchschmuck v. M. von Malliczky, Steierm. Statthalterei, Graz 1916.

10 A. Gemelli, Il nostro soldato, Fratelli Treves, Milano 1917, p. 181

11 Sezione Operaia della Società Alpinisti Tridentini.

12 Sul ponte di Perati, bandiera nera: / L’è il lutto degli alpini che va a la guera. / L’è il lutto della Julia che va a la guera, / La meglio zoventù va soto tera. / Sull’ultimo vagone c’è l’amor mio / Col fazzoletto in mano mi dà l’addio. / Col fazzoletto in mano mi salutava / Con la sua bocca i basi la mi mandava. / Quelli che son partiti, non son tornati: / Sui monti della Grecia sono restati. / Sui monti della Grecia c’è la Vojussa / Col sangue degli alpini s’è fatta rossa. / Un coro di fantasmi vien giù dai monti / È il coro degli alpini che sono morti.

13 Lassù sulle montagne bandiera nera: / è morto un partigiano nel far la guerra. / È morto un partigiano nel far la guerra, / un altro italiano va sotto terra. / Laggiù sotto terra trova un alpino, / caduto nella  Russia con il Cervino. / Ma prima di morire ha ancor pregato: / che Dio maledica quell’alleato! / Che Dio maledica chi ci ha tradito / lasciandoci sul Don e poi è fuggito. / Tedeschi traditori, l’alpino è morto / ma un altro combattente oggi è risorto. / Combatte il partigiano la sua battaglia: / Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia! / Tedeschi e fascisti, fuori d’Italia! / Gridiamo a tutta forza: Pietà l’è morta!

14 Sul ponte fiume Sangro bandiera nera / è il lutto della Maiella che va alla guerra. / La meglio gioventù che va sotto terra./  Quelli che son partiti non son tornati / sui monti dell’Abbruzzo sono restati. / Sui monti della Romagna sono caduti.

Ti potrebbero interessare anche questi articoli

Sempre meno lettori in un mondo ogni giorno più complesso

Sono ormai decenni che si ripetono gli allarmi sul declino della lettura, una tendenza che appare sempre più rapida, marcata e irreversibile. Il web è pieno di articoli che esaminano in dettaglio la situazione ed è pertanto inutile, qui, ribadire…Continua a leggere →

Adulti educati e grati: una riflessione sul tempo presente

L’invito a rivolgersi agli insegnanti con un pensiero grato e le riflessioni del direttore Stefano Valentini, pubblicate nell’editoriale dell’11 settembre scorso su Il Popolo Veneto, assumono un significato particolare alla luce della pubblicazione del documento Education at a Glance 2024 dell’Ocse. I…Continua a leggere →

La Marmolada, Regina delle Dolomiti

Sin da piccolo ho avuto la fortuna di conoscerla e ammirarla così straordinariamente perfetta in ogni suo particolare. Quando desidero viverla, non faccio altro che uscire dall’uscio del Museo della Guerra che gestisco al Passo Fedaia e alzare lo sguardo…Continua a leggere →

Prigionieri di guerra inglesi in Veneto: il campo di Ponte San Nicolò

Senza l’importante contributo di ricerca di Rogers Absolom, che raccolse il suo lavoro nel volume A strange Alliance (La strana alleanza), oggi non avremmo un quadro esauriente di un fenomeno così complesso e diffuso come l’assistenza data da molte famiglie…Continua a leggere →

L’impegno di Sebastiano Schiavon contro l’analfabetismo

Nel biennio 1911-1912 Sebastiano Schiavon si trasferisce a Firenze quale dirigente dell’Unione popolare e dalla città toscana comincia a girare il centro e nord Italia per aprire uffici del lavoro, casse rurali, cooperative agricole, fondare sindacati cattolici dei lavoratori della…Continua a leggere →