Alfredo de Polzer, mio papà
Il ricordo di un uomo che affrontò in prima persona i giorni della grande alluvione polesana
Ho imparato il nome di Sebastiano Schiavon da un amico quanto mai qualificato, Massimo Toffanin, che un giorno mi ha chiesto: “Era tuo parente quell’Alfredo de Polzer che trovo continuamente nei miei studi?”. Sì, era il mio papà. “Se si fossero conosciuti sarebbero andati d’accordo”. Lo penso anch’io. L’uno anche politicamente cattolico, l’altro anche politicamente comunista. Sì, si sarebbero stimati.
Quel de Polzer nasce a Vienna nel 1904, padre viennese madre di Rovigo, famiglia cattolica, la sorella suora, lui rende onore alla terra e agli uomini che la lavorano. Non sarà un strapazzasiori, ma nemmeno un sior tanto normale. Prima di prendere in mano le terre va a lavorare come bracciante in una Azienda agricola austriaca, e vive le fatiche di chi cura la terra, gli orari, il sole che brucia, il freddo dell’inverno e il calore della stalla; e il silenzio dei campi la notte, o il gracidare quieto delle rane.
A Vienna si laurea in Scienze Agrarie, opta per la cittadinanza italiana, e viene ad abitare a Buso di Rovigo, sulla terra in cui realizzerà le riforme per cui lavorava anche politicamente. Rinnova tecniche agrarie, rivoluziona pazientemente le norme contrattuali, sempre un passo avanti rispetto alle leggi e al pensiero comune, consapevole che dare di più è nient’altro che giusto. Alza l’asticella della consapevolezza in chi lavora, promuove associazioni e cooperative, vive la sua passione sociale come un dovere, un dono necessario al suo Paese giovane. Intanto si laurea in Statistica Economica all’Università di Padova, e pubblica lavori sulla variegata realtà sociale del Veneto, in cui si inserisce sempre più profondamente.
Che fosse comunista nessuno lo metteva in dubbio, (anzi c’era chi gli rinfacciava un “tradimento di classe”) ma lui inizialmente non vi si riconosceva: le sue idee erano nate senza etichetta, in semplice coerenza con la giustizia che lo abitava. Lo hanno dovuto convincere.
Ha tentato Concetto Marchesi, il grande intellettuale Rettore dell’Ateneo di Padova, latinista, autore di testi fondamentali, fra i quali, non a caso, “Perché sono comunista”. Non so immaginare come non sia riuscito a fare breccia nel pacato professor de Polzer, ma comunque prima di rinunciare lo ha mandato a parlare con Norberto Bobbio: e lì le convinzioni di mio padre hanno trovato casa. Aveva pacatezza nel parlare, e ironia quando serviva, non offendeva nessuno ed era rispettato anche dagli avversari politici, cosa non frequente in tempi di lotte ideologiche acerbe.
Dopo la guerra viene designato, su mandato prefettizio, Presidente della Deputazione Provinciale di Rovigo, e alle successive elezioni del 1951 eletto Presidente della Provincia che nasceva allora. Millenovecentocinquantuno, l’anno tragico dell’alluvione. È novembre, piove dovunque, il Po sta crescendo. Mio padre conosce bene i barcaioli che abitano fra i rami del delta, è a loro che chiede cosa accadrà: “Tre giorni, e il Po è fuori”. Subito. Il Presidente della Provincia e il Sindaco di Rovigo si mettono a disposizione dell’Autorità per coordinare gli interventi dell’emergenza. “Coordinare cosa? Non abbiamo nessuna emergenza. Se ci sarà, interverremo”.
Nel Palazzo non arriva il rumore del fiume. Fuori sì. Si convocano Enti, Associazioni e Partiti politici per costituire un Comitato provinciale di emergenza, rispondono presenti in sala in 25, la UIL manda l’adesione, “dei partiti politici fu assente uno solo”. Ignoro quale. Si invitano i Sindaci a formare analoghi comitati locali, e la risposta è imponente, la generosità del Polesine è grande come le sue ferite. Nel terzo giorno dei barcaioli il Po rompe gli argini.
Della Grande Alluvione tutto il mondo ha parlato. Centouno i morti, 180.000 senza tetto, numeri impressionanti in ogni ambito, la tragedia del Polesine fa parte del patrimonio di dolore dell’umanità. Non ho nessun titolo per parlarne, ho solo i miei ricordi di bambina, dai contorni un po’ sfumati, qualche episodio più vivo. Uno in particolare, drammatico, di cui si può sorridere oggi, ma che testimonia quanto acerbe fossero davvero le lotte ideologiche in quel tempo. C’era un istituto, un orfanatrofio credo, dove le Suore custodivano dei bambini, il luogo era a rischio immediato, evacuazione subito, ma quelle sante donne si rifiutano inorridite: “Dovete passare sui nostri cadaveri, non siamo pazze a consegnare le creature proprio ai Comunisti che mangiano i bambini”. È dovuto intervenire il Parroco a spiegare, si sono salvati tutti.
Nel 2024 forse si pensa che fosse una barzelletta quella dei bambini mangiati, oppure non la si ricorda affatto, eppure era una bufala che si propinava davvero alle menti semplici; e io conservo un tenero rispetto per l’eroica maternità di quelle suore. E un’altra cosa ricordo, il processo a cui furono chiamati dalla denuncia del Prefetto il Presidente e il Sindaco, responsabili di abuso di potere per avere fatto senza permesso tutto quello che si doveva fare.
Come per Sebastiano Schiavon, un processo all’innocenza. Assolti.