La scomparsa di Aldo Tumiatti: lo ricordiamo continuando a pubblicare i suoi articoli storici

Due interviste, risalenti a mezzo secolo fa, ad una coppia di anziani artigiani di Ariano Polesine

È mancato il 9 febbraio, a 85 anni, Aldo Tumiatti, insegnante, direttore didattico, ricercatore e poeta di Ariano Polesine. I nostri lettori lo conoscevano come storico del territorio polesano, autore di ben nove libri e animato da una passione che lo ha portato a continuare a scrivere finché le forze lo hanno assistito: teneva moltissimo alla collaborazione con il nostro giornale e noi ne onoreremo la memoria continuando a pubblicare gli articoli – peraltro, sempre molto apprezzati da noi e dai lettori – che ci aveva mandato nel corso degli ultimi mesi. Tra questi, i due brani che pubblichiamo di seguito e che lui stesso ci aveva presentato così: “frutto di una intervista rilasciata 50 anni or sono da due anziani arianesi, artigiani, relativa ad aspetti della vita quotidiana riferiti al primo Novecento in senso lato, non cronologicamente ben definiti. Non appare sullo sfondo l’eco delle lotte contadine: sembra un contesto in qualche modo stabilizzato. È una fonte orale con limiti e pregi, comunque irripetibile nel suo genere”.

Alla moglie, e alle due figlie, le più sentite condoglianze da parte della redazione di Il Popolo Veneto.

Intervista gentilmente concessa, nel 1973, da Giuseppe Guzzon (1892-1986) su taluni aspetti della vita quotidiana nei primi anni del Novecento.

Conosciutissimo per la sua abilità di falegname, mestiere cui è stato avviato al termine della scuola elementare come apprendista. Rimasto attivo fino all’età di 90 anni, è stato insignito del titolo di Cavaliere Ufficiale della Repubblica. La Camera di Commercio lo ha fregiato di medaglia d’oro al merito per aver insegnato l’arte a centinaia di allievi. Ha risposto con la consueta affabilità, precisione gentilezza, aggiungendo dettagli, dando prova di possedere, al pari di Adele Bolzoni, un’ottima memoria.

… La maggioranza della gente viveva in case disagevoli, basse, formate da una o due camere. Il focolare era a legna. Le pentole di terracotta erano appese a una catenella posta sopra una graticola. Le famiglie più misere abitavano nella periferia del paese, in un agglomerato di catapecchie detto la Ca’ Negra.
I palazzi erano abitati dai signori Sartori, Petrelli, Violati, Zadra.

Gli appellativi scambiati tra gli abitanti delle opposte sponde di Ariano e Arianino per il gusto della provocazione erano rispettivamente “Papalini!”, cui seguiva di rimando “Veneziani!” spesso seguiti da brevi e sprezzanti battute. La domenica e il lunedì di Pasqua e per tutta la settimana seguente, giovani e anziani affluivano in piazza il mattino e il pomeriggio e si dedicavano alla gara della cozza delle uova sode. La durezza del guscio veniva accertata picchiettandolo leggermente sugli incisivi. Non mancavano tentativi di brogli (uova svuotate e riempite di cera fusa). I truffatori ricevevano insulti e minacce. Ne nascevano zuffe con calci e pugni.

Tutte le donne si dedicavano alla spigolatura del frumento. Si alzavano anche all’una di notte per giungere in anticipo nei campi dove i covoni stavano per essere trasportati alla trebbiatura. Le spighe rimaste a terra e raccolte venivano legate con una cordicella, poi buttate sulle spalle. Il ritorno a casa avveniva spesso tra canti, canzonature e allusioni a vicende sentimentali. Un avvenimento particolare era la cosiddetta tamplà. Donne e ragazzi si radunavano nei pressi della casa di chi aveva avuto disavventure coniugali e lì facevano chiasso percuotendo con bastoni coperchi e lattine. Le vittime prese di mira non reagivano.

La sera del 7 agosto, festa di San Gaetano, si estraeva la tombola alle sette di sera. Seguivano i fuochi d’artificio. Era un periodo in cui si poteva disporre dei soldi incassati dalla mietitura del frumento. Talvolta, sui balconi dei palazzi Zadra e Turrin, ai lati della piazza, si alternavano i musicanti col suono di pezzi d’opera. Alcune persone, spinte dal bisogno, passavano di casa in casa chiedendo la carità. Ricevevano qualche fetta di polenta. Erano diffusi i furti campestri. Si rubava qualche sporta d’uva per farsi un po’ di vino in casa e qualche uovo nei pollai.

I residenti in campagna si rifornivano d’acqua nel Po con una botte. Ogni tanto passava di casa in casa un cantore ambulante, una specie di menestrello. Raccontava delle storie per 20 centesimi alle famiglie. Tutti restavano incantati, specialmente i bambini. Nel paese funzionavano due o tre sale da ballo. Tra gli esuberanti campagnoli e i non meno riottosi cittadini scoppiavano liti frequenti. Se durante il carnevale aumentavano i prezzi, i giovanotti per protesta fermavano il ballo, piazzandosi in mezzo alla sala. L’orchestra suonava invano. Il pavimento era di pietra o ricoperto daun tavolato di legno. Nel paese c’erano due bande musicali.

Intervista del 1973 ad Adele Bolzoni su taluni aspetti della vita quotidiana nei primi anni del Novecento

Nata il 14 luglio 1866 ad Ariano, dove è vissuta per quasi novant’anni, ha frequentato la scuola elementare fino alla terza, un record per i tempi. Ha sposato il 21 novembre 1904 Antonio Tumiatti, classe 1882. Rimasta vedova nel 1915, ha cresciuto i suoi tre figli (Ellero, Basiliola, Anna) con dedizione e sacrificio. Alle domande, formulate in modo semplice, ha risposto senza incertezze, dimostrando di possedere una memoria lucida e pronta.

… Ad eccezione dei palazzi Sartori, Zadra, Turrini, Violati-Tescari e il municipio, le case del paese erano piccole e basse. Per il riscaldamento d’inverno e la quotidiana cottura dei cibi c’era il focolare a legna. Nelle abitazioni mancavano i servizi igienici, sostituiti dall’orinale o vaso da notte. Chi poteva si appartava in un casotto di canne oppure in un luogo isolato lungo l’argine del Po. Gli escrementi erano accumulati in letamai, per essere sparsi come concime negli orti o nelle campagne.

I popolani del vicino Arianino litigavano spesso con gli arianesi ai quali talvolta impedivano il libero passaggio sul ponte. I papalini non gradivano che i veneziani andassero da loro. A volte i più scalmanati si scambiavano offese o provocazioni per un nonnulla: “Venessian dall’acqua forta – figura porca…”. (Siamo ad un livello essenzialmente popolaresco, strapaesano, residuo di antiche rivalità, o semplicemente gusto di fare dispetti). Verso la fine di giugno – metà luglio le donne, in gran maggioranza, si alzavano verso le 2-3 di notte per andare nei campi a spigolare il frumento. Percorrevano vari chilometri a piedi. I percorsi più lunghi arrivavano anche a 10-15 chilometri tra andata e ritorno. Le preziose spighe, legate in fasci con cordicelle di canapa, erano buttate dietro le spalle. Poi piano si usarono le biciclette. Partivano in gruppo e tornavano a casa sfinite, anche dopo 6-8 ore in media, intonando canzoni.

Durante l’assenza dei genitori i bambini, ad evitare pericoli per la loro incolumità (ustioni, incendi o altro), venivano affidati in custodia a donne di casa, in cambio di un piccolo compenso. In questa specie di asili privati si insegnava anche a leggere e scrivere. Alcuni restavano tutto il dì. Avevano a disposizione un ampio cortile per correre e giocare. A mezzogiorno mangiavano la merenda portata da casa. Gli asili di questo tipo erano tre. Ciascuno ospitava in media 25 bambini.

Era molto diffuso il gioco del nascondino, o quello delle palline di terracotta. Queste, deposte sul terreno, venivano spinte per mezzo di colpetti dati a turno da ciascun giocatore con il dito indice o medio e dirette verso una piccola buca contenente, per premio, dei bottoni (susine) che diventavano proprietà del vincitore. Spesso i piccoli giocatori, quando restavano senza bottoni, li strappavano dalla giacca o dai pantaloni.

Durante l’inverno e quando non si lavorava, se non c’era niente da mangiare, si bussava alle porte delle famiglie più abbienti, per chiedere in carità un po’ di cibo. L’intervistata ricorda una bambina che diceva di avere il padre ammalato. Invece era in prigione per furto di legna. Uscito dal carcere, raggiante annunciò “Non verrò più in carità perché mio papà è ritornato a casa!”. Il buon cuore non mancava: si dava un po’ di pane e un po’ di minestra. Se non c’era nulla, si rispondeva senza cattiveria: “Andé in nom di Dio”. Non c’era sfrontatezza, ma quasi vergogna, perché si era spinti dal bisogno. Non erano persone dedite all’accattonaggio, ma povere, in temporanea difficoltà.

Erano diffusi i furterelli. Si andava in campagna nelle proprietà dei contadini per procurarsi un po’ di legna e, se capitava, si arraffava qualche gallina. Mancavano i soldi per comperare la legna. I carabinieri, che giravano notte e dì, arrestavano gli autori dei furti se colti sul fatto (per lo più donne) e li trasportavano col carretto trainato da un cavallo in caserma. La gente accorreva al loro passaggio e diceva: “Andén a vedar, che i è drio purtar qualcun in parsòn!”.

L’acqua del Po serviva per tutti gli usi. Poi comparvero i pozzi con acqua potabile, che si poteva prelevare a turno dalle 11 alle 12 di ogni giorno. Seguirono infine le pompe a mano installate dal Comune. Le secchie erano di rame. Se ne portavano due collocate alle estremità di un apposito bastone leggermente ricurvo, chiamato bàsul, posato sulla spalla. Chi abitava lontano, aveva una botte per deposito, sufficiente per una settimana. L’argine del Po di Goro era basso, un arginello, non come adesso. Grandi e piccoli, nella stagione calda, andavano a nuotare, sostando sulla spiaggia, antistante la piazza, o anche a lavarsi. Non mancavano purtroppo annegamenti. Le donne sciacquavano i panni lungo la riva. Venivano dalla campagna con carriole o anche con carretti trainati da buoi. C’era un gran via vai.

Nelle sere d’inverno, raccolti attorno al focolare (i bambini andavano a letto presto) gli adulti raccontavano delle favole. Le donne lavoravano a ferri per far le calze. In determinati periodi (festività natalizie, Capodanno, Befana) più famiglie si riunivano per giocare a tombola puntando 1 o 2 centesimi per ogni cartella. Coprivano i numeri con fagioli secchi. Gli uomini, altre volte, giocavano a carte per passatempo. C’erano anche due o tre sale da ballo. Ballavano di domenica. I suonatori stanziavano davanti alla chiesa parrocchiale. I giovani, terminata la funzione religiosa, si incamminavano dietro la banda e raggiungevano la sala. Il primo ballo era gratuito. Per i successivi l’uomo pagava 5 centesimi. Chi non ballava non pagava. Si suonavano valzer, polke, quadriglie e anche un ballo popolare chiamato menacò. Poche erano le sedie. Non c’era il bar. La passione per il ballo era enorme. Chi ballava (c’erano gli informatori), non riceveva la Comunione. (“Se balli, niente comunione”).

Il lunedì era il giorno di mercato. Venivano facilmente smerciate botti piene di sardine e aringhe. Gli acquirenti provenivano dalle campagne e dal Ferrarese. Tutte le bancherelle erano collocate nella piazza. Per andare ad Adria si doveva prenotare una carrozza a cavalli la sera prima. Trasportava 2-3 persone. I fanali dell’illuminazione pubblica erano alimentati a petrolio, poi a carburo o acetilene.

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