Gli incontri culturali: eventi o esperienze? Le ragioni per cui ricordiamo e l’esempio di Anna Politkovskaja

Il termine evento è entrato nel nostro linguaggio a indicare generalmente gli impegni culturali del prima o dopo cena: incontri con scrittori, scienziati, pensatori, politici, personaggi e personalità che hanno sviluppato idee interessanti e meritevoli di essere pubblicate.
Come intercettare il pubblico su quei 300 libri pubblicati quotidianamente nel nostro paese è compito degli uffici di comunicazione delle case editrici che si impegnano a confezionare presentazioni che possano distinguersi e richiamare attenzione grazie ad additivi come video, musiche, aperitivi o cotillons. E diventano eventi, cioè qualcosa di unico e talvolta acquistano la dimensione della durata divenendo mostre o installazioni.
Siamo richiamati da molti eventi: l’ultimo romanzo, il politico più pensoso, il filosofo più impetuoso, la celebrità di moda, il pettegolo più intraprendente, la poetessa più dolce. Ma se alla fine dell’anno ci chiedessimo quale evento ci ha interessato di più o ci ricordiamo meglio forse dovremmo ricorrere a un’altra categoria: quale di questi eventi è stata per noi un’esperienza da ricordare?
Rispondo per me: non dimenticherò mai il generale Gallardo, incontrato a Città del Messico nel 2004, durante un Congresso del PEN (l’Associazione mondiale di scrittori che promuove la Letteratura e difende la Libertà d’Espressione e quindi gli scrittori che sono minacciati, imprigionati e talvolta uccisi). Si è presentato con 13 scatoloni di lettere, cartoline, messaggi ricevuti da tutto il mondo dai membri della nostra associazione e ci ha tenuto a dirci che grazie ai nostri messaggi il trattamento persecutorio, volgare e aggressivo che riceveva in prigione era diventato più rispettoso. A quel punto i suoi carcerieri sapevano che il mondo li guardava, che il prigioniero valeva, che parecchie persone si erano prese l’affanno di scrivergli. Era accusato di aver offeso l’autorità, trattenuto senza processo con prospettive temporali infinite. I nostri biglietti hanno accorciato i tempi del processo ed è stato liberato. Quel che rese quell’evento così memorabile fu la novità dell’argomento, il calore del Generale e la sua gratitudine nonché capire quanto un piccolo gesto abbia potuto influenzare la sua vita.
Fu un’esperienza anche incontrare Anna Politkovskaja: non era il fatto che fosse una giornalista conosciuta – una celebrità nel suo campo – , era minacciata dalle autorità per la sua copertura della guerra di Cecenia, lei si sapeva in pericolo e noi sapevamo le sue condizioni di vita ma eravamo comunque impreparati al racconto. Era la sua postura professionale, la sua asciuttezza di parole, nessuna lamentela. Anche la sua presenza fisica parlava: era molto alta e sottile, capelli corti precocemente ingrigiti, altera nel comportamento ed elegante, non incline al sorriso, pensosa e piuttosto appartata come se fosse abituata a doversi guardare da curiosità inutili. Era coraggiosa, combattente come pochi altri nel suo paese, corrispondente speciale del giornale Novaya Gazeta, uno degli ultimi giornali indipendenti. Era diventata, a 48 anni, uno dei maggiori difensori dei diritti umani in Russia e combatteva una battaglia in solitario sui metodi che le autorità avevano adoperato in Cecenia e in tutta la Russia. Anna sapeva di essere sotto controllo (aveva già subito un avvelenamento) ma si garantiva la distanza necessaria per poter parlare liberamente in un paese che stava intensificando pressioni e chiusure sotto l’amministrazione del presidente Putin. La sua versione, quando parlava all’estero dove veniva spesso invitata, era quella di una guerra che definiva terrorismo di stato, in un clima di corruzione ufficializzata e di brutalità.

Ci aveva parlato di torture, esecuzioni di massa, rapimenti per ottenere riscatti, vendita di cadaveri di Ceceni alle loro famiglie per un funerale islamico, il tutto gestito da parte dei soldati russi. Una critica assoluta, senza tregua, degli abusi dei diritti umani delle truppe federali sul suolo Ceceno. Mentre l’ascoltavamo parlare andava crescendo, insieme all’ ammirazione e solidarietà, il timore per la sua vita: aveva un’aura di invincibilità intorno a sé ma non le bastò perché fu raggiunta da un colpo di pistola sulla soglia di casa, il 7 ottobre 2006.
E così, di anno in anno ai congressi del Pen ho fatto esperienze memorabili e inconsuete anche nel tono, come quella con Marcelo Otamendi, giornalista e scrittore del Marocco: con tono ironico si chiedeva perché ci fossero impennate di richieste di cure di mal di schiena. Aveva fatto indagini e aveva concluso che i picchi di mal di schiena corrispondevano ai periodi dell’anno in cui il Re viaggiava da una città all’altra – cosa che faceva con treno imperiale. Ricordo la sua finezza nel chiedersi se gli aumenti considerevoli di mal di schiena fossero dovuti agli inchini e flessioni al passaggio del treno del Re e lungo il percorso dove i cittadini erano tenuti a presenziare e onorare. Anche una critica espressa con ironia non l’aveva salvato e il suo attivismo era stato punito.
La tipologia delle esperienze è molto vasta, dunque, e va dalla novità del tema, dalla gravità del problema al tono del racconto, ai gusti personali di chi le vive e le racconta, dal coinvolgimento che crea chi le offre. Ci sono esperienze che ti chiamano all’interno del loro mondo e altre che ti allontanano, quelle che fanno di te un fedele partecipante e quelle altre che si perdono nella quantità di eventi. La costante delle esperienze che durano è la carica di passione, di empatia e di raziocinio che hanno mobilitato chi ne parla e quindi chi ascolta, la capacità di aprire finestre e attingere a lingue, culture e tradizioni guardando lontano. Come se fosse la voce dell’anima.
