Politica: oltre l’aritmetica del voto elettorale
Alcune considerazioni sul consenso e sul crescente astensionismo
Le elezioni europee in Italia hanno offerto risultati piuttosto chiari in ordine alla consueta classifica tra vincitori e perdenti: ha vinto la Presidente del Consiglio con il suo partito (cosa piuttosto rara tra tutti i paesi che sono andati al voto), ha vinto il Pd che è andato oltre i risultati di 5 anni fa e quelli delle politiche 2022, ha vinto l’Alleanza Verdi Sinistra con uno straordinario incremento dei voti; hanno perso i 5 stelle, hanno perso Renzi e Calenda che hanno buttato 1,6 milioni di voti non raggiungendo il quorum, si sono difesi Forza Italia e Lega.
Ma il segnale negativo per tutti è l’ulteriore riduzione degli elettori. Una volta si giustificava il calo dei votanti con una certa maturità dei sistemi democratici: non essendo più in gioco questioni capitali, essendo in sicurezza il sistema, era ritenuta normale una minore partecipazione. Sappiamo che non è così; la continua diminuzione del voto è segno di un profondo malessere: scarsa fiducia, delusioni, promesse mancate, paura del futuro, povertà del dibattito pubblico, leader che parlano esclusivamente ai propri tifosi piuttosto che all’intera opinione pubblica.
Proviamo a fare questo esercizio: calcoliamo le percentuali di consenso non sui votanti ma sugli aventi diritto al voto. Ne riportiamo un panorama sconfortante, in cui anche i vincitori finiscono per apparire molto più deboli. Con questo conteggio arriviamo a questi dati: Fratelli d’Italia 13,53%, Pd 11,31, M5S 4,99, Forza Italia 4,52, Lega 4,23, AVS 3,15, e via discendendo. Dati impressionanti, ma sono quelli che misurano l’effettiva fiducia dei cittadini elettori. Quelli che votando hanno dato la fiducia. Se ripetiamo questo esercizio per elezioni che vedevano una elevata partecipazione al voto i dati esprimono un rapporto molto più stretto tra eletti ed elettori. Prendiamo l’Italia di mezzo secolo fa, le elezioni politiche del 1972, in cui la partecipazione fu del 93,19%. I due maggiori partiti erano la Dc che ottenne il 38,66% dei votanti e il Pci con il 27,16%. Applicando il calcolo al totale degli aventi diritto al voto il grado di fiducia si sposta di poco: la Dc scende al 34,86% e il Pci al 24,3, nulla di paragonabile a quanto si ottiene per le ultime elezioni europee: il rapporto con gli elettori era molto più fiducioso e la rappresentanza del corpo elettorale piena.
Occorre poi considerare che il dato della percentuale del consenso rischia anche di essere distorsivo della realtà, variando così fortemente la partecipazione al voto. Bisognerebbe riservare più attenzione ai valori assoluti dei votanti: ciò che meglio esprime il rapporto di fiducia è il numero delle cittadine e dei cittadini che rispondono all’appello elettorale uscendo di casa e recandosi ai seggi per consegnare il proprio parere: pensano che ne valga la pena, vogliono dare un loro contributo all’indirizzo della vita nazionale.
Con questa chiave di lettura cambia di parecchio il senso del voto: Meloni, indubbia vincitrice, ha tuttavia perso la fiducia rispetto al voto politico del 2022 di 577.000 cittadini, la Lega ha deluso 371.000 cittadini, Il Pd ha visto 289.000 votanti in più, AVS ha conquistato la fiducia di 563.000 cittadini in più. Il Movimento 5 stelle ha perso 2 milioni di voti.
Ha il da là della graduatoria dei vincitori e dei perdenti dovremmo occuparci di più di questa grande questione, non limitarsi a qualche dichiarazione preoccupata il giorno dopo il voto per poi lasciarla cadere nel dimenticatoio: la vitalità di una democrazia è legata ad un legame di fiducia tra eletti ed elettori, alla consapevolezza del popolo del valore del voto.
Tema ben presente quando ai primi del ’900 si organizzavano i partiti di popolo, con le battaglie per ottenere il suffragio universale. Il grande successo del Partito Popolare alle elezioni del 1919 si era basato sulla lunga battaglia per ottenere il voto anche per le classi popolari. Nel fondare il Partito Popolare nel 1919 l’appello ai liberi e forti chiedeva esplicitamente il voto anche per le donne e l’elezione anche per il Senato, come base per una democrazia matura.
Anche nell’Assemblea Costituente si discusse a lungo se rendere esplicitamente obbligatorio il voto, si preferì utilizzare una espressione meno vincolate, definendo il voto un dovere civico, confidando nel senso di responsabilità dei cittadini e nella fiducia nelle riproposte libertà democratiche. Fiducia ben riposta visto che alla prime elezioni politiche dopo l’approvazione della Costituzione la partecipazione al voto (aprile 1948) fu del 92,93%.