“Quando direte: mi ricordo…”

La memoria di un grande giornalista ritorna ai tempi, davvero “altri tempi”, della scuola

Anche questo testo è stato scritto per un po’ di amici, vecchi e recenti, da un vecchio che qualcosa dalla vita ha imparato, ricordando sempre con affetto persone che gli hanno fatto del bene, e dimenticando quelle che gli hanno fatto del male, nei confronti delle quali non ha mai nutrito alcun risentimento! Procedendo, in nomine Domini, nel cammino dell’esistenza che ancora mi è riservato, ecco…

“Quando direte: mi ricordo, sarà il segno che siete diventati vecchi”. La battuta del professor Cesare Isola risuona nella mia mente di fresco ottantatreenne che (e non da oggi) ai ricordi non sfugge. Anche non volendo, infatti, essi si insinuano non soltanto per via della memoria, ma soprattutto per le ragioni del cuore. E sono ricordi belli: per quelli brutti, infatti, vate retro!

Ora, a sollecitarli, questi ricordi, sono pure eventi del presente, di questo nostro tormentatissimo tempo. Nel quale, per esempio, nelle scuole, guai a rimproverare un alunno indisciplinato, maleducato, se non cialtroncello o addirittura cialtrone. Bisogna misurare le parole, attenzione a come li si richiama. Quanto a uno scappellotto sacrosanto, in situazioni veramente critiche, ma siete matti?! Denunce, tribunali, stampa compiacente a stigmatizzare e chi più ne ha più ne metta… salvo minimizzare se è un genitore o un alunno stesso ad alzare le mai su di un insegnante!

Mutuo in questa occasione dal libro famoso e a un tempo malnoto di Giovanni Mosca, ma soltanto il titolo: Ricordi di scuola. Con questo presente, che mi colpisce e amareggia non poco, mi rivedo, bambino di sei anni, a Ravenna, sulla soglia di un’aula di prima elementare della Scuola Filippo Mordani, accolto dalla maestra Maria Fiorentini (rivelatasi severa e materna, ad un temp,o per tutti i cinque anni) e la mia mamma a dirle: “Questo bambino di solito è educato, si comporta bene, ma… non dovesse esserlo, gli dia pure uno schiaffo!”.

A vero dire, non ci fu mai bisogno che la maestra dovesse ricorrere a quella punizione, ma l’atteggiamento di mia madre era stato chiaro, inequivocabile. E questa mentalità, cioè che in certe occasioni, e di fronte a certi comportamenti dei bambini, si potesse ricorrere a un paio di sane sberle era “trasversale”, per usare un termine oggi in voga. Cioè riguardava famiglie di ogni ceto sociale e di ogni “appartenenza politica”: ricche e povere, cattoliche e atee, democristiane e comuniste, repubblicane e missine. Ugualmente, la morale cattolica costituiva un patrimonio comune nella società, anche per chi cattolico non era.

Quanto alle forme di bullismo, che tanto caratterizzano i nostri giorni, non esistevano. In qualche litigio “uno contro uno” ci poteva scappare un pugno, una sberla, ma impensabile era l’assalto di quattro-cinque contro uno, e a scopo di rapina, poi! Con il termine “bullo” si indicava un ragazzino che si dava delle arie, punto.

Ora mia moglie, insegnante alle elementari (che oggi si chiamano primarie), mi racconta di episodi di indisciplina con bambini che provocano le maestre, dicono parolacce (se non bestemmia) ad alta voce, mancano del benché minimo senso di buona educazione. E devono stare attenti, gli insegnanti, a come redarguire quegli strafottenti piccoli individui. I genitori?, ci si chiederà. Sono, nella grande maggioranza, dalla loro parte: sempre pronti a giustificarli e a mettere sotto accusa il corpo docente. Quanto agli atti del già citato bullismo (cosiddetto, ma spesso si tratta di sfrontata violenza), se notiamo, sono praticati da più ragazzi, dal branco, nei confronti di uno solo: segno evidente della più bieca vigliaccheria!

Ma torniamo alla differenza fondamentale fra quel mio primo ingresso nell’aula dalla maestra Fiorentini, accompagnato da una mamma responsabile, e i bambini di oggi. Allora famiglia, scuola, parrocchia, e mettiamoci pure la cellula visto che provengo dalla rossa Romagna, viaggiavano insieme seguendo un unico comune denominatore. L’educazione che veniva impartita allora si basava sul rispetto del prossimo, sul riconoscimento dell’autorità (che non era autoritarismo!) e sul merito, per cui chi studiava prendeva bei voti e chi era negligente no. E se si era rimandati a ottobre o bocciati, niente vacanze al mare o ai monti. A casa, per (attenti! attenti! alla parola oggi proibita) pu-ni-zio-ne.

Il Pci e il Psi di allora erano in questa ottica, e ne sono buon testimone, sia per motivi familiari (avevo parenti di sinistra) sia per motivi “scolastici”; severo all’occorrenza era infatti il professor Piero Longanesi, coltissimo, simpaticissimo, umanissimo comunista.

Per restare alla scuola, alcuni eventi dei quali fui testimone sono ancora vivissimi nella mente.

Ho citato prima il professor Cesare Isola, personaggio fra i più stimati e amati da tutti indistintamente gli studenti dell’Istituto tecnico Ginanni, di cui era preside l’indimenticato Michele Vincieri, e che vantava fior di insegnanti: Mario Binazzi Zattoni, Abdon Montanari, il mitico (ancorché misogino) Leonida Amadori, Ennio Dirani, le professoresse Rubbi e Zavaglia e poi Betti, Altini, nonché Bertoni e Gatta di educazione fisica, per fare qualche nome.

Originario di Riolo dei Bagni (non ancora Riolo Terme), Isola si era laureato in Lettere all’Università Cattolica di Milano, dove, fra l’altro, aveva incontrato la futura moglie, la ravennate Iva Francia (che lui chiamava teneramente Ivetta). Abitavano in via Rubicone, negli anni Cinquanta ancora periferia della città; ebbero quattro figli, se ben ricordo. Cesare veniva al Ginanni, a fianco della basilica di San Giovanni Evangelista, in bicicletta, come del resto, pedalando, si muoveva la maggior parte dei ravennati. L’auto, una Giardinetta, sul cui sedile posteriore veniva stipata la figliolanza, la usava soltanto per le trasferte nel paese natìo, o per qualche viaggio di affari: infatti, insieme ai fratelli, possedeva dei terreni agricoli. Lo ebbi professore di italiano dall’anno in cui ripetei la prima ragioneria fino alla quarta (gli sarebbe subentrato poi Piero Longanesi), sezione B. Da lui ricevemmo, fra l’altro, lezioni di comportamento, di educazione civica, quando questa non era ancora materia di insegnamento, di senso critico e di libero dibattito, di onestà intellettuale, sempre nel rispetto reciproco, con senso di comprensione e tolleranza.

Ma, all’occorrenza, anche il professor Isola, come i nostri genitori del resto, poteva ricorrere a correzioni… manesche. Accadde due volte, e sempre nei confronti del turbolento (seppur simpaticissimo) Roberto B.

La nostra aula (2a B) era al pianterreno dell’ala non ancora completamente costruita dell’Istituto Ginanni e, per accedervi, occorreva percorrere un breve corridoio, per poi “svoltare” e trovarsi di fronte alla porta d’ingresso. Accadde che una mattina, cinque minuti prima della campanella dell’intervallo, il professore ci dicesse: “devo andar via ma, mi raccomando, state tranquilli, non agitatevi, fatemi questo piacere”. Chiusa la porta, scomparve dietro l’angolo. Noi a chiacchierare, ma senza alzare la voce, né muoverci dai banchi. Tutti, tranne uno: Roberto B. Il quale, quatto quatto, se ne uscì dall’aula e svoltò all’angolo per immettersi nel breve corridoio di cui ho detto, affacciando la testa. Se non che, sorpresa!

Proprio lì era… atteso dal professore che, dicendogliene quattro, e assestandogli qualche botta in testa con la vecchia sdrucita cartella per documenti, lo riaccompagnò in classe. Noi, ovviamente, a ridere, se non a condividere le ragioni dell’insegnante. Altro che inscenare proteste, magari rivolgerci al preside, o minacciare uno sciopero! D’altro canto, lo stesso nostro compagno ammise di essere stato un fesso, guardandosi bene dal riferire l’accaduto a casa, dove avrebbe preso “il resto”, di sberle!

Il secondo episodio, insieme a Roberto B., aveva visto protagonisti Paolo D.V. e Giovanna Biasoli in veste di “parte lesa”.

Qui è necessaria una premessa. Consegnando i fogli protocollo con il voto dei compiti in classe (oggi, mi pare si chiamino “verifiche”) il professore esprimeva un commento ad alta voce. Una volta, riguardo alla Giovanna che lui amabilmente chiamava “Biasolina”, osservò una carenza nella sintassi. La settimana successiva, altro tema in classe: come si usava abbastanza frequentemente, ci si scambiava il foglio protocollo per leggere quel che il compagno aveva scritto. Capitò così che Roberto B. e Paolo D.V., compagni di banco dietro la “Biasolina”, leggessero il suo elaborato e, memori delle osservazioni che il professore aveva fatto la settimana precedente, decidessero uno scherzaccio. Mentre Paolo leggeva sottovoce, Roberto dettava a caso: “metti una virgola; metti un punto e virgolo; metti due punti”, sicché ne venne fuori un pasticcio indescrivibile con periodi senza senso… La cara Giovanna, ignara e rassicurata dalla nostra dichiarazione che avesse svolto un bel tema, non rilesse e consegnò tranquilla.

Qualche giorno dopo, al solito commento degli elaborati, venuta la volta della sventurata nostra compagna, Isola esordì: “Cara Biasolina, ti avevo raccomandato la sintassi, ma qui mi pare che tu abbia proprio esagerato” e giù, dopo averla chiamata alla cattedra, a farle osservare questo e quello e quell’altro. “Ma io non ho fatto tutto questo”, fu la protesta, fra il risentito e il piagnucoloso, della ragazza. “E allora chi è stato?”, esclamò arrabbiato Isola. “Eh! Chi è stato?”. In un’atmosfera di silenzio agghiacciante, Roberto B. ebbe il coraggio di alzarsi e… autodenunciarsi. L’ira di Isola non tardò a manifestarsi. Pochi passi dalla cattedra al banco dell’incosciente-sventurato compagno, che si prese dello “stupido, cretino, che cosa credevi di fare con questo scherzo! Di essere spiritoso?”. Contumelie accompagnate da pacche sulla testa che il nostro subì rannicchiandosi, quasi sotto il sedile del banco, facendosi schermo con le mani e cercando così di attutire, più che evitare, le botte. Anche in questo caso (ma noi, nell’occasione non ridemmo affatto), non ci furono proteste, denunce né tantomeno, da parte di Roberto B., la comunicazione dell’accaduto ai genitori. Aveva fatto una fesseria e ne aveva subìto le conseguenze. Perché nell’educazione che allora ci veniva impartita – dalla famiglia alla scuola, dalla parrocchia alla cellula – il senso di responsabilità, l’etica della responsabilità personale erano al primo posto.

Chi rompe paga, insomma, non si facevano sconti. Nel caso dell’umanissimo Isola, poi, tutti lo stimavamo e gli volevamo bene; da lui si potevano accettare anche “correzioni manesche”.

Perché? Avevamo dei sentimenti e onestà intellettuale.

Alla critica che potevamo muovere a certi insegnanti e a taluni metodi si accompagnava, infatti, anche l’esame di coscienza personale e, dunque, l’autocritica!

L’anno scolastico successivo Isola non era più nostro insegnante di italiano ma, ugualmente, io e Roberto B., ad ogni uscita del mensile “Il Picchio studentesco” di cui eravamo redattori, nel giro di consegne ai nostri rivenditori, istituto per istituto, facevamo una deviazione per arrivare a casa del nostro ex professore, accolti con grande cordialità anche dalla moglie, e ricevendo per l’“omaggio giornalistico” un graditissimo aperitivo.

Eravamo nella preistoria? No: a cavallo fra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, con il malefico “Sessantotto” ancora di là da venire.

“Quando direte mi ricordo…”. Già, le parole del carissimo, indimenticabile professor Cesare Isola le risento ora, che la campana del tempo batte per me 83 lenti rintocchi, velati, soffusi di melanconia e nostalgia: per anni, ambienti, eventi, uomini di famiglia e di scuola e di Chiesa, il cui ricordo scalda ancora il cuore e mi fa compagnia… Mi piace, allora, e infine, pensare anche alle campane dell’antico duomo di Ravenna, il cui suono caratterizzava le giornate nella vicina casa di via Port’Aurea in cui nacqui e dove a lungo vissi con babbo Arnaldo, mamma Maria, fratello Beppe: i “miei morti”, ai quali non passa giorno in cui io non dedichi un Requiem.

(Giavera del Montello, 22 aprile 2024)

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