Emergenza carceri, un problema dalle molte facce

Iniziamo una serie di riflessioni a riguardo di una tematica di estrema attualità, umana e sociale: troppi i suicidi e le situazioni di disagio

Per discutere, tecnicamente, sull’emergenza carceri bisogna passare in rassegna le norme che disciplinano il sistema italiano delle pene.

Per far ciò, è necessario partire dall’art. 27, comma 3, della Costituzione, il quale statuisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

In così poche parole ritroviamo la summa del reticolato sanzionatorio del nostro Paese.

Innanzitutto, la norma parla di “pene”, ovvero non soltanto di “detenzione”, riferendosi a tutte quelle sanzioni previste dell’art. 7 del codice penale, nonché alle sanzioni sostitutive di cui alla legge 689/1981 (semidetenzione, libertà controllata e pena pecuniaria) e a quelle paradetentive di cui al D.Lgs. 274/2000 (pene erogate dal Giudice di Pace: pena pecuniaria, permanenza domiciliare e lavoro di pubblica utilità).

La pena deve poi assumere due qualità:non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato.

Qui si aprono due capitoli davvero fondamentali per la nostra indagine attorno alle carceri italiane.

Innanzitutto, non può considerarsi conforme al “senso di umanità” una reclusione scontata in pochi metri quadrati di pavimento o con scarse condizioni igieniche o, ancora, in stato di perenne isolamento.

Altresì, non tende alla “rieducazione” una pena in assenza di adeguati strumenti educativi, psicologici e di reinserimento nella società, ad esempio sotto il profilo lavorativo, né, tantomeno, una pena che non finisce mai.

È chiaro ed evidente come si possa facilmente eccepire al dettato normativo che sia giusto che coloro i quali hanno commesso una violazione penale se ne debba stare in carcere buoni, buonini e acquietati, e che non si può rimettere alla postura costituzionale il rischio d’inondare la società di avanzi di galera.

Eppure, a contrario del mondo criminale, lo Stato dovrebbe essere la fiaccola delle virtù laiche e il modello di trionfo del sociale.

Queste differenti esigenze, per fini storici, esistevano già in seno all’Assemblea costituente. Ho speso qualche minuto nella rilettura dei lavori che hanno condotto alla redazione dell’art. 27 della Costituzione e riporto questo breve stralcio, citando l’onorevole Michelangelo Trimarchi:

… io mi rendo perfettamente conto di questa esigenza, che sentiamo tutti, di vedere umanizzata la pena, di vedere attuato nel sistema penitenziario italiano un trattamento più umano, più confacente alla dignità della persona umana che viene condannata. Ma è bene che le idee su questo punto siano ben chiare. (…) Sì, noi ammettiamo che la pena ha, tra i suoi fini, l’emenda, ma vi sono altri fini, quali quello della giustizia, della prevenzione generale, della remunerazione, ecc., che esigono che le pene siano giuste e agiscano come controspinta al delitto. (…) onorevoli colleghi, io mi domando che cosa avverrebbe se invece delle carceri (…) noi approntassimo semplicemente delle case di cura, dove il condannato sarebbe sicuro che invece di soffrire le privazioni che la pena necessariamente comporta, verrebbe rieducato, verrebbe trattato con tutti i riguardi. Io credo che in questo caso la pena, piuttosto che agire come controspinta al delitto, potrebbe agire come spinta al delitto. (…) io desidererei che la formulazione fosse più esplicita nel dichiarare, nell’affermare che questo fine non esclude gli altri, perché potrebbe sembrare dalla dizione letterale: «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato» che unico fine debba ritenersi l’emenda. Perciò preferirei una formula che chiarisse bene che l‘emenda è solo uno dei fini della pena”.

Nulla di nuovo, quindi. Però nel momento in cui scrivo, 21 agosto 2024, i suicidi all’interno delle carceri italiane sono saliti a 63.

Ci devono pur essere delle motivazioni che conducono un uomo arriva a togliersi la vita. Non sicuramente soltanto il senso di colpa. È su queste motivazioni che il Parlamento italiano dovrebbe investigare e discutere. E sembra muoversi qualcosa all’interno del dibattito pubblico.

Il discorso, ovviamente, non si esaurisce con queste brevi considerazioni: seguiranno ulteriori puntate.

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