Il riuso dei luoghi dello Spirito

Una dettagliata riflessione sulla conservazione urbanistica degli edifici non più destinati al culto

Il progetto per la navata della chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Padova

Chiese ed edifici di culto rappresentano elementi di grande rilievo nel tessuto urbanistico cittadino. In tutto il mondo costituiscono veri e propri centri simbolici delle città. Dalla fine del XX secolo, il calo delle vocazioni religiose e l’eclissi del sacro, soprattutto nelle capitali del mondo occidentale, evidenzia una crisi del ruolo delle chiese come poli di attrazione collettiva. Si riduce l’afflusso ecclesiale quotidiano e domenicale, maturano altre tipologie di fruizione (turistica, ad esempio), al ridursi del numero di sacerdoti diminuiscono le funzioni religiose, gli eventi legati alla celebrazione di sacramenti come battesimi, matrimoni e perfino funerali. La Chiesa rimane luogo centrale della trama urbana, ma riduce, quando non addirittura perde, la funzione di luogo di incontro collettivo. Da questa crisi, che tocca anche le diocesi cattoliche che sono state “perno” della cristianità, emerge una domanda di senso per le Amministrazioni Pubbliche, la Chiesa Cattolica e la società civile. Quale destino per le chiese?

Le chiese, le cappelle, i santuari, gli oratori non sono tutte proprietà della Chiesa Cattolica o delle altre chiese. La plurimillenaria eredità religiosa, e la bimillenaria storia del cristianesimo in dialogo e spesso in conflitto con il potere temporale, le signorie, le ricchezze e gli Stati, la storia bellica, hanno visto il patrimonio religioso scomporsi, in qualche caso scomparire, oppure vitalizzarsi per opera di privati cittadini e forme statali interessate al rapporto con la religione, per convinzione o legittimazione. Percio’, la storia delle chiese, delle cappelle, dei santuari, si intreccia strettamente con la storia del territorio.

Questo articolo non ha alcuna presunzione di esaminare nel dettaglio la storia degli edifici religiosi padovani o prescrivere il futuro delle chiese padovane e diocesane come nuovi luoghi dello spirito nel contesto urbanistico della città moderna. La sua finalità è quella di riepilogare alcune suggestioni proposte dall’architettura, dalle istituzioni pubbliche e private e dalla stessa Chiesa Cattolica negli ultimi dieci anni, e proporre alcune interpretazioni utili a stabilire un ordine di riflessione e – auspicabilmente – di regolazione per il futuro ruolo delle chiese nell’ambito urbano. Non vi è alcuna intenzione di stabilire priorità, ma di attivare un dibattito, auspicabilmente ampio.
La riduzione e la chiusura di queste realtà (chiese, cappelle, oratori, monasteri) rappresenta una vera e propria emergenza, in quanto sussiste è il pericolo che, senza una normativa quadro meditata e precisa, la destinazione dei luoghi di culto diventi un tema “strisciante” in cui, come spesso accade, prevalgono gli interessi occulti, ma interessati e speculativi, di pochi immobiliaristi ed esercenti pubbliche attività, tentati dal basso costo e dalle dimensioni ampie e centrali di chiese, cappelle e oratori, per adibirli ad attività incoerenti con la loro origine e destinazione, attività in ultima analisi dettate da convenienze materiali, piuttosto che salvaguardarne il ruolo di luoghi spirituali, spingendo la società civile verso una nuova e ulteriore mercificazione e degrado, sia apparente che simbolico e materialista.

È una riflessione che, anno dopo anno, sta diventando sempre più necessaria, per evitare che i “luoghi del sacro” e della spiritualità religiosa, una volta abbandonati per la riduzione della pratica e del numero dei sacerdoti, vengano declassati a spazi commerciali da sfruttare solo per la loro versatilità e centralità urbanistica e commerciale.

Del fenomeno, infatti, da tempo si sono accorti il Pontificio Consiglio della Cultura e la Conferenza Episcopale con i delegati delle Chiese dei paesi europei e americani , i quali, in alcuni documenti appositamente predisposti e divulgati il 17 dicembre 2018, trattano nel dettaglio del fenomeno in atto nei paesi cristiani. “…Il problema della dismissione di luoghi di culto non è nuovo nella storia, ma oggi si pone all’attenzione delle Chiese per cause legate a una condizione moderna che possiamo definire sommariamente di secolarizzazione avanzata, ma allo stesso tempo in un contesto di maggiore consapevolezza del valore storico-artistico e simbolico dell’edificio sacro e dei manufatti in esso conservati.”

Occorre, inoltre, considerare che il rispetto e la destinazione dei luoghi sacri viene tutelato specificamente anche dal Codice del diritto canonico (Canone 1222): “Can. 1222 – §1. Se una chiesa non può in alcun modo essere adibita al culto divino, né è possibile restaurarla, il Vescovo diocesano può ridurla a uso profano non indecoroso. §2. Quando altre gravi ragioni suggeriscono che una chiesa non sia più adibita al culto divino, il Vescovo diocesano, udito il consiglio presbiterale, può ridurla a uso profano non indecoroso, con il consenso di quanti rivendicano legittimamente diritti su di essa e purché non ne patisca alcun danno il bene delle anime.”

Esistono situazioni diverse da valutare nel merito: vi sono chiese specificamente attinenti il patrimonio della Diocesi, fortunatamente ancora attive per la maggior parte, con una rarefazione dei riti e la riduzione del numero di sacerdoti e della loro presenza. Vi sono chiese di proprietà di Ordini Religiosi locali, o Congregazioni riconosciute (oggetto prevalente di dismissione in questa fase, in relazione alla chiusura di conventi e strutture di congregazione come scuole o istituti didattici: si pensi ad esempio alle chiese del Collegio Antonianum a Padova o del Convento delle Visitandine a Padova, le Chiese di molte scuole, asili, scuole inferiori e medie, in via di abbandono per chiusura delle scuole paritarie), le chiese storiche rientranti nella sfera pubblica (Comuni, Agenzia del Demanio statale, Demanio militare, Pie Opere di Assistenza e Beneficenza, come quella nell’immagine iniziale che riguarda il progetto realizzato dall’Orchestra di Padova e del Veneto per il reimpiego dell’Oratorio di Santa Maria delle Grazie in Padova, via Cavalletto, di proprietà della SPES Ipab, già Orfanotrofi Riuniti). Molte di queste Chiese transitate ai Comuni e allo Stato sono sconsacrate da decine di anni, in qualche caso secoli, ma vengono mantenute come luoghi di culto (ad esempio la Chiesa dei Servi a Padova), oppure – se private dell’altare – adibite ad usi civici. Vi sono chiese e cappelle e oratori realizzate da privati o divenute tali nei secoli (pensiamo alla Cappella degli Scrovegni o all’Oratorio di San Michele a Padova). Per alcune di queste, prevale l’interesse storico-artistico, e diventa prevalente la considerazione compiuta dallo Stato sulla base della propria normativa: su tutti il Codice dei Beni Culturali, D.Lgs. 42/2004. L’edilizia di culto è disciplinata dal diritto comune in materia di edilizia ed urbanistica, sia statale, DPR 6 giugno 2001, n. 380, “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia”, che regionale, salvo disposizioni diverse derivanti da impegni pattizi. Per quanto riguarda la Chiesa Cattolica, in particolare, gli edifici destinati al culto cattolico, anche se appartenenti a privati non possono essere sottratti a tale destinazione, neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che la riguardano (articolo 831 c.c.). La tutela degli edifici di culto è affidata a disposizioni contenute nell’art. 5 dell’Accordo di revisione del Concordato del 1984, il quale prevede che “Gli edifici aperti al culto non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con la competente autorità ecclesiastica. Salvo i casi di urgente necessità, la forza pubblica non potrà entrare, per l’esercizio delle sue funzioni, negli edifici aperti al culto, senza averne dato previo avviso all’autorità ecclesiastica. L’autorità civile terrà conto delle esigenze religiose delle popolazioni, fatte presenti dalla competente autorità ecclesiastica, per quanto concerne la costruzione di nuovi edifici di culto cattolico e delle pertinenti opere parrocchiali”.

La legge 2 aprile 2001, n. 136, all’articolo 2, comma 4, statuisce che “I beni immobili appartenenti allo Stato, adibiti a luoghi di culto, con le relative pertinenze, in uso agli enti ecclesiastici, sono agli stessi concessi gratuitamente al medesimo titolo e senza applicazione i tributi. Per gli immobili costituenti abbazie, certose e monasteri restano in ogni caso in vigore le disposizioni di cui all’articolo 1 della legge 11 luglio 1986, n. 390”.

Quindi, “La progressiva ritirata del cristianesimo in Europa, Italia compresa, implica” conseguenze rilevanti anche sull’immenso patrimonio culturale ecclesiastico” (Internazionale, 8 agosto 2022, ”Chi salverà i Tesori della Chiesa“). Se la sua conservazione per lunghi secoli è stata infatti garantita dalla presenza di un clero diffuso, di congregazioni religiose che alimentavano la vita di monasteri, conventi, chiese, basiliche, e dalle comunità che vivevano intorno a quei luoghi, ora non è più così. Il problema, per un paese come l’Italia, la cui storia si intreccia in modo inestricabile con quella della chiesa cattolica, è che patrimonio culturale e beni ecclesiastici spesso coincidono.

Il tempo stringe: secondo dati diffusi dallo stesso vaticano, il 50 per cento dei monasteri chiuderà i battenti in meno di dieci anni, mentre l’invecchiamento dei preti e la scarsità di nuove vocazioni descrivono uno scenario destinato a mutare il paesaggio sociale di un paese tradizionalmente cattolico come il nostro: chiese e conventi si svuoteranno.

A ciò va aggiunto il progressivo spopolamento di paesi e piccoli borghi, un dato demografico generale del quale occorre tenere conto. In un simile contesto, inevitabilmente, vengono dismesse, vendute o abbandonate chiese, edifici storici, monasteri, parrocchie: una miriade di strutture edilizie storiche, spesso vecchie di secoli che punteggiano la penisola da un capo all’altro. Un patrimonio che rischia di andare, almeno in parte, perduto. O utilizzato per rimpinguare le casse di qualche diocesi trasformando un’antica struttura conventuale, una chiesa in disuso, una casa per religiosi rimasta vuota o quasi, in un resort turistico a cinque stelle, in un centro commerciale, in un bar o in una discoteca, diventando per di più un attrattore improprio di traffico veicolare, con l’incremento dell’inquinamento e della congestione ambientale.

Si pensi che in Italia le chiese sono ben 67mila, mentre si contano circa mille musei ecclesiastici a partire da quelli diocesani e passando per musei parrocchiali, missionari, collegati a santuari, di ordini religiosi. Il che implica una quantità eccezionale di beni artistici, arredi, organi, affreschi, quadri, altari, opere di inestimabile valore o semplici testimonianze di fede popolare, del passaggio di epoche e di storie. Nell’articolo di Internazionale ricorda Massimo Bottini, architetto, presidente della sezione di Italia nostra di Valmarecchia, membro dell’Alleanza per la mobilità dolce (Amodo), ha diretto il restauro del convento di Santa Caterina e Barbara a Sant’Arcangelo di Romagna (grande più di 5mila metri quadri), a pochi chilometri da Rimini: “Un convento non è solo una chiesa, è qualcosa che fa parte del sistema urbano, sociale e culturale delle nostre città. Quindi non sto parlando delle mura, dei campanili, delle opere d’arte. Sto parlando della comunità che lì decide di vivere insieme, per esempio secondo i principi benedettini per i quali è fondamentale ospitare il forestiero. In questo senso dobbiamo ricordarci che noi stessi spesso siamo forestieri nelle nostre città”.

Il timore diffuso tra chi si occupa di conservazione dei beni culturali, sia in ambienti ecclesiali, sia laici, è che alla fine gli ex edifici destinati all’uso religioso siano trasformati in negozi, ristoranti di fast food, hotel di lusso o altro.

Per questo anche le citate linee guida del Dicastero vaticano per la cultura indicano una strada alternativa al puro sfruttamento commerciale: “Ambiti privilegiati per il riuso delle chiese sottoutilizzate sono sicuramente il turismo e la creazione di spazi di silenzio e di meditazione aperti a tutti. Come in passato molte chiese non avevano un’immediata finalità pastorale, come le parrocchie, ed erano sorte per volere di laici, per esempio le confraternite, così anche oggi alcune di esse, in un’ottica di corresponsabilità e di diversificazione di strategie, potrebbero essere affidate ad aggregazioni laicali: associazioni e movimenti che ne garantiscano una apertura prolungata e una migliore gestione patrimoniale. In alcune realtà si sta facendo strada l’esperienza di un utilizzo misto dello spazio, destinandone una parte alla liturgia e un’altra a scopi caritativi o sociali”. E vi è anche chi suggerisce che le chiese piu’ recenti, dagli anni ’50 del secolo scorso fino ad oggi, realizzate con materiali poveri ed in economia, in risposta ad esigenze di partecipazione comunitaria in quartieri periferici – dormitorio – cresciuti in fretta, e prive di aspetto religioso, strutturate come capannoni o edifici ordinari, possano essere sconsacrate e abbattute, una volta private degli altari e delle insegne sacre. Eppure, non sempre è così semplice: in molti casi insorge il senso popolare e comunitario, che identifica questi luoghi come elementi centrali della propria crescita adolescenziale e sociale, o come centri di ritrovo di anziani contro la solitudine. Occorrerebbe una impostazione più rispettosa della sacralità “accumulata” da questi luoghi, e indirizzata a ristrutturarli e utilizzarli per una gerarchia di ruoli: aula studio, biblioteca, sala concerti, luoghi di didattica, confronto filosofico e spirituale, assistenza sociale, teatro di recitazione, luogo di ritrovo diurno e assistenza per anziani protetto rispetto ai centri commerciali. Le impellenti esigenze collegate alla transizione energetica e alla riduzione dell’impatto energetico di tali edifici sui consumi (anche perchè via via ingestibili alla luce degli aumenti tariffari) dovrebbero imporre un ordine di priorità ragionato, quando non degli incentivi precisi offerti dalla finanza pubblica per conservare e valorizzare il tessuto sociale che questi edifici hanno creato e sostenuto in altri tempi, e ancora oggi si esprime liberamente nei contesti parrocchiali.

Il mantenimento e l’impiego degli edifici di culto sta diventando un problema rilevante anche sotto il profilo economico e finanziario. Le entrate delle Chiese Parrocchiali, delle chiese di monasteri e santuari, sono formate da tre voci principali: le offerte in occasione dei riti domenicali e delle feste religiose (1/3 circa), le entrate dai Sacramenti, prive di tariffazione e quindi dedicate alla sola disponibilità dei fruitori: battesimi, comunione e confermazione, matrimonio e funerale sono sacramenti basilari della fede cristiana che si sono sempre contraddistinti come eventi sacri, incoraggiando offerte significative alla Chiesa locale per l’arredo e la predisposizione della chiesa medesima. Queste offerte sacramentali costituivano 1/3 delle entrate, ma sono in rapida diminuzione per la riduzione del numero di fedeli, l’aumento dei matrimoni civili e la scelta laica della sala del commiato e della cremazione per l’esito vitale. Vi era infine una terza fonte di offerte dal territorio, per la visita pastorale del parroco o del vescovo, da parte di attività economiche e aziende che comunque mantenevano un rapporto virtuoso e di relazione intensa con la comunità e la sua chiesa. L’internazionalizzazione, la crescita delle imprese, la laicizzazione multiculturale e multireligiosa hanno imposto un brusco calo di queste offerte e limitato pesantemente la relazione tra sacerdoti e territorio parrocchiale di riferimento. A ciò si aggiunga una presenza crescente di altri riti religiosi e predicatori, e si otterrà un quadro significativo e completo del declino della prevalenza cattolica nel territorio del Veneto e dell’Italia.

La Chiesa è fortemente impegnata, direttamente e tramite le Diocesi, per il mantenimento del patrimonio immobiliare: ogni anno una quota dei fondi dell’otto per mille viene utilizzata per la ristrutturazione delle chiese e per la loro messa in sicurezza, per esempio installando sistemi di allarme o per il restauro degli organi a canne. Ma i fondi sono assolutamente insufficienti. I conventi e i monasteri che non ricadono sotto la responsabilità della CEI, ma appartengono a congregazioni e ordini religiosi, sono destinati alla chiusura e alla cessione. Alcuni Ordini, soprattutto quelli femminili, hanno visto in pochi decenni dimezzare o azzerare il numero dei religiosi e delle religiose, lasciando all’abbandono grandissime strutture che sono chiuse, nel degrado più inqualificabile, in attesa di acquirenti interessati ad una loro destinazione commerciale, residenziale, sanitaria, quasi esclusivamente a scopo di lucro. E molti Comuni sono interessati alla cosa, per l’entità degli oneri urbanistici e il reimpiego delle strutture medesime, destinate a incrementare significativamente il gettito IMU del comune medesimo (che prima invece era limitato o nullo). Poi c’è il Fondo edifici di culto (FEC), ente controllato dal ministero dell’Interno. In totale sono 840 gli edifici gestiti dal FEC, tra cui moltissime chiese, una settantina delle quali si trovano a Roma, per esempio San Lorenzo in Lucina, Sant’Andrea della Valle, Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio, Santa Croce in Gerusalemme, Santa Maria del Popolo e Santa Maria in Ara Coeli al Campidoglio. Le risorse necessarie per la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione degli edifici di culto, “sono ricavate in primo luogo dall’amministrazione del patrimonio fruttifero che il Fondo possiede: appartamenti, negozi, fondi rustici. Non tutti i beni culturali ecclesiastici sono di proprietà della CEI o dello Stato o Enti pubblici. Il Fondo per l’ambiente italiano (Fai) per esempio, ne ha alcuni di assoluto valore e di cui ha curato i restauri rendendoli poi accessibili al pubblico. Ne è un esempio l’Abbazia di San Fruttuoso, monastero benedettino le cui origini risalgono all’anno mille sulla costa ligure tra Portofino e Camogli. O l’abbazia di Santa Maria di Cerrate, in provincia di Lecce, luogo di fede di origine bizantina e centro di sviluppo agricolo specializzato nella lavorazione delle olive: del complesso fa parte una chiesa che è stata riconsacrata dove si tiene una messa una volta al mese.

Un ulteriore approfondimento sulla questione si può trovare in un articolo Alberto Tomer, pubblicato su Aedon. Come si puo’ osservare dall’esame condotto finora, il problema è di grande rilievo: la sua quantificazione reale risulta complessa e spesso coperta di comprensibile silenzio e omertà interessata da parte dei potenziali utilizzatori delle chiese e degli edifici di culto dismessi per vari motivi dalle organizzazioni religiose. Oltre alle limitazioni imposte dallo Stato, attraverso il Codice dei Beni Culturali per motivi artistici, oltre alle limitazioni della legge urbanistica e a quelle imposte dal diritto canonico, infine, esistono ulteriori limitazioni a nuove destinazioni delle chiese dismesse: tra i beni contenuti all’interno della chiesa in via di dismissione, una specifica attenzione è da tributare agli altari, che a norma del can. 1238 § 2 mantengono la propria dedicazione o benedizione anche qualora il luogo sacro in cui sono posti venga ridotto a uso profano. Tale aspetto è evidenziato pure nelle “Procedural Guidelines for the Modification of Parishes, the Closure or Relegation of Churches to Profane but not Sordid Use, and the Alienation of the Same” della Congregazione per il clero del 2013, che al n. 3, lett. g), così ne sottolineano le conseguenze: “Because altars can never be turned over to profane use, if they cannot be removed, they must be destroyed”. Una prospettiva, però, come osservano le Linee guida del Pontificio Consiglio della cultura al n. 16, che “potrebbe porsi in netto contrasto con le norme civili della conservazione del patrimonio culturale”, ma cionondimeno irrinunciabile per l’ordinamento canonico.

Un profilo su cui è invece intervenuta una certa inversione di tendenza nella considerazione della Conferenza episcopale italiana è quello relativo all’opportunità di prevedere mutamenti di destinazione solamente parziali o temporanei, profilo che appare quindi non univoco e sul quale insistono anche ragioni di ordine fiscale. Se infatti gli Orientamenti del 1992 non solo ammettevano, ma addirittura caldeggiavano il ricorso a quest’ultima ipotesi come misura estrema ove ciò avesse permesso di evitare l’alienazione dell’immobile (n. 35: “Il mutamento temporaneo di destinazione è sempre comunque preferibile all’alienazione dell’edificio”), l’Istruzione in materia amministrativa del 2005 ha invece escluso recisamente una simile possibilità, statuendo che “la dedicazione di una chiesa al culto pubblico è un fatto permanente non suscettibile di frazionamento nello spazio o nel tempo, tale da consentire attività diverse dal culto stesso” (n. 128).

Per converso, va rilevato come in altri contesti nazionali – nei quali vigono anche regimi fiscali differenti – la riduzione auso profano di locali circoscritti dell’edificio, che nelle aree restanti mantiene invece la propria destinazione al culto, è divenuta una prassi relativamente frequente.

Un’indicazione a questo proposito si può tuttavia riscontrare pure nelle Linee guida del Pontificio Consiglio della cultura, che al n. 15 indica tra i comportamenti che devono essere censurati anche quelli consistenti nel “ridurre una parte della chiesa ad uso profano” e nel “destinare di fatto una chiesa ad attività diverse dal culto divino (sala per concerti, conferenze ecc.), mantenendo in modo sporadico le funzioni religiose”. Soluzioni che non implicano invece la cessazione della destinazione al culto dell’edificio, non comportando perciò i problemi menzionati, possono individuarsi nelle ipotesi, pure osservate con interesse in altri paesi – della trasformazione della chiesa in chiesa cimiteriale o in oratorio (purché quest’ultimo mutamento di stato non sia meramente finalizzato a una successiva riduzione a uso profano svincolata dalle condizioni di cui al can. 1222).

Tomer sviluppa alcune considerazioni, direi obbligate, di cui bisogna tenere assolutamente conto prima di passare alla seconda parte della nostra riflessione. “In merito all’alienazione, va in ogni caso tenuto presente che quest’ultima, al pari della modifica di parrocchie, costituisce un’ipotesi distinta rispetto alla dismissione, ben potendo un ente ecclesiastico sia alienare un edificio ancora dedicato al culto – al quale si applicheranno perciò le disposizioni di cui all’art. 831, comma 2, c.c.: “Gli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano” -, sia mantenere la proprietà di un immobile già ridotto a uso profano. Quale che sia la concreta fattispecie da affrontare, la procedura da seguire è comunque quella ordinariamente delineata dal Libro V, titolo III, del Codex Iuris Canonici – e sintetizzata al par. 3, lett. h), delle Procedural Guidelines del 2013 – sulla base del rapporto tra il bene in oggetto e le somme minima e massima appositamente fissate dalla Conferenza episcopale per la propria regione: risultando quindi altresì indispensabile l’apposita licenza da parte della Santa Sede per l’alienazione di tutti i beni dotati di pregio artistico o storico, indipendentemente dal loro valore economico, ex can. 1292 § 2. Per le fattispecie di nostro interesse, quest’ultima condizione andrà quindi inderogabilmente a sommarsi agli altri requisiti già previsti per l’alienazione dei beni – “non culturali” – di valore superiore a 250 mila euro: consistenti cioè non solo nella necessità che l’alienazione stessa sia determinata da una giusta causa e che sia stata effettuata una valutazione scritta da parte di esperti, ma pure nella licenza dell’autorità competente, individuata nei rispettivi statuti per quanto riguarda le persone giuridiche non soggette al vescovo o, in ogni altro caso, rappresentata dal vescovo stesso, il quale dovrà a sua volta ottenere anche l’assenso del consiglio diocesano per gli affari economici, del collegio dei consultori e delle parti interessate.

Una considerazione ulteriore si presenta tuttavia con specifico riferimento all’ambito delle chiese ridotte a uso profano, nei confronti del quale il documento della Congregazione per il clero rivolge la seguente raccomandazione al par. 3, lett. f): “Furthermore, the competent authority must assure thatthere is no reasonable possibility of scandal or loss of the faithful which will result from the proposed alienation”. Un problema concreto a questo proposito è rappresentato soprattutto dal rischio, a seguito della vendita dell’immobile, del mancato rispetto del carattere ‘non indecoroso’ richiesto per il suo nuovo utilizzo. Se tale elemento può essere salvaguardato per il primo acquirente tramite il ricorso ad appositi accordi contrattuali, decisamente più complessa si rivela infatti l’individuazione di strumenti che consentano di conseguire il medesimo risultato in perpetuo ed erga omnes: motivo per cui il n. 34, 6°, delle Linee guida del 2018, dopo avere sottolineato l’importanza di simili clausole, conclude facendo “appello alle autorità civili in modo da garantire mediante un vincolo giuridico la dignità del luogo” anche in vista dei successivi passaggi di proprietà.

Riepilogando: sia gli edifici di culto pubblici, che quelli di proprietà religiosa, che quelli privati, soggiacciono alle norme del Codice della cultura, del Diritto Canonico e della legge urbanistica, e da ultimo – se chiese – sono vincolate alla presenza degli altari, che non possono essere lasciati, ma esclusivamente rimossi o distrutti, in caso di sconsacrazione.

Essenziale per le linee guida della CEI, è che la decisione di dismissione venga assunta con il parere di tutti gli organi ecclesiali impegnati, inclusi i fedeli che hanno utilizzato l’edificio religioso. Si auspica che, quando non sia più possibile mantenere un edificio religioso come tale, si faccia uno sforzo per assicurargli un nuovo uso religioso (ad esempio, affidandolo ad altre comunità cristiane), culturale o caritativo, per quanto possibile compatibile con l’intenzione originale della sua costruzione. Sembrano pertanto da escludere riutilizzi commerciali a scopo speculativo, mentre potrebbero essere considerati quelli a scopo solidale. Come ricorda, quindi, il Pontificio Consiglio per la Cultura, insieme alla CEI, sono certamente da preferirsi adattamenti con finalità culturali (musei, aule per conferenze, librerie, biblioteche, archivi, laboratori artistici ecc.) o sociali (luoghi di incontro, centri Caritas, ambulatori, mense per i poveri e altro).

L’impiego dei luoghi religiosi dismessi sia le chiese, che gli oratori, per attività musicali classiche, sinfonica, lirica, contemporanea, è una delle possibili utilizzazioni dei luoghi dello spirito. L’Orchestra di Padova e del Veneto, ad esempio, utilizza un antico oratorio (San Rocco) di proprietà pubblica come sala prove e registrazione audio-video, anche grazie alla presenza di statue ed affreschi di valore storico e culturale. Di recente, sia la RAI che la tv tedesca hanno impiegato e diffuso registrazioni musicali realizzate presso l’oratorio di San Rocco di via Santa Lucia a Padova, anticamente una pertinenza della chiesa dell’Adorazione Perpetua della Diocesi di Padova.

(1 – segue)

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