Parrocchia di Ariano: la visita del vescovo Germanico Mantica, 1635
Premesso un accenno alla parrocchia e alle visite pastorali tratto dal sociologo francese Gabriel Le Bras, l’autore ricostruisce la visita fatta nel 1635 dal vescovo di Adria Germanico Mantica nella parrocchia di Ariano sulla base dei documenti consultati nell’archivio della Curia vescovile di Rovigo. L’articolo si conclude con un riferimento alla cosiddetta colonna miracolosa, conservata nella millenaria chiesetta di San Basilio.
Parrocchia e visite pastorali
1. Che cosa s’intende per parrocchia? Rispondo ricorrendo a Gabriel Le Bras, autorevole studioso di storia e sociologia religiosa, che analizzò e descrisse le forme della religiosità nelle comunità rurali francesi di fine Ottocento-primi del Novecento. La parrocchia è una collettività vivente raccolta intorno a una chiesa, affidata alle cure di un parroco, il cui superiore naturale è il vescovo, in comunione con il Pontefice. È caratterizzata da una certa unità di costumi, di usanze, di lingua, formata da gruppi sociali distinti per attività esercitata. Sotto l’aspetto giuridico, è qualcosa di diverso dai fedeli elencati nei registri degli “stati d’anime” (una sorta di stato di famiglia dei parrocchiani), o dagli oratori eretti in onore di un santo. Che le persone costituiscano un tessuto sociale è certamente una condizione essenziale, ma è il diritto che ne definisce l’organizzazione. Una chiesa non è una parrocchia: è solo un edificio sacro, così come non lo è un gruppo piccolo o grande di credenti. “…l’essenza della parrocchia è il legame parrocchiale. Essa può anche perdere la sua autonomia, ma continuerà ad esistere finché continuerà il legame, costituito da tutti gli obblighi giuridici, spirituali e temporali che il parrocchiano ha verso la sua chiesa…”. La si può immaginare come un’organizzazione regolata da norme, che persegue il raggiungimento di un fine spirituale. Il diritto canonico regola lo svolgimento della vita parrocchiale: dalla nomina del curato alla conservazione dei beni sacri; dal ruolo delle confraternite (allora numerose e molto attive) al giuspatronato (privilegio riconosciuto ai fondatori di chiese o cappelle consistente nel diritto di scegliere il sacerdote, proponendone la nomina al vescovo).
La parrocchia si può considerare come una piccola Chiesa (Parochia quasi ecclesiola) nella quale “si riflettono tutti i movimenti della grande Chiesa”. Può essere paragonata ad una carovana che intraprende un lungo viaggio verso la terra promessa per raggiungere uno scopo puramente spirituale. Se i Comuni, per il loro aspetto istituzionale e amministrativo, costituiscono un interessante campo di ricerca storica a causa del loro lungo passato, lo stesso si può dire delle parrocchie, che hanno avuto un’evoluzione analoga. I padri del Concilio di Trento (1545-63) chiedono che l’organizzazione parrocchiale sia estesa a tutta la cristianità. La parrocchia ha il compito di conservare la fede, di mantenere integra la morale cristiana e di promuove iniziative di solidarietà verso i deboli, i poveri, i malati, come testimoniano gli ospedali o le società di beneficenza e di soccorso. Attraverso gli atti di culto, la predicazione, l’istruzione catechistica ha creato una vita comunitaria che tende a sedimentarsi e a perdurare nel tempo. L’obbligo della frequenza della messa domenicale, le solenni festività del Natale, della Pasqua, del santo patrono, le processioni, la predica, l’amministrazione dei sacramenti, riuniscono gli abitanti nella chiesa che diventa “la loro casa comune, il loro teatro sacro, il loro rifugio”.
2. La visita alle parrocchie della diocesi rappresenta la forma più visibile del pastore in mezzo al proprio gregge, del vescovo accanto al popolo dei credenti. Dopo il Concilio di Trento, le visite acquistano una valenza più marcata rispetto ai secoli precedenti, per la maggior attenzione rivolta alle questioni pastorali. Le cronache del tempo mettono in luce “talune difficoltà ambientali oggi impensabili. Spesso gli ostacoli naturali, come cattive strade, fiumi straripati, precipizi…sono là per scoraggiare i prelati che devono spostarsi a cavallo e, generalmente, nella cattiva stagione, perché l’estate è riservata al lavoro dei campi”. La citazione si riferisce alle visite in terra francese del secolo XVII, ma balzano agli occhi alcune analogie con la realtà territoriale della diocesi di Adria, anche se nelle parrocchie situate lungo i corsi d’acqua (è il nostro caso) lo spostamento in barca risulterà l’unico possibile rispetto alla carrozza e ai cavalli. I verbali e i resoconti descrivono minutamente lo svolgimento delle visite. Dopo l’accoglienza dei fedeli, solitamente calda e festosa, il vescovo segue un percorso obbligato, che va dall’altar maggiore ove è esposto il Santissimo, agli altari laterali, tutti minutamente descritti e controllati. Lo stesso vale per il battistero, le cappelle, i confessionali, fino al cimitero che circonda la chiesa. Normalmente il vescovo, con il proprio seguito, viene ospitato presso la canonica, o una famiglia benestante. Qui riceve i sacerdoti, i massari delle confraternite, i fedeli che a lui si rivolgono per la soluzione delle controversie. I verbali, come ogni documento che registra argomenti delicati per natura, specie se riferiti a comportamenti di singole persone, non sempre riportano letteralmente quanto è stato detto. Ci sono osservazioni che il visitatore affida alla memoria, oppure annota altrove, su fogli personali e riservati. Il vescovo non solo ispeziona e corregge, ma pone con insistenza l’accento sul clero. Si assicura che i sacerdoti abbiano la capacità, la premura e la condotta morale necessaria per assolvere gli incarichi pastorali. In un secondo tempo dirige l’attenzione ai fedeli. Verifica se adempiono regolarmente ai propri doveri o se frequentano l’osteria invece della chiesa quando si celebra la messa. Questi accenni sommari non esauriscono il compito del vescovo. Egli assume un ruolo propositivo e di stimolo per rafforzare la vita cristiana individuale e comunitaria. Indica ai sacerdoti come migliorare l’efficacia della predica e come conservare i registri delle nascite, dei battesimi, dei matrimoni, dei defunti. Comanda di abbellire (o anche di togliere) una pala d’altare, di fondare una confraternita della quale fornisce lo statuto. Controlla i registri contabili, l’amministrazione dei legati di messe disposti mediante atti notarili. Risolve liti, abbreviando la tortuosa via giudiziaria. Infine amministra il sacramento della cresima a tutti coloro che non avevano ancora raggiunto l’età prescritta in occasione della visita precedente.
3. Le visite pastorali rendono possibile, non soltanto la ricostruzione della storia religiosa di una comunità parrocchiale, ma anche della vita sociale ed economica del territorio. Basti pensare alla dinamica della popolazione, spesso rilevabile dai registri parrocchiali che anticipano l’istituzione delle anagrafi civili; agli arredi, ai quadri, alle statue, agli ex voto; alle leggende, spesso risalenti a tempi lontanissimi, rimaste nella memoria popolare. (si pensi alla colonna miracolosa di San Basilio). Quando i diari descrivono con precisione i percorsi seguiti, aiutano la conoscenza dell’ambiente fisico e climatico. Emerge una mappa sulle condizioni delle vie di comunicazione secondarie, trascurate dalla geografia antica: vie poco battute, sentieri a volte impraticabili, corsi d’acqua minori o approdi sconosciuti, magari per raggiungere un oratorio eretto in una golena di fronte al fiume, quasi a placarne la furia devastatrice. La visita pastorale raggiunge anche i luoghi difficilmente raggiungibili del territorio diocesano e getta fasci di luce, spesso gli unici oggi rimasti, su chiese, villaggi, e piccole comunità delle zone rurali. Alcuni studiosi hanno confrontato i dati risultanti dalle visite con altri documenti. L’analisi ha rivelato, nei rapporti dei visitatori, anche omissioni, silenzi e inesattezze. Ad esempio certi sacerdoti, considerati diligenti pastori dai fedeli, erano contemporaneamente inquisiti dal tribunale vescovile per gravi mancanze. Non tutti e non sempre dicono o scrivono tutta la verità al momento della visita, specie quando le dichiarazioni, magari basate sul “si dice”, comportano conseguenze spiacevoli. La reticenza fa parte del comportamento umano. Per questo lo storico non attribuisce al documento un valore indiscutibile, ma lo interroga e lo confronta con rigore metodologico, onestà intellettuale, intelligente prudenza, contando sulla maturità acquisita con la conoscenza delle dinamiche personali e collettive.
Visita pastorale del vescovo Germanico Mantica, 1635
1. Come sarà apparsa la parrocchia di Ariano agli occhi di Germanico Mantica? Prima di rispondere vorrei precisare che anche una sola parrocchia può assicurare informazioni soddisfacenti. Permette di cogliere aspetti non solo dei luoghi fisici ma anche psicologici di singole persone: il parroco in particolare, punto obbligato di riferimento; i semplici fedeli; i massari delle confraternite animatori con i confratelli della vita parrocchiale mediante pratiche di devozione e di culto. Permette altresì di caratterizzare meglio l’intreccio con la comunità civile coincidente per territorio. Teniamo presente un dato di solito trascurato. Ariano, (al pari di Corbola), era una Comunità dello Stato Pontificio, incardinata nella Legazione di Ferrara, ma in quanto parrocchia dipendeva dalla diocesi di Adria, situata nella Serenissima Repubblica di Venezia. Ne conseguiva che i processi, ad esempio, si svolgevano davanti al tribunale ecclesiastico di Ferrara, non a Rovigo o ad Adria, perché non era consentito convocare i sudditi papalini in uno Stato estero (tale era la Repubblica di Venezia) per amministrare la giustizia. Il suo confini meridionale si estendeva in buona parte alla destra del Po di Goro, da Serravalle al mare. (1)
Giovedì 22 aprile 1635 il presule raggiunse Ariano, paese di circa 2.200 anime. Mentre scendeva col suo seguito dalla barca ormeggiata all’altezza dell’attuale piazza Garibaldi, venne accolto con tutti gli onori dal popolo, dal clero e dalle autorità civili. Dopo una sosta ristoratrice nella casa canonica, entrò nella chiesa arcipretale dedicata a Santa Maria (non ancora Santa Maria della Neve, titolo attribuitole nel 1668), affidata alle cure di don Giovanni Tabarini, il quale “la teneva bene, et adempiva l’obbligo suo”. L’edificio, ristrutturato nel 1609 grazie a un notevole sforzo finanziario sostenuto in buona parte dalla Magnifica Comunità di Ariano, abbellito e pienamente funzionante, aveva due porte d’ingresso: “…una versa ponente, l’altra verso mezzogiorno, di fronte a quella, che è la maggiore, sta l’altare maggiore”. Piccolo rebus da sciogliere. La porta della facciata principale, parallela alla strada Sivilunghi (poi via della Chiesa, ora via Giacomo Matteotti) è rivolta a nord e non, come potrebbe sembrare, a sud. La formulazione verso mezzogiorno significa “conduce in direzione di mezzogiorno”. Quindi l’altare maggiore, collocato di fronte a quella, si trovava nella posizione attuale. Una porta secondaria si apriva sul lato destro (ponente), verso il cimitero che circondava l’edificio sacro.
2. L’altare maggiore aveva un grande tabernacolo adorno di figurine dorate: dietro, il coro e, a destra, la sagrestia. Il vescovo ordina di completare la doratura della pisside “dove era riposto il Santissimo Sacramento per le comunioni”, custodita con le particole per gli infermi deposte in un vasetto d’argento; di rivestire l’interno del tabernacolo con seta per maggior decenza; di applicare alla finestrella sovrastante il coro un graticcio, affinché dall’esterno occhi indiscreti non vedano alzare il Santissimo mentre si celebra.
Dalla lettura degli atti delle visite compiute dal Mantica nelle altre parrocchie della diocesi risulta che i parroci si erano attivati per abbellire i tabernacoli con intagli e fregi dorati. L’altare della Beata Vergine del Rosario, al quale era aggregata l’omonima confraternita, era adornato da una splendida pala lignea dorata con un’immagine della Vergine. Il vescovo decreta di indorare il basamento sottostante, adornare il pallio con “pittura, o altra cosa dorata” avendo cura di creare un insieme armonico e di “levare gli scalini dove si pongono i candelieri”.
L’altare di San Francesco aveva la pietra sacra, una lampada di ottone, una pala dorata e dipinta, candelieri lignei. I patroni, signori Pendasi (famiglia ferrarese proprietaria di beni terrieri nell’isola), vengono richiamati al dovere di fornire croce e candelieri di ottone, ma soprattutto di sostituire il coperchio di legno della sepoltura di famiglia con una lastra di marmo. La confraternita del Santissimo Sacramento si occupava dell’altare del Crocefisso e di San Carlo. Occorreva allargare la pedana per assicurare maggiore spazio al celebrante, riparare il piedestallo della statua di San Carlo ed applicare un pallio di cuoio ricamato con fili dorati. L’altare intitolato a San Nicolò, situato all’interno di una cappella adorna di corami d’oro, era mantenuto da una persona pia, il capitano Marco Morlacheto, coadiuvato da un fedele autorizzato a raccogliere le elemosine. La pala mostra in bassorilievo la figura di San Nicolò tra i santi Giacinto e Raimondo. Bisognava “spostare un poco più in dentro la pietra sacra” e otturare la cavità rimasta con un asse o un’altra cosa decorosa. L’altare di San Lorenzo ha una piccola pala dorata “nel mezzo della quale sta S. Antonio Abate, da una parte S. Sebastiano, dall’altra S. Rocco, et ai piedi di questi S. Lorenzo”. Necessitava costruire uno scalino per poter salire più comodamente. Disposizioni analoghe per l’altare della Circoncisione di Nostro Signore, mantenuto dalla confraternita del Rosario: ampliare la predella troppo ristretta e aggiustare gli scalini.
Nelle chiese più sfarzose come nei modesti oratori si nota la costante attenzione agli altari e in particolare alla pietra sacra, contenente reliquie consacrate protette da un sigillo, la cui collocazione doveva risultare esente da imperfezioni, allo stesso livello della mensa, non incassata, né sporgente, non incrinata o rotta nei punti di congiunzione. Germanico Mantica dispone ovunque la sostituzione delle croci e dei candelieri di legno con altri di ottone. Prima della visita aveva celebrato la messa e controllato diligentemente il Santissimo Sacramento, il battistero e gli oli santi. Ordinò di sostituire il vaso utilizzato per il battesimo con uno più grande, separato in due parti in modo che “nell’una si tenga l’acqua, nell’altro si battezzi” e di foderare di cosa decente le finestrelle a sinistra dell’altare maggiore, dove si custodivano gli oli santi.
3. Gli oratori sono edifici sacri, solitamente di capienza limitata, dotati di un altare, dipendenti o sussidiari della chiesa principale, privati (costruiti da e per una famiglia) o pubblici (indipendenti dall’abitazione, con l’ingresso sulla pubblica via), soggetti in entrambi i casi a specifiche limitazioni evidenziate nell’atto di concessione ecclesiastica. Vi era consentito celebrare la messa, ma non gli uffici e i riti propri della parrocchiale. Il parroco esercita una funzione di controllo per conto dell’ordinario diocesano. Se necessario, “può farvi capo per il viatico ai moribondi, sempre che faciliti l’assistenza ai bisognosi di soccorso” e, se a breve distanza dalla chiesa madre, può utilizzarlo nella settimana santa per iniziare i turni di adorazione delle Quarant’ore. Spesso l’oratorio veniva ceduto alla chiesa, “e allora in esso trovava sede qualche confraternita” che, acquisendo il diritto di giuspatronato, subentrava al costruttore nel dovere di mantenerlo attrezzato e funzionante. I motivi più diversi avevano indotto singoli, famiglie o gruppi “a chiedere l’erezione di un Oratorio: un ex voto per uno scampato pericolo, o la paura dell’ignoto che causa timori, incertezze, controversie inestricabili, mali, dolori e per i bisogni del vivere quotidiano”. Uomini e donne supplicano e pregano fiduciosi i santi e la Vergine Maria di intercedere presso Dio per ricevere l’aiuto di cui hanno bisogno. Le frequenti alluvioni, portatrici di carestie e sofferenze “giustificano la pietà popolare che indusse interi paesi a costruire, con grandi sacrifici, oratori sulle rive dei fiumi, quasi a scongiurare i Santi ad una forzata protezione”. L’oratorio fa parte del paesaggio: è un segno del sacro. Contribuisce a confortare il viandante e persino ad alleviare le dure fatiche del lavoro quotidiano. Entra a far parte della rappresentazione dell’ambiente fisico e umano. Il nome del santo protettore attribuito all’oratorio è indicativo della mentalità, dei bisogni, delle speranze degli abitanti di un borgo o di una contrada, di una piccola o grande comunità: “Ognuno lo sente come cosa sua: ivi ha deposto le sue angosce, ivi ha chiesto aiuto e lumi, ha affidato la vita dei suoi cari, ha scongiurato per la serenità del pane quotidiano, ha promesso, in compenso, solo di essere buono e non far male a nessuno”.
4. Il vescovo Mantica dà per primo notizia dell’esistenza di un oratorio dedicato a San Francesco di Paola: “Nel detto castello d’Ariano S.S. Illustrissima ha visitato un Oratorio di San Francesco di Paola (provincia di Cosenza), nel quale vi è un altare con croce, e candelieri di legno, parte dorati, e parte dipinti, la Pala con la Beata Vergine di Loreto, et per parte (ai lati) della Madonna due Angeli, più a basso, da una banda San Francesco di Paola, dall’altro San Nicolò, et innanzi l’altare una lampada d’ottone. Qui sta esposta una cassetta, et dell’elemosine si provvede ai bisogni di detto Oratorio, il quale ha una campanella”. Effettuata una rapida visita, decreta: “entro una settimana la confraternita del Carmine dovrà restaurare l’altare, ricoprirlo con tovaglie e dotarlo di tutti gli oggetti necessari per celebrare degnamente la messa, attenendosi alle istruzioni dell’arciprete, il quale curerà che le elemosine siano spese bene, et in servizio della Chiesa”. Se il decreto non fosse stato applicato, la celebrazione della messa doveva ritenersi sospesa ora per allora.
Non conosciamo l’esatta ubicazione dell’oratorio. Considerando però itinerario e orario degli spostamenti del visitatore nel corso della giornata ed escludendo i luoghi sacri chiaramente individuabili, possiamo affermare che sorgeva in zona golenale lungo il Po di Ariano a poco meno di un chilometro a valle dell’abitato. Sorprende che autori scrupolosi lo presentino con questa sbrigativa annotazione: “È menzionato dal vescovo Speroni, nel 1790, come oratorio; null’altro sappiamo”. In realtà esistono altre informazioni raccolte e annotate dall’abate Mauro Giovannetti, vicario generale che, delegato dal vescovo Francesco Mora, si recò il 7 giugno 1763 all’oratorio di San Francesco di Paola, eretto nel territorio di Ariano, affidato alla cura del cappellano Francesco Boldrini. Il visitatore sottolineò l’ottimo stato di conservazione della struttura muraria. Nulla ebbe da eccepire sulla dotazione di mobili e ornamenti sacri. Ordinò che sopra il confessionale fosse apposta una croce e la tabella dei casi riservati. L’oratorio, facilmente accessibile ai fedeli residenti nelle case sparse attorno alla località detta La Marabina, aveva svolto nel corso di circa centotrenta anni un apprezzabile ruolo sussidiario alla parrocchiale. Il 12 giugno 1790 il vescovo Arnaldo Speroni degli Alvarotti non trovò sul posto la persona incaricata di mostrargli le suppellettili sacre e si allontanò. Questo è tutto. Il piccolo edificio, probabilmente già in stato di abbandono, semidistrutto nel 1839 da una rotta del Po e non più ricostruito, scomparve definitivamente. In riva al fiume rimasero a lungo i rottami di pietre e calce, ultima testimonianza di una presenza durata almeno due secoli.
5. L’oratorio dell’Anconella, visitato il 23 aprile 1635, era stato costruito nei primi anni del Seicento per la pietà della gente del luogo circa due chilometri a monte di Ariano, sulla riva sinistra del Po di Goro, in località Anconella e affidato alle cure della confraternita del Rosario. Vi facevano capo anche gli abitanti delle Valline, minuscolo borgo sulla sponda opposta. L’altare era fornito di croce, candelieri e lampada di ottone. Una vecchia pala dorata e dipinta presentava l’immagine della Beata Vergine fra i santi Giacomo e Nicolò; due quadri ai lati raffiguravano S. Carlo e S. Francesco. Altri quadri (La Madonna e San Giuseppe sopra l’asino e Nostro Signore che va con i discepoli in Emmaus) adornavano le pareti. Il vescovo, sottolinea un fatto fino ad oggi ignorato e mai documentato, che dà la misura della devozione popolare: “et vi vengono fatti voti, et se ne trovano anco alcuni d’argento, altri in tavolette, et vi sono portate anche grucciole (stampelle) da storpiati”. Accogliendo la richiesta più volte inoltrata dai fedeli, decretò che si potesse riprendere a celebrare la messa.
Fin dall’inizio del Seicento la confraternita del SS. Sacramento disponeva di un proprio oratorio, intitolato a San Nicolò, a brevissima distanza dalla parrocchiale, confinante con la chiesa e il convento dei Frati riformati di San Francesco (zoccolanti). Il vescovo, accompagnato dal massaro (sindaco), lo visitò il 23 aprile 1635. Rilevò segni di trascuratezza e abbandono: disordine, paglia sparsa sul pavimento, una parete annerita in corrispondenza del camino di una casetta attigua. Dispose che entro un mese l’altare fosse adornato “di tutte le cose necessarie secondo il parere dell’Arciprete”, al quale conferì l’autorità di ribenedire l’oratorio. In seguito i confratelli avrebbero potuto “celebrare Messa, recitar li loro offici, adempiere tutte le altre cose ad essi spettanti per le loro regole, et costitutioni”. Il vescovo ordinò di ricostruire la casa adiacente all’oratorio, di non concederla in affitto “a donne, o uomini di cattiva opinione” ma soltanto a persone oneste di buona fama. Terminata la costruzione, si doveva murare l’uscio interno, in modo che non si potesse entrare se non per la porta principale. Impose infine di adempiere con puntualità a tutte le disposizioni impartite alla confraternita.
Chiesa di San Basilio: leggenda della colonna che sudava olio
Il visitatore apostolico avverte un fascino particolare mentre indugia nella contemplazione dell’antica chiesetta di San Basilio, lontana circa tre miglia dal paese. Ampia quanto basta per essere chiesa rurale, ha “un camerino a mezz’aria, capace di un letto” e una campana assai buona. Sopra l’altare una croce d’ottone, quattro candelieri d’ottone, due di legno, due candelabri dorati nella metà superiore. Le icone: una Trinità dipinta sul muro, una pala di recente fattura con l’immagine della Beata Vergine, molto venerata dal popolo. Una pala consumata dal tempo, deposta in un angolo, mostra un crocifisso nel mezzo, ai lati una Madonna e San Giovanni, poco più distanziati da una parte San Pietro, dall’altra San Basilio e in alto Dio Padre con una Nunziata (Madonna). In stridente contrasto con la sacralità del luogo, un’annotazione riporta a un duro presente: “nella medesima chiesa abitano ventiquattro soldati, con un Sergente, et in tutto d’intorno (sono) forate le muraglie per balestriere (feritoie usate per le balestre)”.
Per quale straordinaria ragione il luogo sacro è utilizzato come fortilizio? La vertenza sui confini nella Terra di Ariano tra Roma e Venezia, accentuatasi dopo il taglio di Porto Viro (1604), si protrasse fino al 1749 e impegnò le rispettive diplomazie in trattative estenuanti. Ostilità e ritorsioni reciproche culminarono con la costruzione di fortificazioni e l’invio di soldati nei punti strategici nel delta del Po a presidio dei terreni di nuova formazione (alluvionali), rivendicati come propri dalla Serenissima. La località San Basilio, faceva parte di un articolato sistema di piccole postazioni difensive allestite nel 1633 dallo Stato pontificio nelle immediate vicinanze delle zone di maggior contrasto. In caso di incursioni di barche armate il Po di Goro era una rapida via di penetrazione. Il 23 aprile 1635, mentre Germanico Mantica visita la chiesetta, un corpo di guardia prestava servizio difensivo: ecco la ragione per cui le muraglie erano forate per balestriere.
Il vescovo continua: “In un cantone si ritrova una mezza colonna di marmo mischio con un capitelletto sotto e sopra una Crocetta”. Il capitello (il diminutivo ne sottolinea le piccole dimensioni), normalmente l’elemento che sovrasta la colonna, qui costituisce la base: si tratta della metà superiore di una colonna capovolta.
La notizia, registrata per la prima volta, diverrà motivo di interesse per gli studi etnografici. La credenza popolare attribuiva alla colonna il potere di far guarire il mal di testa (“questa si dice esser miracolosa per quelli che hanno dolor di capo”). La sobria annotazione non alimenta supposizioni fantasiose. Traspare però un impercettibile stupore. L’uso dell’aggettivo miracolosa, nella composta indeterminatezza del brevissimo testo, non provoca una reazione di incredulità ma piuttosto una momentanea sospensione del giudizio, uno stimolo a ricercare ulteriori elementi. La convinzione dell’umile gente del luogo, gelosamente conservata e trasmessa da una generazione all’altra probabilmente fin dal primo Cinquecento, riguarda la donna, la maternità, la fertilità, l’allattamento dei bambini: risulta intimamente legata ai momenti misteriosi e fondamentali della vita. A questo punto riepilogo brevemente la questione attenendomi alle scarne e prudenti testimonianze delle visite pastorali e a quelle più suggestive e spontanee tuttora riscontrabili nella tradizione orale, raccolte dall’etnografo ferrarese Roberto Roda.
Germanico Mantica aveva scritto testualmente (1635): “In un cantone della detta Chiesa si ritrova una mezza colonna di marmo mischio con un capitelletto sotto, e sopra una Crocetta. Questa si dice esser miracolosa per quelli, che hanno dolor di capo”. Gli studiosi che hanno analizzato questa informazione hanno riportato “con un capitelletto rotto” e non “con un capitelletto sotto”. La colonna era collocata in un angolo della chiesa, senza precisare quale (ai lati dell’altare o all’ingresso?). Il visitatore si limita a riferire la credenza popolare: la colonna avrebbe alleviato o sanato i patimenti ai sofferenti di dolori al capo. La dizione generica e prudente riporta uno soltanto dei presunti effetti prodigiosi (probabilmente l’unico riferito al presule in quella circostanza), non accenna alle caratteristiche personali o psicologiche dei (delle) postulanti né alla gestualità rivelatrice delle modalità di svolgimento del rituale.
I resoconti delle visite pastorali successive di Giovanni Paolo Savio (1645), Bonifacio Agliardi (1656, 1659), Tomaso Retano (1668, 1674), Carlo Labia (1681) e Filippo della Torre (1703) restano incredibilmente silenti. Soltanto nel 1718 il vescovo Antonio Vaira annota che la colonna, un tempo collocata sotto l’altare, trasudava un liquido simile a un olio, dotato – si deduce – di proprietà miracolose, sulle quali mancava qualsiasi riscontro. Importa notare che il vescovo ricava questa informazione non da un generico “si dice”, ma da un testo riportato in una tabella posta accanto alla colonna (ex tabella prope eam scripta). Il termine sembra indicare, più che una pergamena, una tavoletta di legno, fissata ad una parete, con un testo scritto con evidente intento informativo non si sa quando e da chi, esposta con il tacito assenso dell’autorità ecclesiastica.
Giovanni Soffietti, successore di Antonio Vaira nel governo della diocesi (1733 – 1747), visitò l’antica pieve il 10 settembre 1745. Rivolta l’attenzione a una tavoletta da molto tempo conservata, scritta (come gli venne riferito) per ricordare un avvenimento prodigioso, ordinò di ricopiarla. Il notaio trascrisse, l’iscrizione consistente in una strofetta di due versi: “Transmissum hic Nobis oleum polluta negavit – Causavit tantum foemina sola malum” e cioè: “La colonna, profanata, cessò di fornire a noi qui olio – Una sola femmina causò un male così grande”. Segue una quartina, probabilmente ispirata dalla suggestione del momento, che attribuisce a un atto sacrilego compiuto da un’ignota peccatrice il motivo per cui la colonna aveva cessato di trasudare l’olio miracoloso: “Mosè Divin da un sasso acqua diffuse – Provido all’altrui sete, e Donna ria – All’Oglio, che di qui salubre uscia – Il Luogo profanando, il varco chiuse”. Le fonti vescovili nell’arco di tempo compreso tra il 1635 e il 1745 si possono così riassumere: la voce popolare attribuisce a una colonna di marmo la miracolosa proprietà di guarire il male di testa. Un liquido oleoso (probabile effetto di un particolare microclima) trasudava dalla colonna. Il fenomeno cessa di manifestarsi. Questi due ultimi dati non si ricavano da improvvisati testimoni ma da iscrizioni. Il commento del presule si limita a riferire che l’olio era salubre (?) e accenna per la prima volta una figura umana, una donna (guarda caso, una peccatrice).
Centocinquanta anni dopo lo storico arianese Gustavo Cristi scrive: “Non sappiamo quando la chiesa di San Basilio sia stata eretta. Qualcuno la vorrebbe in origine un tempio pagano, anche perché si è trovato in essa una colonna di marmo nero venata di bianco sulla quale si sarebbe adagiata la tavola per il sacrificio cruento secondo il rito pagano. La colonna una volta era situata sotto l’altare, e ad essa si accedeva per una piccola porta dalla parte del coro, scendendo pochi gradini ed al chiaror di candela si osservava la colonna, la quale (forse per mancanza d’aria, per l’umidità del luogo ove si trovava e per il freddo del marmo) era sempre umida da sembrare unticcia; per cui si diceva che sudava olio. Le si attribuiva la virtù di ridonare il latte alle donne. Quelle che avevano la disgrazia di perderlo, si portavano in San Basilio, entravano nel ripostiglio della colonna, scioglievano le trecce e le stropicciavano contro di essa, poi uscivano e, inginocchiate dinanzi all’altare, pregavano intercedendo dalla Madonna la grazia di ricuperare il latte per alimentare le proprie creature. Si dice che molte delle postulanti siano state esaudite. Ora non so se la credenza sia cessata, per il fatto che la colonna, tolta dal disotto dell’altare e posta in una nicchia scavata nel muro della chiesa, trovandosi all’asciutto e all’aria, non suda più olio”. (2) La leggenda della colonna miracolosa resta avvolta nel mistero ma sopravvive nella memoria collettiva. Sembra far parte naturalmente di un paesaggio suggestivo, ricco di testimonianze archeologiche messe in luce da una serie di scavi archeologici e contribuisce al fascino discreto emanato dall’antichissima pieve. I racconti degli abitanti della località di San Basilio presentano qualche variante nei dettagli, ma tutti convergono nella sostanza: le donne nell’imminenza del parto, o le puerpere che non producevano latte per nutrire i loro figli “andavano in chiesa a chiedere la grazia al Signore di avere latte in abbondanza e sfregavano i capelli o il seno nella colonnina”.
Roberto Roda, premesso che la leggenda della pietra posta in un luogo sacro che trasuda liquido miracoloso è ampiamente diffusa, ritiene molto più interessante, dal punto di vista etnografico, il rituale di fertilità che sembra verificarsi attorno alla colonnina. La gestualità dello sfregamento “è in linea con quanto sappiamo sui culti litici della fertilità che in certe aree del Piemonte e della Francia sono stati praticati sino a pochi decenni or sono (e forse lo sono ancora)”. E conclude: “Lo studio della leggenda della colonna dovrà dunque cercare di chiarire se, come e per quanto tempo si sia mantenuto attivo a San Basilio un rituale di fertilità di cui la cultura locale sembra mantenere un ricordo piuttosto ben delineato”. (3)
NOTE
1) Germanico Mantica, di nobile famiglia udinese, resse la diocesi di Adria per un breve periodo (1633-1639). Si distinse per l’energia nell’affrontare il problema del comportamento del clero, ancora poco sollecito ai richiami tridentini. A due anni dall’insediamento, iniziò la prima (e unica) visita pastorale nella comunità di Ariano.
2) CRISTI GUSTAVO, Storia del Comune di Ariano Polesine, Padova 1934, p. 78.
3) RODA ROBERTO, Oralità e fotografia costruita nel racconto espositivo di interesse etnografico. Sperimentazioni e progetti lungo il Po, in Etnografie intorno al Polesine in età moderna e contemporanea. Atti del XXIV convegno di studi organizzato dall’Associazione Culturale Minelliana., Rovigo 11-12 novembre 2000, Rovigo 2003, II ed., p. 306.
Ariano nel Polesine, chiesa parrocchiale di Santa Maria della Neve. La facciata di laterizio intonacato è caratterizzata da quattro elementi di sostegno a forma di pilastro in parte sporgenti con rudimentali capitelli corinzi. Nell’architrave la scritta D.O.M: et Beatae Mariae V. ad Nives. Uno stemma vescovile sovrasta la porta centrale. Sul frontone: scultura della Madonna in posizione centrale; di San Basilio e San Rocco ai lati.
Ariano nel Polesine, chiesa parrocchiale di Santa Maria della Neve. Particolare del campanile e lapide rinvenuta il 18 ottobre 1978 sul lato destro della chiesa, a 40 cm di profondità, dove erano localizzati l’altare e l’oratorio della confraternita della Beata Vergine del Carmine. Reca la scritta “D.O.M. – per li frattelli della Ven.(erabile) Confr.(aternita) della B.V. del Carmine – l’anno 1768”. È stata murata all’esterno della cappella battesimale.