Dino Zandegù, aedo delle due ruote, si racconta in un libro
Il ruolo di gregario di Gimondi e Merckx non gli impedì di conquistare quaranta vittorie
Correre da gregario negli anni di Gimondi e di Merckx il Cannibale e ottenere quaranta vittorie da professionista vuole dire scrivere una grande pagina del ciclismo, di quel ciclismo rustico e ruspante di cui si è persa traccia ma che ancora racconta di un’Italia volenterosa e popolare, rurale e operaia, paesana, che non si sottraeva alla fatica di ogni giorno.
Parliamo di Dino Zandegù, classe 1940, nato a Rubano nel padovano, che all’età di 85 anni ha deciso di raccontarsi in Se cadono tutti vinco io. Cento storie vere al 90% con un libro (Ediciclo Editore) “dettato” a Marco Pastonesi, fresco di stampa. Storie brevi e brevissime, poco note e spesso divertenti, che si leggono e che si ascoltano con piacere e passione, storie di vita che ci parlano di un mondo irrecuperabile e impensabile.

Dino Zandegù, figlio del fornaio del paese, unico maschio tra sette sorelle, fa parte della schiera eletta dei matti, degli imprevedibili, degli allegri. E anche dei narratori, degli affabulatori, dei cantastorie, degli aedi. Perché lui era l’eccesso alla regola, perché lui esagerava, perché lui trasgrediva e peccava, quando gli altri, avversari e compagni di squadra, erano invece tutti disciplina, serietà e rigore.
“Zandegù, sei tutto sbagliato, sei tutto da rifare”, gli disse un giorno Gino Bartali, all’arrivo di una corsa, negli anni in cui reclutava matricole da far passare al professionismo. Cosa aveva mai combinato quel giorno Zandegù? Siamo al Giro del Veneto del 1962 e la corsa passava proprio davanti a casa sua, per Rubano, e lui aveva già staccato tutti, aveva tre minuti di vantaggio su tre inseguitori e mancavano pochi chilometri all’arrivo. Fuori di casa c’erano proprio tutti ad aspettarlo, suo papà, sua madre, le sue sette sorelle. Ebbene, quel Zandegù tutto sbagliato non resistette alla tentazione, si fermò, scese dalla bicicletta, la appoggiò al muro del panificio e abbracciò tutti, ma proprio tutti. E fu così che i tre inseguitori lo raggiunsero e lo superarono e lui finì solo quarto.
Ma il suo debutto era avvenuto in una corsa riservata agli esordienti, in un circuito ricavato al Campo Marzio di Vicenza. Lui, Zandegù, che aveva da poco stracciato tutti in una corsa tra amici sui Colli Euganei, diventando subito l’idolo del paese, mancava di tutto. Non aveva ancora una squadra, e così si iscrisse in fretta e furia al Gruppo Sportivo Coldiretti di Rubano; non aveva una maglia, e così gliene trovarono una bianca e blu fiammante; soprattutto non aveva una bicicletta da corsa, e così gliene procurarono una tramite una specie di colletta popolare: ci fu chi acquistò un manubrio, chi recuperò un telaio, chi portò un paio di ruote. E a Vicenza per quella gara ci andò con la Vespa guidata da Orazio Vecchiato dell’Azione Cattolica con lui seduto dietro che si portava in spalla quella sua bici assemblata. Vinse in volata, con ampio margine, davanti all’intera Rubano che si era svuotata per andarlo a vedere quella sua giovane promessa sul circuito vicentino.
In bici però avrebbe sempre fatto fatica, ne fu consapevole fin da quel primo giorno di gloria e lui alla fatica, quella vera e propria, fu sempre come contrario. “Se una persona è normale, non fa il corridore”, dirà molti anni dopo, quando con le corse aveva già chiuso da un pezzo. E sapeva anche riconoscere i suoi limiti. Diceva che Gimondi “era un gran campione, io neanche piccolo”.
Il suo capolavoro? Il Giro delle Fiandre 1967. Sì, perché il Giro delle Fiandre è il ciclismo, almeno per i belgi. É festa nazionale e popolare, è anniversario, è, soprattutto, religione. Lì non esiste corsa, gara, appuntamento più sentito. Lo si capisce due ore prima della partenza, anche sotto la pioggia, quando il popolo assedia il palco della presentazione. Lì vinse facendo l’ultimo chilometro in apnea, alzando il braccio destro sul traguardo, arrivando prima di Merckx, prima di Gimondi, prima di Janssen. Intervistato da Adriano De Zan, venne a sapere che fin dal mattino c’erano decine di minatori italiani che aspettavano sotto la pioggia e la neve, sperando nella vittoria di un connazionale. De Zan gli chiese di fare qualcosa per loro e lui, Zandegù, per riscaldarli si mise a cantare “O sole mio”, solo un paio di strofe, ma tanto bastò: quei minatori piansero, si abbracciarono e non avrebbero voluto che li lasciasse per andare all’antidoping.
Il suo rimpianto? Non essere mai riuscito a vincere una Milano-Sanremo, corsa adattissima alle sue caratteristiche per la distanza di quasi trecento chilometri e per il finale in rettilineo. Ma la Milano-Sanremo, dice Zandegù, “è un mistero, un enigma, un rebus, un giallo, un thriller. Un gran casino. E come nei film giusti, l’assassino, cioè il vincitore, si scopre soltanto alla fine, magari con un colpo di scena. Tranne quando c’era Eddy Merckx”, perché se c’era lui si sapeva fin dall’inizio chi l’averebbe vinta.
Nel 1972 decide di appendere la bici al chiodo, organizzando il suo gran finale con un’uscita di scena che risulterà indimenticabile. Giro di Lombardia, 7 ottobre. Zandegù aveva accumulato un vantaggio notevole ma in salita sentì ben presto che le forze stavano calando e allora scese dalla bicicletta e l’appoggiò a un paracarro vicino a un capitello con una statuina della Madonna. Si fermarono giornalisti e fotografi e fu lì che lui, Dino Zandegù, annunciò ufficialmente il suo ritiro dalle corse. “La chiudevo lì, ma la chiudevo alla grande, in testa alla corsa, da corridore vero. Un finale col botto”.
Zandegù, quinta elementare e diploma preso alle serali, in quegli anni formidabili amava la lirica. Il suo tenore preferito? Mario Del Monaco, incontrato in una esclusiva serata di gala al ristorante “Da Lino” a Solighetto in occasione del premio intitolato a Toti Dal Monte. C’era anche Renato Bruson, il baritono padovano, che cantò un’aria dal “Barbiere di Siviglia” e che lo fece commuovere.
E lo incantavano quelli che sapevano poesie a memoria. É il caso di un suo compaesano, Ezio Mandolin, che forse aveva fatto la quinta elemntare, ma che conosceva a memoria tutta la “Divina Commedia” e che lo costrinse a imparare il sonetto “Alla sera” di Ugo Foscolo, perché, gli ripeteva, “prima o poi ti servirà”. E ricorda anche Franco Lotti, ciclista fiorentino del suo gruppo, che di canti della Divina Commedia ne sapeva a memoria dieci, e che glieli “declamava a occhi chiusi e con il cuore aperto”.
Tanti dunque i nomi di persone e di luoghi ricordati in queste sue storie, però non sapremo mai chi possa essere stato quel giovane prete incontrato su un drittone dell’Agerola o del San Pellegrino in una tappa del Giro d’Italia, quando Zandegù, ultimo e scoraggiato, stava per rassegnarsi al ritiro non solo dalla corsa ma dal ciclismo. Sì, perché un drittone è un rettilineo di chilometri e chilometri in salita e non c’è di peggio, specie per chi, come Zandegù, non è nato scalatore. Meglio i tornanti, che lasciano sperare che la pendenza si addolcisca o che addirittura la strada scollini. Ebbene, su quel drittone c’erano lui e Aldo Pifferi e quel giovane prete poteva spingerne solo uno dei due. “Spingi me, sennò bestemmio!” gli gridò Zandegù. E il giovane prete si mise a spingere proprio lui, non Pifferi che gli passava davanti per primo, consapevole, forse, che, se non faceva così, rischiava di macchiarsi di un doppio peccato mortale, “quello mio, ma anche quello suo” – ipotizza Zandegù-, perché comportandosi diversamente quel pretino si sarebbe reso complice di una bestemmia. Se quella volta erano sull’Agerola o sul San Pellegrino poco importa, perché la storia è di sicuro vera, almeno per il 90%.
Chi scrive, Zandegù l’ha anche conosciuto. Ero un ragazzo quando il campione di ciclismo entrò in casa dei nonni a Rubano per salutarli o forse mio zio, che aveva sposato una delle sue sette sorelle, mi accompagnò per conoscerlo al panificio di Rubano. Mi parve subito un omone grande e forte, un vincente, un idolo. Quando facevo a gara in bici con i coetanei sulla strada di casa, non ancora asfaltata, tagliavo anch’io il traguardo, alzando la mano destra proprio come faceva lui quando vinceva. E anche questa mia è una storia vera come le sue, vera almeno al 90 per cento.
Zandegù vince la seconda tappa del Giro di Sardegna, 1968

La famiglia Zandegù festeggiata in Municipio a Rubano quando Dino aveva appena vinto la medaglia d’oro ai Mondiali del 1962 nella cento chilometri a squadre

