Ariano nel Settecento: un processo per atti vandalici

Proseguiamo nella pubblicazione dei testi che l’autore ci ha affidato prima della sua scomparsa.

Lunedì 21 marzo 1796 tale Girolamo Leccioli si presentò nella Cancelleria Criminale di Ariano per denunciare senza animosità un fatto deplorevole di cui accusava Carlo Chiericati ed altri soggetti non identificati:

“Faccio sapere a questo tribunale che la notte scorsa alle sei ore circa (verso la mezzanotte) ho sentito, stando a letto, del rumore sopra l’argine del Po e per la strada, come pure ho sentito aggirarsi gente vicino alle finestre della cucina che ho al pian terreno. Perciò mi sono alzato e, aperta una delle finestre, ho trovato essere stata stracciata la tela che ricopriva il telaio. Avendo osservato anche l’altra, ho trovato essere stato fatto lo stesso. Mentre stavo alla finestra, ho veduto quattro o cinque giovinastri, che erano sopra l’argine del Po, fra i quali ho riconosciuto Carlo Chiericati, mentre gli altri non ho potuto conoscerli. Io ho detto: Queste non sono figure da fare ai Galantuomini! ed uno di quelli, non so dire chi, mi ha risposto Va’ a prenderlo in culo, e se vuoi qualche cosa vieni qui sull’argine. Ciò sentendo chiusi la finestra, e me ne ritornai a letto. Dell’accaduto Informo questo Tribunale dell’accaduto, acciò sia punito il suddetto Chiericati, e gli altri, che verranno scoperti a norma del loro cattivo procedere, e la Giustizia abbia il suo corso”.

Lo stesso giorno Francesco Sansilvestri Monti, medico del paese, dichiarò:

“La notte scorsa è stata fatta cadere in terra dal mio poggiolo, che guarda sopra l’orto del signor Giuseppe Ponzi e che è alto da terra dodici piedi circa (metri 4,80), una cassetta di legno con dentro dei fiori, parte dei quali sono stati portati via e parte dispersi per terra, come pure mi è stata portata via una pignatta con dentro altri fiori. Si crede che gli autori possano essere stati alcuni giovinastri, che hanno girato e fatto schiamazzo per il Paese. Perciò ne dò parte a questo Tribunale, acciò la Giustizia abbia il suo corso”.

Le bravate notturne suscitarono scalpore per la notorietà delle persone prese di mira. Il giorno dopo si presentò a deporre spontaneamente Aloisio Ponzi. È una mossa calcolata allo scopo di evitare possibili sanzioni. Dopo aver giurato sulle Sacre Scritture, ricostruì, senza poter essere contraddetto, la sua versione dei fatti:

“Sono venuto in questo Tribunale di mia spontanea volontà per farvi sapere come domenica sera scorsa io, mio fratello Gaspare Ponzi, Mariano Maestri, Carlo Chiericati e Matteo Cenacchi detto il Bolognese -che una volta era a servizio dal signor Almerico Tescari – andammo tutti verso le due di notte (ore 20) nell’osteria nuova di ragione del tenente Vincenzo e fratelli Camisotti.  Colà giunti, ci facemmo portare del vino. Abbiamo bevuto tutti assieme, discorrendo di varie cose e giocando alla morra. Restammo lì, credo, fino alle ore sette circa (l’una di notte), poi partimmo e tutti assieme ci portammo sopra l’argine cantando. Quando fummo arrivati dirimpetto alla casa del Signor dottor Monti uno dei miei compagni, che ora non ricordo chi fosse, disse andiamo a fiori e tutti dicemmo di sì. Io, mio fratello e Carlo Chiericati prendemmo delle lunghe pertiche accatastate lì vicino, poi le riportammo dove le avevamo prese. Mentre salivamo sopra l’argine, mio fratello Gaspare scavalcò la muraglia e andò a gettare giù dal poggiolo un vaso, o una pignatta di fiori, che si ruppe. Prese i fiori e li divise con Mariano Maestri. Nell’atto che mio fratello andò a buttar giù il vaso, o pignatta, io, il Bolognese e Carlo Chiericati andammo avanti. Quando sentimmo che mio fratello e Mariano Maestri correvano verso di noi, fuggimmo e andammo a nasconderci sulla scala di una casa. Poi uscimmo, e salimmo sopra l’argine dove erano gli altri, e tutti andammo in giù cantando fino di fronte alla casa di Luigi Maestri, poi tornammo indietro. Mio fratello andò giù dall’argine, e quando fu vicino alla casa di Girolamo Leccioli detto Seba, con un pugno e con la testa ruppe i finestrini di tela. Il Leccioli, affacciatosi alla finestra, disse qualche cosa, al quale nessuno rispose, fuorché Matteo il Bolognese, che disse due o tre parole ch’io non potei capire. Ciò seguito, tutti ci lasciammo ed andammo alle nostre case”.

Come si vede, troppi non ricordo e oscurità totale sui punti chiave della vicenda. Nessun accenno alle offese rivolte al povero Leccioli che aveva pensato bene di non reagire come l’istinto gli suggeriva e di ricorrere alla legge per ottenere giustizia. Probabilmente qualcuno temeva che la confessione spontanea non fosse bastata a passarla liscia. Così il 24 marzo Vincenzo Raimondi Baroncelli, per dovere del suo officio, si presentò davanti al tribunale e dichiarò: Gaspare Ponzi era un chiericotonsurato e Mariano Maestri paggio del signor alfiere Andrea Violati della compagnia dei Fanti della Terra d’Ariano. Come per dire: non crediate di toccare i privilegiati.

Il 14 aprile Angelo Bertaglia depose sotto giuramento quanto aveva saputo e udito circa il fatto:

“… abito in Ariano, in una casa di mia proprietà. Sappia V.S. che un mese circa, una notte che potevano essere sei, o sette ore (tra la mezzanotte e l’una) mentre dormivo, sentii sopra l’argine diversi giovinastri cantare, poi sentii Girolamo Leccioli detto Seba lamentarsi con quei giovinastri, dicendo, stando alla finestra Mi pare che questa non sia una serenata, ma un venire ad insultare i galantuomini. Sentii uno di loro dire al Leccioli Va’ a prenderlo in culo, e se vuoi qualche cosa vieni qua sopra l’argine. Poi il Leccioli chiuse la finestra e si ritirò in casa senza pronunciare altre parole. La mattina seguente, quando uscii, vidi, nel passare davanti alla sua casa, che erano state rotte le tele dei finestrini della cucina, ma io non posso dirle chi li abbia rotte, perché, come ho detto, mi trovavo a letto, e i giovinastri si partirono, ma dove andassero poi, io non lo so”.

Gli atti vandalici vennero considerati una trascurabile bravata. Il governatore di Ariano il 23 aprile 1796 assolse i membri della combriccola senza irrogare alcuna ammenda, con la sola raccomandazione di comportarsi correttamente in avvenire.

La sentenza, disapprovata dall’opinione pubblica, apparve ineccepibile a chi aveva segnalato al tribunale che uno dei giovinastri era servente di Andrea Violati, ufficiale della compagnia di soldati pontifici di stanza ad Ariano, l’altro, Gaspare Ponzi, un chierico tonsurato che si era impegnato a percorrere un serio (?) percorso di formazione sacerdotale. Costui, ricevuti gli ordini minori ed entrato in qualità di chierico minorista a far parte del clero, aveva il diritto a godere del privilegio del foro ecclesiastico nel caso fosse stato accusato di reati. (1) Di carattere, diciamo così, esuberante, poteva contare su una famiglia abbiente e su un padre indulgente e protettivo.

L’8 febbraio 1796, due mesi prima della bravata notturna, il vescovo Arnaldo Speroni degli Alvarotti  si era lamentato del comportamento di questo aspirante prete. Qualche tempo addietro il parroco era stato costretto a levargli pubblicamente il collarino, dovendo però subire le rimostranze del genitore. Ma Gaspare, benché ammonito, aveva ripreso a commettere prepotenze, a praticare insolenze senza ritegno, a perseguitare sistematicamente con atti di bullismo il figlio di Giovanni Zuccari, persona retta e stimata. Il vescovo aveva ordinato al vicario di convocare l’irrequieto giovane a Ferrara e di ammonirlo “anche se non tiene più il collarino, altrimenti non emendandosi, si penserà ad una seria correzione, che gli peserà molto”. Poi conclude amaramente: “L’animosità di quel Paese è arrivata all’eccesso, né conviene dissimularla da chi si aspetta, e massime dal Vescovo, giacché il male è nei ministri della Chiesa, forse per troppa clemenza mia”. Parole gravi e sconsolate, spia di un deterioramento nelle relazioni sociali impensabile qualche decennio prima.

NOTA

(1) Il privilegio del foro ecclesiastico (privilegium fori) è una norma giuridica – di origine tardo-imperiale romana, rimasto in vigore nel Medioevo –  che, in caso di violazione della legge, sottraeva gli uomini di chiesa (chierici) al giudizio dei giudici sia in sede penale che civile e lo attribuiva soltanto al tribunale ecclesiastico del proprio vescovo.

Qui sopra: stemma del vescovo Arnaldo Speroni degli Alvarotti, collocato sul timpano della chiesa di Sant’Agostino a Rovigo. Nato il 17 gennaio 1728 nell’antica dimora padovana del suo casato, fu eletto vescovo di Adria il 2 giugno 1766. Promosse con determinazione la costruzione del seminario vescovile di Rovigo, inaugurato il 23 novembre 1794. Morì il 2 novembre 1800. Propongo alcuni cenni sulla visita pastorale compiuta ad Ariano, nella basilica parrocchiale di Santa Maria della Neve il 10 giugno 1790. L’arciprete, don Domenico Angelini, lo informò della situazione. La parrocchia aveva 4.016 anime, quattro cappellani (don Bellino Pozzati e don Agostino Moregola nella chiesa parrocchiale, don Francesco Felisatti a Santa Maria, don Carlo Mantovani a San Basilio); don Girolamo Crepaldi, don Romano Mantovani (confessori) don Francesco Tabarrini, con Giacomo Giorgi, don Bartolomeo Battaglia e don Gaetano Tesini, oltre a quattro chierici. Tutti si comportavano degnamente. Tra i parrocchiani non erano diffusi particolari disordini. Il vizio dominante era di essere sboccati e bevitori. Il giorno dopo visitò la chiesa di san Nicolò con l’annesso convento dei frati francescani riformati, l’oratorio di San Lorenza al di là del Po, la chiesa di san Gaetano non ancora perfezionata, con una bella torre campanaria. Ma da un colloquio riservato con i due cappellani curati (ove non si poteva tacere la verità) emergeva un comportamento incoerente: “L’arciprete è piuttosto indolente, poco attento al confessionale e così nel dire la santa messa. Non dà la benedizione col Santissimo, non va mai ad assistere i moribondi, non fa le funzioni nemmeno nelle feste solenni…”.

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